venerdì 29 aprile 2011

Quando certe donne mi vedono che mi aggiusto i vestiti o i capelli e mi chiede “per chi ti fai bello?” vorrei tanto rispondere “per te”. A volte ho perfino l'impressione che quella domanda mi sia posta proprio per ottenere quella risposta. Ma dato che la risposta è troppo chiara, non sarebbe accettata. Una donna mi desidera, mi fa perfino una domanda per verificare che io accetti di stare insieme a lei e poi, nell'avere una risposta positiva... si schermisce, si tira indietro, la butta sullo scherzo. Corteggiare una donna, di questi tempi, è qualcosa di complicatissimo. Non puoi parlar chiaro. Puoi solo girare intorno all'argomento, evitando di proferire quel “sì” finché lei non ti ha mostrato con un milione di piccole prove che è definitivamente d'accordo. Ma perché non si può parlar chiaro? Che c'è di fastidioso a che un uomo ti dica che avrebbe piacere a spendere l'intera sua vita con te? Purtroppo il fastidio c'è: sono le amiche che mormorano, sono le invidie che lavorano per distruggere, banalizzare, umiliare, sono i sentimenti passeggeri (ora ti ama e tra un minuto sarà dubbiosa, ora è dubbiosa e tra un minuto sarà indecisa, ora è indecisa e tra un minuto ti amerà per un minuto e poi tornerà ad essere indecisa, dubbiosa e distante). Mi sento tanto in pena per quelle donne che accettano una corte barbara da qualche uomo barbaro, accettano solo perché non hanno risposte abbastanza barbare, accettano solo per la noia di dover combattere. Quei fidanzamenti, comunque, durano poco e niente. Un uomo sincero è capace di mantenere il “sì” dato anche per scherzo; ma gli uomini sinceri, oggi, sinceri almeno come me, sono una percentuale minuscola, sopraffatta dalla barbarie degli uomini barbari, sopraffatta dalle donne incapaci di accettare che nel mondo esistono anche uomini sinceri.

giovedì 28 aprile 2011

Le due vecchie amiche si incontrarono gioiose. Erano passati quasi trent'anni dai tempi della scuola. Avevano superato i quaranta e avevano smesso di far di tutto per nascondere le rughe. La prima, dopo aver fatto trastullare vari uomini (in tempi recenti anche uomini sposati), si ritrovava ancora sola. “Ho sposato il videoregistratore”, continua a dire ancor oggi. L'uomo giusto era sempre quello che ancora non aveva conosciuto. L'uomo con cui riusciva ad avviare una storia era sempre quello che poi non vedeva l'ora di concluderla. Si sentiva ancora lusingata nel ricevere telefonate da questi vecchi “ex” in astinenza da avventurette, ma aveva finalmente imparato a non dare altro che qualche parolina dolce e un sorriso: lo so che vuoi solo scoparmi, lo so che i tuoi sentimenti finiranno un attimo dopo che non ti servo più. L'altra amica era stata più decisa. Dopo varie storie finite in storiaccia aveva finalmente lanciato la rete su uno spilungone che stava divorziando. Riuscì in breve tempo a trovarsi incinta nonostante ogni precauzione, ma forse era una cosa voluta: “faccio” un figlio per vendicarmi della mia famiglia, vedete? sono capace di far figli, ho una mia vita, ora sono una mamma, non sono più una ragazzina malcresciuta e maleducata. Quando nacque la seconda bambina il finalmente divorziato scomparve dalla circolazione (lavorare all'estero assicura questi piccoli vantaggi) lasciando la finalmente realizzata mammina in condizioni di subire nuovamente i rimbrotti dei familiari. Le due vecchie amiche non potevano non ristabilire una ferrea amicizia, vedendo l'una nell'altra l'unica amica di cui ci si può fidare. Progettarono addirittura di andare a vivere insieme, se non altro per risparmiare sulle bollette e sull'affitto, ma i due marmocchi furono argomento sufficiente per far desistere la prima.

