giovedì 31 marzo 2011

Sento in metropolitana uno che si dichiara “single per scelta”. Quando sento la parola “single per scelta” subito provo un senso di cameratismo: è certamente uno come me, mi dico, cioè uno che nonostante tutti gli sforzi fatti e le umiliazioni subite non ha ancora trovato la donna della sua vita e magari si innamora sempre della donna sbagliata. Però poi lui continua il suo discorso: è stato in galera, rissa, spaccio, lesioni a pubblico ufficiale. Questa cosa non mi scandalizza per niente. Tutti possiamo commettere stupidaggini (anche grosse stupidaggini, anche molto grosse) nel momento in cui abbiamo occasioni e mezzi per commetterle. Quello che mi dà fastidio è che lui ne parli come argomento di conversazione per mettersi in bella mostra con la prosperosa ragazzona che gli siede accanto. Ho temuto per lei. Ho temuto che lei cominciasse ad invaghirsi per uno che racconta quelle cose senza vergognarsene. Tutti sono capaci di sbagliare, avrei voluto urlargli, però solo i veri uomini sanno tacere, solo i veri uomini sanno vergognarsi dei propri errori, solo i veri uomini sanno far tesoro dei propri errori. Gli stupidi, invece, non se ne vergognano, non sanno tacerne, e anziché far tesoro se ne vantano per tentare di far colpo su qualche donna ingenua. La prosperosa ingenua, per fortuna, era più prosperosa che ingenua. Finge di abboccare, perfino racconta qualcosa di sé (come per dire: vedi? anche a me tocca andare in tribunale, ma per fortuna non in galera) e alla fine scende ad una fermata che forse non è la sua e scende senza dargli il numero di telefono. Ben gli sta. Se tutte le donne fossero così, il numero di idioti che si fanno di crack diminuirebbe drasticamente, gli idioti che si fanno di crack e poi si impegolano in risse e lesioni a pubblico ufficiale diminuirebbero drasticamente. La prosperosa gli ha dato una buona lezione, anche se motivata più dal timore di aver a che fare con uno sbandato che per vera convinzione di cuore. Ecco perché penso spesso che le donne abbiano parecchia responsabilità nel degrado degli uomini.

mercoledì 30 marzo 2011

Avevo un colloquio importante. Mi aspettavo tanto, veramente tanto. La sera prima mi accorsi che avevo un'indicibile nostalgia di una donna. Mi sentivo innamorato, mi sentivo pronto a dichiararmi a una donna e pronto persino a subirne le conseguenze (il più duro dei rifiuti). Ma mi rendevo conto che quella tempesta di emozioni era dettata dalla consapevolezza di avere un colloquio il giorno successivo. Alle dodici del giorno successivo sarei entrato in quello studio ed avrei potuto parlare liberamente: ma non avevo la più pallida idea di cosa avessero in programma per me. Potevano magari aver già deciso di spedirmi a quel paese in compagnia di una gran quantità di inutili chiacchiere (come è sempre avvenuto da quando lavoro qui). Potevano probabilmente aver deciso di darmi una possibilità, senza però avere seriamente intenzione di prendermi qualora io avessi superato la prova che mi avevano preparato. Più probabilmente potevano aver deciso di fingere che il mio caso stava loro a cuore... solo per potermi sfruttare come pedina di un più grande gioco, pedina sacrificabile nel momento in cui non servirà più. Forse è per tutti questi motivi che pensai ad alcune delle donne a me più care, senza trovare il coraggio (per fortuna!) di telefonare a nessuna di loro (nessuna avrebbe avuto piacere di essere trattata come animale da compagnia). Poi mi rigirai nel letto fino a notte fonda, pensando alternatamente a come impostare al meglio ciò che avrei detto nel colloquio, e a come impostare al meglio ciò che avrei detto a ciascuna di queste donne. Riuscii ad addormentarmi, ma vissi ugualmente una notte assai agitata. Il giorno dopo, alle 11:30, scoprii che c'era uno sciopero degli autoferrotranvieri. Non avevo nessuno che potesse darmi un passaggio. Tentai di telefonare per avvisare del ritardo (sperando che loro stessi rinviassero l'appuntamento), ma trovavo sempre occupato. Mi avviai a piedi (ma non ce l'avrei fatta neanche in due ore di cammino). Alle 13:05 finalmente il loro telefono squillò: rispose una segretaria che disse che erano tutti a pranzo, e che prima delle 14 non avrei trovato nessuno, e soprattutto che non c'erano comunicazioni per me. Lasciai un messaggio per scusarmi e mi incamminai sulla via del ritorno, ripensando alle mie donne e a tutti gli inutili discorsi che avrei fatto ad ognuna di loro per affermarmi innamorato di lei.

