martedì 12 agosto 2014

Alcune settimane fa un collega di lavoro tentò il colpo della sua vita. Con un giro di parole riuscì a coinvolgermi in una discussione riguardante un suo problema (era in arretrato sul suo lavoro) e a convincersi che io gli avrei dato una mano (cioè risolto il problema al posto suo). Io non ricordo cosa ho detto. Può darsi persino che io abbia detto “non preoccuparti, ci penso io”. Ma se l'ho detto davvero, è perché in quel momento non avevo capito che stava scaricando su di me la fastidiosa responsabilità. Così, quando alle quattro del pomeriggio mi scrive su skype per chiedermi “a che punto siamo”, io casco dalle nuvole. A che punto siamo di cosa? Lui accenna a quel problema. Resto per qualche secondo fermo a riflettere su quale risposta dargli. “E io che c'entro?” no, troppo offensiva. “Ma cosa avevi capito?” no, ancora più offensiva. Allora cerco di prendere tempo: “non so che dirti, tu cosa hai fatto finora?”. Niente, niente di niente. Aspettava proprio che lo facessi io. Se non avesse aggiunto altro, forse mi sarei lasciato commuovere. Ma nell'urgenza di rifilarmi la rogna si lascia sfuggire: “mi avevi detto che ci avresti pensato tu”. E allora divento un blocco di cemento ghiacciato. Gli rispondo che non ricordo di aver mai detto una cosa del genere. Lui insiste, e io aggiungo che “può darsi” che lui abbia capito male, e lui insiste ancora e io ribatto che non sono in grado di fare una cosa del genere tanto meno nel tempo rimasto, e che proprio per questi motivi non sarei stato capace di promettergli alcunché. Il collega è furbo e perciò incassa la temporanea sconfitta senza aggiungere altro. Sa che in questi casi l'insistenza è deleteria. Mi chiedo se abbia capito di essersi giocato una carta preziosa.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti vengono generalmente pubblicati solo dopo l'approvazione dell'autore del blog.