mercoledì 27 aprile 2011

Era a piedi nudi anche lui, però avevo ugualmente l'impressione che stesse facendo di proposito la strada più lunga e avanzasse senza troppa fretta. Forse lo faceva per non farmi capire il posto esatto, ignorando che conoscevo bene il villaggio sulla collina. Restai silenzioso anch'io per tutto il tratto di strada: ero già stato umiliato a sufficienza da quel suo strano sorriso un attimo prima che ci mettessimo in cammino. Avevo fame, una fame nera, e avevo una misera speranza di essere accolto anch'io. Durante il tragitto mi figuravo ogni emozionante scena di successo, perché ero vestito di stracci come lui, avevo i capelli arruffati e sporchi come i suoi, soprattutto avevo fame come lui: sarebbe stato così difficile dire di sì anche a me? Lui sembrava godere di un abbonamento, ogni giorno trovava qualcosa, forse trovava presso questa stessa casa, forse no. Cercavo di non pensare alle possibili pietanze (misere e gustose allo stesso tempo) per non provare delusione o disillusione. All'improvviso entrò in un cortiletto. Una vecchia casa in pietra grigia, ad un solo piano, senza animali: doveva abitarvi una famiglia agiata che non aveva bisogno di lavoro manuale. Fu tentato di dire “è qui” ma strozzò la seconda parola in gola e per me fu peggio di una caduta nel fiume nel giorno di Natale, perché significava che non avrebbe appoggiato in alcun modo la mia richiesta (quanto mi ero illuso fino a quel momento!) Bussò. Per un tempo lunghissimo nessuno si fece vivo. Per un paio di interminabili minuti qualche raro passante vide due cenciosi affamati bussare a quella porta. Dovevamo tener scritto a caratteri cubitali tutto l'urlo della nostra fame sulla fronte e negli occhi: qualcuno ci vide, me ne vergognai un po' ma soprattutto ne ebbi paura, perché bastava che qualcuno del villaggio mi inquadrasse come accattone per perdere tutte le future possibilità di aiuto. Stavo per proporgli di bussare di nuovo, ma aperta bocca non feci uscire suono. Lui non mi guardava, io non potevo e non dovevo rischiare di perdere la mia grande occasione solo per un po' di ansia. Per questo tacqui ancora, guardando solo il grosso pomello scuro con cui aveva bussato: sicuramente ci avranno sentito. Finalmente uno scricchiolare al di là della porta, e qualche secondo dopo entrambe le ante erano aperte a sufficienza per far entrare una persona della nostra corporatura. Lui entrò per primo ed io lo seguii mordendo disperatamente i miei nervi per evitare di dare l'impressione di aver fretta. Mi sentii come un clandestino. Eppure quando la sera prima mi ero proposto, lui aveva detto “se vuoi venire...” quindi voleva dire che se volevo, potevo venire anch'io: non me lo ero fatto ripetere due volte e mi ero addirittura presentato all'appuntamento dieci minuti prima del previsto. Lui era giunto appena tre-quattro minuti dopo e fece cenno di seguirlo (avrà probabilmente visto la mia espressione di soddisfazione, avrà probabilmente capito che avevo capito che lui aveva tentato di buggerarmi). Così, finalmente, entrai anch'io, trovandomi in quell'ingresso spoglio, lungo quattro o cinque metri e largo meno di due, senza finestre, senza mobili, con una porta in fondo a sinistra e un donnone alto e grasso con gli occhiali che ci guardava. Aprii bocca ma lui già stava parlando: “sono l'amico di suo figlio”, disse. A questo punto intervenni io ma di tutti i discorsi che mi ero preparato, mi uscirono solo tre misere parole (“sono suo amico”) che sembrarono un grottesco eco di quel che aveva detto lui e che chiunque avrebbe inteso come “ho fame anch'io”. Il donnone, celando un po' di seccatura, mi si avvicinò facendo un gesto per allontanarmi e dicendo qualcosa che non ricordo più, ma che mi sembrava che suonasse come “no, no, questo non è un ristorante”. Mi ritrovai nel cortiletto senza sapere come, e qualche attimo dopo le due porte nere si chiusero facendo un rumore sordo. C'erano delle persone lì intorno. Preso dal terrore di essere etichettato come accattone, mi diressi subito verso la stradina in discesa e andai avanti di buon passo cercando di non piangere, perché il pianto ravviva la fame e perché avrebbero capito tutti cosa era successo.
Quello squallido soprannome mi è stato incollato addosso quando avevo nove anni. Fino alla maturità me lo hanno ripetuto e straripetuto. Ogni volta che lo sentivo pronunciare, era come una pugnalata. Più sapevano che mi dava fastidio e più me lo ripetevano. Quando con sommo sforzo tentai di far pensare che non mi dispiaceva, i più maliziosi capirono che fingevo, e pertanto insistettero ancora di più a chiamarmi in quel modo. Gli uomini singoli possono essere buoni, ma quando si raggruppano diventano branco, diventano bestie ciniche e sadiche.