martedì 29 marzo 2011

Ci sono quelle volte in cui hai tanta voglia di lavorare, ma non appena ti metti a lavorare ti viene un mal di vivere di quelli che non sai come fuggire. Non sai come distrarti, non sai come riposarti, non sai come far passare quel mal di vivere. Peggio di un'emicrania.
L'eroe della serie vince sempre. Non sbaglia mai, e se sbaglia recupera immediatamente l'errore in maniera ancora più trionfale. Ha il colpo di fortuna al momento giusto, e se capita qualcosa di sfortunato è solo un problemino temporaneo che risolve in maniera brillante e trionfante. Come se non bastasse, le leggi della fisica, della probabilità, del buonsenso, sono sempre tutte a favore del suo trionfo. A volte si deroga tanto alla fisica, alla chimica e al buonsenso, che a noi telespettatori vien da sorridere. Ma insistiamo comunque a seguire quella stupida serie perché “vogliamo vincere”. Vogliamo sognare spinti da quelle immagini, da quei dialoghi, da quelle musichette, vogliamo sognare di vincere. Dopo i titoli di coda, infatti, torneremo nella vita reale, perdenti come sempre, nostalgici di qualcosa che non sappiamo cosa essere. Vogliamo “vincere”, e il telefilm ci dà una simulazione di un eterno “vincere”, ma la rappresentazione di un vincitore sempre trionfante non ci basterà a saziare la sete, così come la foto di un bicchier d'acqua non basta a placare la sete che hai d'estate.

lunedì 28 marzo 2011

Controllare un milione di volte al giorno la casella di posta elettronica nella speranzosa attesa che qualcuna delle vecchie amiche decida di invitarmi a passare un po' di tempo con lei. Un caffè, un gelato, un pranzo, una cena, anche solo due passi. La posta elettronica è mille volte migliore del telefonino: non crea imbarazzi, non costringe a recitare una parte, c'è tutto il tempo per decidere se dire di sì o dire di no, si può ignorare finché fa comodo... e poi è gratis. Non so perché, ma le donne lamentano sempre di aver pochi spiccioli di carica residua nel telefonino: non possono chiamarmi, non possono mandarmi messaggini: con la posta elettronica risparmieranno di sicuro...
C'era un tempo della nostra infanzia in cui le cose o erano vere o erano false. Ad un certo punto abbiamo perso quell'innocenza: fu quando aggiungemmo una sfumatura tra il vero e il falso. Più crescevamo e più aggiungevamo sfumature. Più si diventa adulti e più ci si adegua a sfumature e compromessi. Fino al punto in cui un mio capo mi dice una cosa che entrambi sappiamo essere falsa, ed entrambi sappiamo che io avrei finto di crederci, ed entrambi fingiamo che sia vera anche nel parlarne con i colleghi di lavoro. Un mondo fatto di menzogne, di finzioni, di ipocrisie, di maledette ipocrisie pianificate, programmate, eseguite, ricordate, menzionate, premiate.

venerdì 25 marzo 2011

Poche cose sono deprimenti quanto il seguire un telegiornale. Il telegiornale è il prodotto che rappresenta perfettamente la nostra epoca. Gli elementi che lo compongono vengono chiamati “notizie” ma in realtà sono o distorsione della realtà (per indurci a pensare ciò che fa comodo a qualcuno più in alto di noi), oppure pubblicità (per indurci a seguire una moda o a comprare prodotti). Perfino nel trattare fatti di cronaca (cioè per lo più fatti di sangue) lo schema resta uguale. Oggi ti seminano in cuore una preoccupazione, domani un'altra, poi un'altra ancora... vere e proprie campagne pubblicitarie, veri e propri strumenti di manipolazione del pensiero, con la differenza che tali “campagne” durano anche molti, moltissimi anni. Fino a far diventare normale ciò che era anormale, fino a far diventare ridicolo ciò che era serio, fino a far diventare accettabile ciò che era sempre stato inaccettabile. Se dovessimo scrivere un libro di storia, il telegiornale sarebbe l'esempio ideale per rappresentare la nostra epoca.

