Quella di Stanlio e Ollio appoggiati su un baule tenendosi ciascuno la testa con una mano è un'icona del cinema. L'ho vista un attimo fa ed istintivamente ho sorriso. Poi mi sono chiesto: ma perché ho voluto sorridere? Quei due volti ci “comandano” di sorridere. Tutti abbiamo gustato le loro avventure almeno una volta nella vita; tutti abbiamo sorriso per i loro goffi e maldestri tentativi. Nell'immaginario collettivo, quei due “fanno ridere”, cioè “devono” farci ridere. Vedo quella foto e istintivamente sorrido. Sorridere non è ridere: sono due cose profondamente diverse. Ecco il punto su cui rifletto: lo scoprirsi a sorridere e domandarsi il perché. Perché ho sorriso? E' stato un sorridere istintivo. Ho inconsciamente obbedito al comando di sorridere, generato da quei due volti. Eppure, nelle loro avventure e disavventure, c'è oggettivamente poco da ridere. Umiliazioni e fallimenti: cosa c'è da ridere? Ridiamo perché ci sentiamo estranei a quei fallimenti. Ridiamo perché è bello sapere che un determinato guaio, di cui veniamo a conoscenza, riguarda persone tutto sommato lontane dalla nostra vita. Talmente lontane che si può ridere delle loro disgrazie. Stanlio e Ollio, il ragionier Fantozzi, Wyle E. Coyote e tutti gli altri personaggi “comici” catastrofici, ci fanno ridere perché calamitano disgrazie che (evviva evviva) non ci riguardano. Ci fanno ridere perché godiamo delle loro disavventure senza senza doverci accusare di essere sadici.
venerdì 12 novembre 2010
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