martedì 26 aprile 2011

L'esistenza dei tabù di oggi. Si parla di mutande. Seccato, getto lì una risposta per cambiare discorso. Ma a quel punto una donna mi domanda: “ma tu non te le cambi ogni mattina?” Penso che lo abbia domandato senza malizia, ma intanto quelle parole hanno fatto fermare il sistema cardiocircolatorio di tutti i presenti. Guai a non rispondere “sì”; anche il silenzio è drammatico. Una domanda come quella richiede l'immediata, tassativa, convincente risposta affermativa, senza dubbi, senza remore, anche quando si debba dire il falso. L'igiene - anzi, l'igienismo - è uno dei tabù dell'epoca contemporanea. Perfino la parola “lavare” sembra quasi da cafoni. Sembrava una domanda stupida (“ma non ti cambi le mutande ogni mattina?”) ma a causa del tabù igienista diventa un'accusa formidabile e furiosa. Si ferma il mondo, si fermano i sistemi cardiocircolatori di tutti i presenti, occorre una risposta. Perfino il rispondere in maniera volgare e ridanciana sottintende una risposta positiva. Il tabù impaurisce tutti, frena tutti, mette tutti nella posizione di accusarti con qualche etichetta infamante, sembra che tutto il mondo ti condannerebbe. Oggi non c'è più Stalin, ma i tabù ci sono lo stesso.
“Casa mia casa mia, per piccina che tu sia...” Ci affezioniamo alla nostra piccola casa, anche se piccola, imbottita di tante nostre piccole inutili cose, irraggiungibili depositi di polvere, circondata da fastidiosi rumori e odori dai vicini e dalla strada. Calda d'estate e fredda d'inverno, non importa. L'affezione per questa minuscola caverna è ancora più grande per il sempre imminente pericolo di essere mandati via.
Coloro che per lamentarsi cominciano con le parole “perché proprio a me?” sono in genere quelli che hanno avuto la brutta sorte di non aver tenuto conto delle circostanze. Lamentano insomma solo la loro ignoranza, ignoranza che talvolta è colpevole perché dipendeva dal menefreghismo anziché da un'incapacità umana.