giovedì 24 marzo 2011

Non prendiamoci in giro: voi sapete cosa io penso quando vedo la vostra pubblicità, ed io so che voi mi fate vedere quelle cose proprio per farmi pensare in quel modo lì. La vostra pubblicità è la massima espressione dell'ipocrisia. Fingete di parlare del vostro prodotto, in realtà mostrate le curve della signorina. Avete sempre tentato di infilare nella mia testa il nome del vostro prodotto, ma quel nome mi è solo un riassunto delle curve della signorina. Quando vedo il vostro marchio io penso alla signorina e vado oltre. Non comprerò mai niente di vostro, perché l'unica cosa che mi interessa è la signorina. Che anzi non mi interessa neppure così tanto, visto che ha tutta l'aria di essere la solita donna disponibile a tutti quelli interessati a pagarle il prezzo pattuito.

mercoledì 23 marzo 2011

“Cos'è successo, cos'è successo?” Ma cosa vuoi che sia successo? Il grassone dice che io creo problemi. Quali problemi, vorrei saperlo anch'io, poiché lui non lavora qui ma è solo un conoscente del fanatico. Il fanatico è un conoscente del piedipiatti, e il piedipiatti è un mio conoscente. Qualcuno deve aver pensato che io, il fanatico e il piedipiatti, essendo stati nello stesso ufficio per qualche settimana, avremmo fatto comunella per lavorare meno: questa è già utopia, è già vocina insinuatrice di vecchie zitelle annoiate. Ora che siamo in tre luoghi diversi, il grassone parla di noi tre ad un emerito sconosciuto (che però ha a che fare con quest'azienda), al quale parla di un altro emerito sconosciuto (cioè parla di me) dicendo che io creerei problemi. Per un caso del tutto fortuito la faccenda è arrivata fino alle mie orecchie e mi ha fatto infuriare. Ma ti voglio pure autorizzare a pensare che creo problemi... ma però, basta, tienti per te le tue ridicole opinioni, chiuditi in quella testa vuota i tuoi ridicoli sogni, non andare spargendo in giro sospetti e insinuazioni. “Crea problemi”: due parole insignificanti, che hanno bisogno di lunghe e complesse spiegazioni. Invece, nella società di oggi, società di sospettosi e di diffidenti, società di permalosi e di suscettibili, basta dire “crea problemi” e magicamente si mettono in moto mille cose. Infatti, solo noi (pochi) che abbiamo buonsenso chiediamo “quali problemi?” Invece normalmente gli altri, al sentire le magiche parole “crea problemi”, anziché chiedere spiegazioni a chi ha insinuato la cosa vanno subito a scavare nei propri ricordi e nelle proprie fantasie qualche diceria o qualche parolina per scatenare il finimondo contro di me.

martedì 22 marzo 2011

Il primo giorno l'ospite chiedeva il permesso quasi perfino per respirare. Dopo una settimana aveva ancora gentilezza, ma si era ambientato. Dopo un mese faceva i suoi comodi senza ritegno. Dopo due mesi aveva da pretendere che gli fossero riservate le soluzioni migliori. Dopo tre mesi addirittura parlava di mandarci via: aveva dimenticato che l'ospite era lui e non noi.
Per le donne, come per gli uomini, sembra che l'infischiarsene delle proprie pulsioni sentimentali faccia diventare più desiderabili ai cuori altrui. Più una donna evita di cercarsi un uomo, e più sembra trovarne. Più sinceramente un uomo se ne infischia delle donne, e più occasioni di fidanzarsi gli capitano. Si rischia di diventare stupidi, si rischia di immaginare che un folletto malefico stia sempre lì a leggerci nella mente e a suggerire, ad ogni donna che ci fa battere il cuore, di ignorarci senza pietà. Non appena una donna ci si avvicina, proprio nel momento in cui pensiamo di aver buggerato il folletto, veniamo nuovamente respinti. In realtà non è questione di folletti (simili fantasie portano rapidamente all'esaurimento nervoso) ma è questione di intuito. Una donna generalmente si accorge subito dell'interesse che hai per lei. In una frazione di secondo tira le conseguenze, decidendo per un “no” ancor prima che tu possa aprir bocca. Altro che folletti dispettosi e malefici.