venerdì 22 aprile 2011

Dopo la menopausa quella donna aveva sviluppato lo spirito imprenditoriale nel campo immobiliare. Comprava una casa, dava una ripulita e un'imbiancata alle pareti, un'aggiustatina ai servizi igienici o ai termosifoni, e nell'arco di un anno la rivendeva a prezzo maggiorato, scremando un guadagno sempre più considerevole. Il mercato delle case andava ancora a gonfie vele. Era orgogliosa dei suoi successi, un po' meno orgogliosa del figlio sbalestrato e della moglie isterica di costui. Ad un certo punto, mentre il mercato cominciava a rallentare, volle tentare un'operazione alquanto ardita. Ebbe la faccia di bronzo di chiedere un prestito al figlio e alla nuora: diamine, due stipendi, potranno ben partecipare a questa operazione che ci arricchirà. Né loro né la banca ne vollero sapere. L'operazione non andò in porto ma prima che le venisse un magone micidiale aveva già comprato un'altro appartamento e si apprestava a rivenderlo. Con dispetto si accorse che era difficile rivenderlo. A quattrocento era impossibile, a trecentottanta non lo voleva ancora nessuno. Eppure al pianterreno hanno venduto a trecento un bugigattolo malridotto! Trecentosessanta, ancora nessuno. Doveva venderlo assolutamente, doveva “rientrare”, a costo di andare a pareggio doveva venderlo. Trecentocinquanta e nessuno si faceva avanti. Sarà l'estate, aspettiamo settembre. Nessuno. Un imprevisto fattaccio di cronaca nera nella zona rese ancora meno appetibile l'acquisto, con la crisi immobiliare che gonfiava sempre di più. Un mattino in treno le capitò di ascoltare una conversaione tra due persone. Parlavano della vendita di un grosso appartamento. “Nel 1971 suo padre aveva appena cominciato a lavorare, lo pagò quattordici milioni. Ora vuole venderlo a cinquecentomila”. “Perché cinquecentomila?” “Sai, sono cinque figli, e ognuno di loro voleva centomila euro”. Cifra tonda. Il valore dell'appartamento era stato fissato in base alla cifra tonda moltiplicata per cinque figli. Quattordici milioni di lire, nel 1971, erano poco meno di tre anni di stipendio. Cinquecentomila euro, per quello stesso mestiere e quella stessa specializzazione, sono trent'anni di stipendio. In quarant'anni, una casa comprata a “tre” vogliono rivenderla a “trenta”, come se l'invecchiamento e l'uso ne avessero decuplicato il valore. Fra quarant'anni, allora, pretenderanno “trecento” anni di stipendio? La donna restò talmente scioccata nell'udire quella conversazione surreale, che fu tentata di non scendere dal treno per continuare ad ascoltare e ripensare all'assurda lievitazione di prezzi degli immobili. Stava chiedendo trecentocinquantamila euro per un appartamento. Tentò di darsi una giustificazione: l'ho pagato trecentotrenta, lo rivendo a trecentocinquanta con un po' di manutenzione fatta, ci vado quasi a perdere. Ma possibile che un appartamento debba costare (in termini di salario reale) dieci volte il prezzo che aveva quarant'anni fa? Possibile che con quel “basso” prezzo (appena trecentocinquantamila) si facesse fatica a venderlo? Possibile che il mercato immobiliare stia arretrando proprio perché il prezzo delle case è assurdamente alto rispetto al loro valore? Possibile che ci sia stata gente che ha speculato su case pagate “tre”, rivendendole a “trenta” (da 14 milioni di lire a mezzo milione di euro) dopo averle utilizzate per vari decenni?
L'entusiasmo incomprimibile dei coniugi Furbetti e della loro inutilissima attività commerciale pone involontariamente un paio di tristi domande. Prima domanda: è sempre stato così? Il commercio si è sempre basato sulle meschinità dei Furbetti di turno? Il commercio è stato solo la pretesa di arricchirsi? Allora perché mai sono sempre esistiti agricoltori, pastori, allevatori, falegnami, calzolai e quant'altro? Perché mai sono esistite persone che hanno materialmente fabbricato merce indispensabile (non solo alimentari)? Coloro che materialmente producono sono stati forse più stupidi degli altri? Producevano senza la volontà di arricchirsi? Quando la ricchezza è proporzionale al numero di ore di sudato lavoro, nessuno si è mai arricchito. Allora perché lo hanno fatto quando non erano costretti né dalla povertà né dalla schiavitù? Seconda domanda: l'espressione principale del lavoro è l'esprimersi o lo sfiancarsi? Lo scopo primario del lavoro è realizzare qualcosa con le proprie capacità e creatività, oppure capacità e creatività sono solo di impaccio all'arricchirsi il più possibile? Lo scopo primario del lavoro è sostentarsi o arricchirsi?

giovedì 21 aprile 2011

I coniugi Furbetti sono di nuovo all'opera, entusiasti per l'attività commerciale che stanno avviando, pronti a vendere all'universo mondo della merda comprata un minuto prima. Lo scopo di tante attività commerciali è proprio questo: porsi come intermediari. Nella catena che va dal produttore al cliente finale, intendono aggiungersi come anello supplementare. Allungano la catena e spuntano un guadagno in virtù del fatto che fanno parte della catena. “Dobbiamo solo ordinare le cose che ci chiedono i clienti”, giubila la signora Furbetti con le mani incrociate all'altezza del mento e due occhi luccicanti di gioia: già pregusta un lavoro totale di meno di dieci minuti al giorno, passati tra telefonate ai fornitori e contrattazioni coi clienti. “Ne venderemo a montagne”, si dice tra sè e sè, sognando che il mondo avesse aspettato il Trucco Furbo dei coniugi Furbetti per far esplodere una domanda di merce nel momento esatto in cui loro la pongono in offerta.