lunedì 21 marzo 2011

Sì, è proprio vero che “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Sono mesi che non vedo la collega cattolica. Dagli indizi che mi fecero capire che si era fidanzata, al suo trasferimento, al magone di intere settimane, e poi più nessuna notizia. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Ripenso a lei di quando in quando. L'unica immagine che mi torna in mente è con quei capelli sbarazzini e quello sguardo che ti scioglie il cuore. Non avrebbe mai amato uno che si fingesse cattolico per piacerle: da questo punto di vista avevo un netto vantaggio sul collega dell'altra scrivania (che magari ora sta ancora rimuginando sul suo fallito tentativo di mostrarle una fede che non ha mai avuto), ma il vantaggio non è servito a nulla.
Ho un'angoscia per il Giappone pur non conoscendo nessun giapponese. La TV trasmette il loro dramma, sì, ma trasmette anche tutta un'assurda ansia, un continuo dolore. I giornali si fanno in quattro a chi manifesta la tragedia più grossa, a chi ventila l'ipotesi più tragica, a chi abusa di più delle parole “terremoto”, “tragedia”, “nucleare”, “catastrofe”. Lo tsunami arriverà qui tra quindici giorni, in forma di tragedia economica. Sarò sballottato tra i primi, visto che non ho difese economiche e lo stipendio mi basta appena a sopravvivere nella decenza. Paura per quel che ne sarà della mia vita, ma dolore per quel che già ne è per la vita dei giapponesi colpiti.
Detesto seguire i telegiornali. Mi uccidono l'animo. Dipingono alcuni come buoni, altri come cattivi, e poi ti chiedono da che parte stai. E tutti giù a stracciarsi le vesti a dire che stanno dalla parte dei buoni. Per cui se bisogna bombardare un paese (la Libia, o qualsivoglia altro), basta un'accurata campagna per mostrare chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Si può bombardare con o senza il favore dell'opinione pubblica. Si cerca il favore dell'opinione pubblica per banali motivi di marketing. Un quotidiano sedicente cattolico titolava: “pronti a colpire”. In prima pagina. “Colpire”, che eufemismo. Sul paginone dei cattolici moderati, cioè dei cattolici che stanno dalla parte dei “buoni” così come viene indicato dalla TV. E poi fanno la predica morale a me, che non mi sono schierato. Se non sto dalla parte dei buoni vuol dire che sono cattivo. La TV dice chi sono i buoni e chi sono i cattivi, e se non mi straccio le vesti sono cattivo, se non dico ipocritamente “pronti a colpire” sono cattivo. Miracoli del marketing.
C'erano i tempi in cui la frase “stasera c'è un bel film” mi dava una bella sensazione. Oggi invece quelle parole mi significano soltanto: “speriamo che riesca almeno a distrarmi un po', speriamo di riuscire a vederlo tutto, speriamo che non sia la solita selva di banalità”.

venerdì 18 marzo 2011

Tante volte nella vita ti trovi di fronte ad un bivio: sulla sinistra, continuare per la tua strada, sulla destra, lanciarti in qualcosa di nuovo che promette chissà cosa. Tante, tantissime volte scegliamo di andare a sinistra perché abbiamo paura di svoltare a destra, abbiamo paura che le acrobazie richieste dalla svolta siano faticose e uggiose e possibilmente destinate all'insuccesso. Come del resto è già avvenuto. Quante volte ci siamo preparati ad una svolta ed è fallita una delle necessarie precondizioni indispensabili! E quand'anche la svolta a destra avvenisse con successo, abbiamo sempre il timore di aver lasciato indietro (sulla via a sinistra) qualcosa di importante. Il bivio è sempre drammatico, perché qualunque strada si prende resta sempre il dubbio di aver sbagliato, resta sempre la paura del “ma dall'altra parte tutto era migliore”. Tentiamo di consolarci parlando come la volpe con l'uva, ma non convinciamo nè gli altri nè noi stessi.
Niente di gravissimo. Erano solo problemi informatici e (purtroppo) problemi di salute. Da oggi riprendo a bloggare.