mercoledì 20 aprile 2011

Uno degli sport preferiti delle donne è tormentare uomini. Lei colleziona spasimanti. Si diverte a tenerli sul filo del rasoio, si diverte a tenerli al guinzaglio, si diverte a concedere loro un centimetro per poi un attimo dopo riprendersi un metro. Un vero supplizio. Poi all'improvviso scoprono più o meno tutti che si è appena fidanzata con un orang-utang conosciuto da poco, dalle improbabili caratteristiche umane, dalle improbabili sensibilità, talvolta perfino dall'improbabile status sociale ed economico. Lei continua a punzecchiare le sue vittime, continua a stuzzicare le sue cavie, lasciando presagire che da un momento all'altro pianterà il bellimbusto per stare con te... Sono passati più di undici anni. Con quel bellimbusto ci ha fatto due figli e una volta ha perfino minacciato (solo minacciato) il divorzio. Il bellimbusto è sempre lo stesso scimmione di sempre. Ho ricordato questo episodio perché ho incrociato, per caso, due miei compagni di sventura. Eravamo amici al bar, eravamo segretamente innamorati della stessa donna, sapevamo con certezza l'uno degli altri anche se non avevamo mai affrontato il discorso (per questo eravamo ancora amici) e ci venne lo stesso magone (sebbene con differenti modi di esprimerlo) quando scoprimmo che la nostra principessa era stata impalmata dal nipote di King Kong. All'epoca ne soffrii tanto, forse più degli altri, ma oggi ho capito che quando una donna odia sé stessa (sentimento talvolta espresso con uno strano, eccessivo, curioso “amar troppo” sé stessa), finisce nelle grinfie del primo che la maltratta sul serio.

martedì 19 aprile 2011

I coniugi Furbetti (cognome di fantasia ma particolarmente appropriato) hanno deciso di avviare un'attività commerciale. Quale è il loro scopo? Come tutti: guadagnare una montagna di soldi. Per loro le categorie merceologiche sono tutte uguali. Vendere questo o vendere quello non fa differenza: l'importante è guadagnare. Cos'è che nel mercato “tira” di più? Cos'è che oggi ci arricchirebbe con la minima fatica possibile? Come si fa a vivere di rendita? Come si può fare a stimolare il consumo, anche inutile, soprattutto inutile, della merce che abbiamo a terra? Come si fa a sbolognare merce di qualità scarsa a prezzi più che gonfiati? Va da sè che quando la maggioranza degli imprenditori si muove in questo modo, il disastro è assicurato. Tutti inseguono il guadagno facile. Tutti inseguono il sogno del vivere di rendita, cioè di guadagnare senza lavorare: tutti pensano di essere Furbi Furbetti dotati della inevitabile missione di estrarre denaro dagli Stupidi Stupidotti. Salvo rarissimi casi, l'imprenditoria è un gioco a chi è più furbo, più meschino, più veloce nell'estrarre ricchezza dagli altri. Mentre è legittimo domandarsi quale lavoro può assicurare un ragionevole guadagno a fronte di una ragionevole fatica, è da meschini furbetti l'affannarsi a cercare modi di estrarre ricchezza senza faticare, o peggio, estrarre ricchezza dalle tasche altrui. Ecco perché in Italia la maggioranza dei lavoratori sono improduttivi, ecco perché in Italia c'è tanta gente che “lavora” nello spettacolo e in altri inutilissimi campi, ecco perché l'Italia, culla del sapere, culla della cultura, culla della ricerca scientifica, abbisogna di badanti e manovali d'importazione: vogliono essere tutti imprenditori dell'ozio, vogliono arricchirsi senza fatica, hanno rifiutato la cultura che non serve alla loro vanità, hanno rifiutato la ricerca e il lavoro perché faticosi, hanno rifiutato i mestieri più produttivi. Manovali e badanti di importazione. Un popolo si sta spegnendo. I coniugi Furbetti sono l'emblema: non vogliamo rispondere ad una necessità concreta della società, vogliamo solo riempirci di soldi con la fatica minima possibile.

lunedì 18 aprile 2011

Sono in chat con una vecchia amica. Siamo così vicini, di cuore, l'uno all'altra, ma c'è qualcosa di tremendamente assurdo che impedisce che noi ci si possa ritrovare insieme. Questo qualcosa è probabilmente la nostra familiarità. Tanti anni di familiarità diventano (incredibile!) un ostacolo all'innamorarsi. Ti considera talmente “amico” da essere incapace di pensarti almeno per un attimo come amante. Forse le sue amiche le avranno anche detto: “ma perché non gli dai una possibilità?” E lei, lusingata, avrà risposto: “no, è troppo imbecille, no, è un amico di infanzia, no, è solo una tenera e lunghissima amicizia che perciò non può evolversi in un innamoramento”. Qualche volta io e lei abbiamo perfino scherzato sull'idea di stare insieme. Aspettavo quell'attimo di silenzio, quel minuscolo secondo di silenzio dopo il quale poter dire qualcosa come: “e se io facessi sul serio?” Ma lei non mi ha mai concesso quell'istante. Mi ha lasciato con un batticuore (probabilmente lo avrà anche notato: le donne sono capaci di notare tutti questi piccoli particolari che agli uomini sfuggono con ingenuità), ha cambiato discorso, ha lasciato cadere l'occasione.