martedì 8 marzo 2011

Si chiama “festa delle donne” ma in realtà bisogna chiamarla “festa delle oche”.
L'uccelletto era accovacciato al margine della strada. Lo osservavo dalla finestra. “Non arriverà a domani”, mi diceva la cinica collega. Per un ora restò fermo al suo posto, come se aspettasse pacificamente di spegnersi. Poi balzò sulle zampe e saltellò per qualche centimetro. Dopo un po' riprese a saltellare: l'ora di riposo stava facendo effetto. Balzò ancora, attraversando lo stradone che conduceva al parco: mancavano pochi metri ancora. Non poteva volare, ma poteva riposarsi sotto le foglie, forse poteva trovare cibo. Con lo sguardo e col pensiero lo avevo seguito, sognando che trovasse riparo, che trovasse qualcosa da mangiare, che trovasse addirittura qualcuno che si prendesse cura di lui, stanco e spaventato da tutto, dolorante fino all'ultima piuma. Una grossa vettura nera lo investì, schiacciandolo con un pneumatico: era l'uscita del parcheggio. Quando me ne accorsi, mi rifugiai nel bagno a piangere. Forse non avevo davvero bisogno di piangere, ma qualche lacrima per quel poveraccio era l'unica cosa che potevo dare. Lacrime che avrebbero fatto bene forse più a me che a lui.

lunedì 7 marzo 2011

Un mio conoscente si vanta di aver rifiutato un'offerta di lavoro. Mi dice che a causa dei suoi impegni personali non poteva garantire all'azienda la continuità che gli veniva richiesta. Sì, sei stato onesto, ma ogni volta che sento parlare di rifiuto di un'offerta di lavoro (per giunta con uno stipendio più del doppio del mio) mi viene il magone. Un magone incredibile. Rifiutano donne sinceramente innamorate, rifiutano assunzioni con stipendi più del doppio del mio, rifiutano occasioni preziosissime che a me non capitano mai. Mi viene un magone terribile.
Prima mi accusi di essere curiosone ed impiccione e poi un attimo dopo ti lamenti che non mi interesserebbe niente di te. Ma cos'altro è, di te, che ancora non ho chiesto? A furia di interessarmi di te passo per curiosone, a furia di parlarti di te, passo per impiccione (e passo solo per “impiccione” perché non ho mai dato un giudizio negativo su qualcosa che ti riguardi)... Ma tra donne di cosa parlate? Cosa ti aspetti che ti chieda un uomo? Cos'è che ti fa piacere che io ti chieda?

venerdì 4 marzo 2011

Sono sorelle ma il loro rapporto è fatto quasi esclusivamente di invidie, gelosie e piccinerie. Telefonare ad una di loro per l'onomastico significa farsi nemiche le altre quando non ricorderai il loro. Telefonare ad un'altra per l'onomastico significherà inimicarsi la prima (“fai il cascamorto con tutte!”) infastidire la seconda (“tanto lo so che i tuoi auguri sono falsi e ipocriti”) e la terza (“la tua misera par condicio dimostra che sei il solito squallido farfallone”). Una delle tre ti sta a cuore ma non puoi non tener conto degli effetti collaterali. Vai in visita a casa e vieni visto come un intruso. Tenti di dare un appuntamento (niente di particolarmente galante) e sei guardato come il distruttore della pace familiare, l'ingannatore delle gentili creature, il mandrillo che assale il pacifico pollaio. Quella volta che portasti un piccolo presente ti guardarono come più taccagno di zio Paperone, tutte e tre ti guardarono così, la prima per non sfigurare agli occhi delle altre due, le altre due per non sembrare invidiose agli occhi della prima, ognuna estremamente attenta alle piccinerie delle altre. Tre sorelle fiscali e precise anche nelle più piccole cose di casa: “chi ha spostato (di cinque centimetri) la saponetta?” Una casa pulita fino alla fissazione igienista ed hanno sempre il terrore di scovare lo sporco, lo Sporco Cattivo e Puzzolente che si annida negli angoli dove non hanno controllato negli ultimi venti secondi. Corteggiare una zitella che ha due sorelle zitelle è, lasciatemelo dire, un'impresa titanica per chi ha una pazienza ciclopica.