venerdì 15 aprile 2011

Beato te che puoi invitarla ad andare al cinema. Con me non ci verrebbe mai. Sa che sono “pronto ad innamorarmi”. Ma stranamente non si accorge che anche tu sei pronto a dichiararti a lei. Forse sa come tenerti a bada, come cambiar discorso prima che tu riveli ciò che hai in cuore. O forse, come temo, è propensa a dirti di sì.

giovedì 14 aprile 2011

Sempre lo stesso sogno, in tutte le salse: sognare una bella donna che all'improvviso si innamora di te al cento per cento, senza nessun dubbio, nessuna remora, nessun problema, nessun ripensamento. Sempre lo stesso sogno. Abbiamo così tanta voglia di sentirci amati e privilegiati, che non ci disturba affatto sognare sempre la stessa cosa. Tutti gli uomini hanno sempre questo stesso sogno, in tutte le salse.

mercoledì 13 aprile 2011

La cosa più incredibile di questa società è che ci siamo abituati, completamente abituati, a sentire notizie di imbrogli, debiti, truffe, furti, malgoverno, scempio del patrimonio pubblico... e ce ne lamentiamo nei trenta secondi successivi alla notizia. Dopodiché tutto resta come prima. I sinistrorsi voteranno ancora a sinistra, i destrorsi voteranno ancora a destra, i centrorsi voteranno centro, i schedabiancorsi lasceranno scheda bianca, e così via. Alcune percentuali di gente disposta a cambiare voto dopo scempi e scandali fa cambiare (di poco) la disposizione delle carte in tavola. Ma l'Italia sprofonda sempre di più nella crisi, nella povertà, nel debito, nell'insignificanza. Nel dopoguerra coloro che avevano difeso l'Italia col sangue e con inenarrabili sacrifici hanno fatto di tutto per ricostruirla. Ma neanche vent'anni dopo è cominciata la rivoluzione del niente. I nostri nonni e bisnonni hanno dato la vita per assicurarci un futuro, e in pochi decenni il “futuro” si è rivelato una inutile farsa, una storia di truffe e sfruttamenti, un'Italia di cui vergognarsi.
Avvenne quando a scuola si accorsero che il mio tema conteneva molti “spunti”. Avevo scritto qualcosa utilizzando i termini più adatti. Mi dissero che dovevo mettermi in contatto con Tal dei Tali, esperto in materia, affinché questa capacità potesse produrre frutti. Ingenuamente, mi misi in contatto con lui; ancor più ingenuamente, gli scrissi i motivi e le circostanze. La sua risposta si fece aspettare parecchio: non potendo vendermi nulla, si limitò ad augurarmi buon lavoro e a consigliarmi di mandargli eventuali interventi futuri. Solo dopo un po' di tempo mi arrenderò all'idea che l'intervento pieno di “spunti” probabilmente non lo aveva neppure letto. Tanta spocchia era ingiustificata nei confronti di uno come me, così giovane e così ingenuo. Non ne parlai con nessuno, e comunque dal giorno glorioso degli “spunti” nessuno ne aveva più parlato con me. Io temevo di essere umiliato e loro forse temevano di aver avuto ragione. Io temevo di essere deriso e loro forse temevano di aver fatto nascere un nuovo astro senza poterci guadagnare niente. Sono passati tanti anni ed il Tal dei Tali è ancora lì dov'era allora, si sarà stancato anche di autocelebrarsi. Mi fa venire una sadica risata l'idea che il destino punisca con la sterilità perenne coloro che, anche una sola volta nella loro vita, per spocchia e avarizia non hanno voluto accettare un possibile figlio.

martedì 12 aprile 2011

Quando finalmente tutto tace e passi dal dormiveglia al riposo... c'è sempre un rumore secco, un tonfo sordo, un imbecille che crede che il fracasso sia un diritto sacrosanto e inalienabile. Perfino il riposo è diventato difficile, di questi tempi.
Nell'afa di fine luglio, ad una sperduta fermata di periferia, una donna in giacca, borsa e bottiglietta di tè parla al telefono. “Vado in udienza... Verbale... Giudice... Sai, la procedura poi...” Procedure. Senza fantasia, senza tocco artistico, senza inventiva, senza scelta. Solo procedure. Un lavoro come macchina. Deve solo seguire le procedure. Sei una macchina che gira allo stesso modo in tutti i giorni lavorativi dell'anno.

lunedì 11 aprile 2011

Il treno viaggia tra le poche luci della notte e tu guardi nelle case avido di scene di vita, assetato di compagnia. Ma sono solo dei noiosi neon e delle luci blu delle noiosissime tv. Loro, in quelle case, sono più soli di te.
Nel minuscolo cortiletto ha installato una vecchia seggiola a far le veci della sua fastidiosa presenza. Tra gli istinti fondamentali dell'uomo c'è il voler marcare il territorio. Non per necessità ma per affermare “io esisto, sono ancora vivo, merito”.

venerdì 8 aprile 2011

Le luci della notte mettono tanta curiosità quanta solitudine. C'è vita ma non si vede. Non si vede perché non è per te. Cerchi vita ma non vedi altro che buio, cemento e luci. Le file ordinate di lampioni, le insegne degli stupidi negozietti, le luci delle case. Tutto è muto. Curiosità e solitudine: nessuna di quelle luci chiama te.
“Te la farò vedere io: con me hai chiuso!” Crede di essere un duro. Crede che le donne non possano essere perdonate. Fa il duro col telefonino del suo amico, perché il suo è scarico. È comodo fare i duri con le ricariche telefoniche degli altri.

giovedì 7 aprile 2011

Venne fino a casa per protestare che... avevo sfogliato gli appunti delle lezioni della sua fidanzata. Che idiota. Non era mica un diario proibito. Non glieli avevo mica consumati o rovinati. Lei aveva già sostenuto l'esame e forse aveva già dimenticato la loro esistenza. Glieli affidai senza remore, non servivano più neanche a me. Resistei alla tentazione di gettarglieli dalla finestra, temendo una sua reazione sproporzionata. L'unico insulto che mi venne per colpirlo fu “non sai vivere”. Avevo ragione. Saper vivere significa anche saper valutare esattamente le cose. La sua fidanzata considerava ormai quegli appunti poco meno che carta straccia: lui invece ne aveva fatto una Questione d'Onore da Lavare col Sangue. Sangue virtuale, visto che ci sono tantissimi uomini come lui, per i quali la “lotta”, la “vendetta”, la “giustizia”, consiste nell'alzare la voce per qualche minuto proferendo frasi sconnesse per coprire la voce dell'interlocutore.
Queste bellone straniere tutte sexy che invadono la metropolitana mi sanno tanto di “usato garantito e rimesso a nuovo”. Quando vedo una bella donna, d'istinto cerco di valutare quanti letti ha attraversato. Una donna che si è fatta scopare da tanti uomini (fra cui, forse, anche il proprio marito) mi attrae poco: è una vacca da monta, che scoperei anch'io, ma con noia, solo per distrarmi. La vittoria dei maniaci è stata convincere la maggior parte delle donne che la bella e piacente femminilità consisterebbe nell'essere vacche da monta.

mercoledì 6 aprile 2011

Mi sorprendo sempre quando vedo le insegne di questi negozietti in cui abbondano le parole “crazy”, “matto”, “pazze”... e di tutti quei negozietti di “nonsoloquesto”, “nonsoloquello”. I nomi delle attività commerciali sono specchio della confusione di imprenditori che vogliono far soldi, tanti e subito, durante questa crisi feroce che ci dissangua tutti.
Sogni di avere quella donna, sogni che quell'altra ti ami, sogni di essere tu a decidere a quale donna assicurare il tuo cuore... sogni, sogni, sogni... sogni di avere tutte quelle donne, ma se anche fosse? Se anche tu riuscissi ad averle davvero in tuo pugno? Ti accorgeresti di essere come quei bambini ricchi seduti al centro della loro enorme reggia, circondati da un milione di giocattoli ma presi da un incredibile senso di noia.

martedì 5 aprile 2011

Ancora mi sorprendo della velocità con cui i giovani si invaghiscono delle nuove canzonette sfornate dal mercato, e della velocità con cui si dimenticano di quelle delle ondate precedenti. La parola più inutilmente cantata è ovviamente “love”, cioè “amore”, cioè la parola che oggi rappresenta il vertice dell'ambiguità e dell'equivoco. Sono tutti convinti di sapere cosa significhi “amore”, sono tutti pronti a darti spiegazioni, convinti di essere più esperti di te, ma non sono altro che dei ripetitori di frasi fatte e di canzonette dell'ultimo grido.

lunedì 4 aprile 2011

A noi che ci esaltavamo per quei telefilm, quelle imbecillissime fiabe trasmesse dalla TV, è toccato di affrontare la vita vera, reale, quella dove esistono le emicranie, quella dove esistono gli imprevisti e i ritardi, quella dove esistono gli intoppi e i contrattempi, quella dove i cattivi l'hanno sempre vinta e non c'è modo di rivalersi. Ci siamo rimpinzati di film e telefilm proprio perché erano così distanti dalla vita reale da farci sognare. Ma una volta risvegliati, è stato come rientrare in un incubo.
L'invasione delle extracomunitarie. Queste di cui parlo sono in maggioranza già negli anni della menopausa. Vestono in maniera elegante ma non ricercata. Mettono in mostra le curve (belle o brutte che siano: per l'uomo-maiale fa poca differenza). Le rughe tradiscono l'età, ma quei volti “troppo vissuti” è difficile trasformarli. In particolare, l'espressione del volto tradisce un'estraneità: non vogliono italianizzarsi, se non per l'anagrafe. Non vogliono la cultura italiana, non vogliono diventare italiane, vogliono solo il certificato di cittadinanza italiana e i diritti (ma non i doveri) che ne conseguono. Ecco perché ogni giorno ne sentiamo di nuove: seducono vecchietti, viaggiano a sbafo, lavorano solo per raggranellare soldi (specialmente in nero). Non sono storie razziste (lungi da me, che sono antirazzista convinto) ma sono purtroppo storie di tutti i giorni che possiamo vedere di persona oppure leggere sui giornali. Ogni giorno ne sento di nuove. Per esempio l'attempato vecchietto che tenta di frodare i figli (frodare i figli!) per poter comprare il monile preteso dalla badante venuta dall'est, convinto di piacerle davvero. Oppure il caso di quelle straniere che viaggiavano a sbafo perché “siamo venute in Italia per guadagnare, non per pagare” (se fossero state italiane, il controllore cosa avrebbe fatto?) Che tristezza. E che danno per le persone oneste (italiane e non italiane).

venerdì 1 aprile 2011

Se la società degrada è anche perché le donne si contentano di poco. Se le donne accettassero solo gli uomini che si comportano da uomini, se le donne ricambiassero l'amore solo agli uomini seri, questa società migliorerebbe moltissimo. In questo momento sto pensando a quella povera stupida che ha ereditato il negozietto dai genitori. Povera stupida! Condizione invidiabile: un lavoro tranquillo che fa guadagnare abbastanza per una vita agiata. Purtroppo lei si odia. Si odia perché è bassa e grassa: palestre e cure dimagranti non hanno fatto effetto, non appena perdeva tre chili bastava un attimo di distrazione per metterne quattro. Ma stupida! Non sai che ci sono uomini per i quali il tuo aspetto fisico è un pregio anziché un difetto? Non sai che ci sono anche uomini che ti amerebbero nonostante il tuo aspetto fisico? A me non piacciono le donne sovrappeso ma se hai un carattere dolce cadrei facilmente ai tuoi piedi anche se tu pesassi il triplo. Sì, anch'io potevo essere tuo marito. Ma tu ti odiavi, odiavi il tuo aspetto, odiavi il tuo corpo, odiavi la tua statura. Così hai sposato quell'extracomunitario. Avevi qualche pretendente sincero e lo hai mandato via, perché credi che non possa essere sincero uno che non detesti la tua statura e il tuo peso. Hai sposato un extracomunitario musulmano. Volevi essere maltrattata e hai trovato chi ti maltratta. Volevi essere considerata come macchina per sfornare figli, e lui ti considera macchina per sfornare figli (e per questo ignora il tuo peso). Pensavi che nessuno potesse innamorarsi di te con cuore sincero e perciò hai sposato uno che sotto sotto pensa solo agli agi che gli garantisce il negozio. Sposandolo hai firmato una cambiale in bianco perché non puoi immaginare che considerazione ha lui delle donne. Povera stupida.