giovedì 3 marzo 2011

Quando chiedono cosa faccio nella vita ed io rispondo che lavoro, mi guardano come se avessi un mucchio di soldi e non avessi idea di come spenderli. Non sanno che vivo con uno stipendio alquanto misero, non sanno che copre a stento vitto e alloggio, non sanno che basterebbe un qualsiasi curioso incidente a mettermi in seri guai. Non sanno che il mio lavoro è sempre a rischio, non sanno che non ho praticamente nulla da parte. Se perdessi il lavoro, avrei autonomia per meno di una settimana. C'è gente che non lavora ma non manca mai di nessuna delle comodità della vita. L'amico disoccupato pianifica con largo anticipo le vacanze. Io le mie rarissime ferie le passo a casa, i fine settimana li passo a casa, il mio massimo lusso è andare passeggiando (quando il clima lo permette) senza però spendere un centesimo.
L'omino con la borsa sgualcita si rivolse al conferenziere: “grazie, grazie di tutto!” Il conferenziere continuava a guardare le sue carte. Qualcuno si avvicinò al tavolo, ma l'omino riprese: “grazie, grazie per tutto quello che ha fatto!” Il conferenziere raccolse le sue carte, senza distogliere gli occhi dal tavolo, ma non si alzò. Altre persone, intorno a loro, si scambiavano saluti e complimenti. Il conferenziere si voltò verso destra, con la stessa espressione di pietra che aveva avuto negli ultimi trenta secondi. L'omino con la borsa sgualcita si avvicinò al tavolo fin quasi a schiacciarvisi: aprì bocca ma non ne venne fuori alcun suono, non voleva essere ignorato per la terza volta, il conferenziere era la sua unica ancora di salvezza, non poteva bruciare così la più preziosa delle occasioni. L'altro ometto che si era avvicinato al tavolo aprì bocca: “sono un giornalista del Giornale delle Notizie, vorrei chiederle...” Il conferenziere, con un piccolo scatto del mento, lo guardò, perdendo l'espressione pietrificata di un attimo prima. Ma subito fece un cenno con la mano per rinviare a più tardi, si alzò e con una strana ma programmata timidezza chiese qualcosa al primo che si ritrovò accanto. Sottovoce, mentre con un occhio guardava la sala che si svuotava, cercando di non inquadrare l'omino con la borsa sgualcita. Si avviò verso l'uscita, scegliendo il percorso più affollato: fu evidente che non voleva aver niente a che fare con l'omino. Quando ci fu abbastanza folla a separarlo dall'omino con la borsa sgualcita, disse al suo collaboratore: “andiamo, andiamo”, con un tono seccato e con una smorfia di fastidio, e si diresse verso la zona riservata. L'omino, vedendolo allontanarsi, pensò per un attimo al viaggio lungo e faticoso che aveva fatto per incontrare il conferenziere, per parlargli di persona anche solo per pochi istanti, senza intermediari, senza segretari, senza che nessuno confondesse le parole e lo spirito della sua misera richiesta. Poi si diresse verso i cancelli, guardandosi attorno alla ricerca di un angolo dove piangere senza essere visto, reggendo alla tentazione di gettare il più lontano possibile la borsa sgualcita. Poté finalmente liberarsi delle lacrime solo nella fetida latrina del treno che lo riportava a casa.

mercoledì 2 marzo 2011

Come in un romanzo di Kafka, il dirigente mi manda dal direttore e il direttore mi manda dal dirigente. Il dirigente mi dice che debbo chiedere le motivazioni al direttore, e il direttore mi manda dal dirigente perché questi me le spieghi, e costui mi dice nuovamente che devo tornare dal direttore, e quest'ultimo mi rinvia nuovamente al dirigente... Ogni volta vengo sommerso dalle parole, parole, parole. Tante, troppe parole. Che non significano niente. Niente, niente e ancora niente. Mi dicono che devo capire, mi chiedono perché non chiedo spiegazioni, mi dicono che quel che mi hanno già detto sarebbe sufficiente a capire, mi chiedono perché sto ancora a chiedere spiegazioni, mi dicono che mi hanno già dato abbastanza ragioni, mi dicono che troverò tutto scritto. Ma l'unica cosa certa è l'ingiustizia che sto subendo, aggravata dalle loro inutili parole. Non ci sono spiegazioni, e loro spiegano. Non ci sono ragioni, e loro ragionano, razionalizzano, spiegano, aggiungono, precisano, ma senza mai centrare il punto. Li ho ascoltati con attenzione, ma non ho mai avuto spiegazioni. Un'ingiustizia si ripara facendo giustizia, non si ripara con le parole, men che meno si ripara con parole che non significano niente. Si nascondono, quei due vigliacchi, dietro le parole. Si proteggono a vicenda, perché se uno ammettesse che l'ingiustizia c'è davvero allora anche l'altro dovrebbe ammettere e rimediare, e invece i due lupi se la intendono bene, si proteggono a vicenda, sono interessati a che tutto continui come prima, poco importa se il dipendente ha dovuto subire la più plateale delle ingiustizie. Non ho mai parlato di azioni legali. Non ho mai minacciato vendette, non ho mai agitato spettri. Hanno paura di azioni legali, ma diventerebbero delle belve dall'eterna incontenibile vendetta se qualcuno tentasse un'azione legale. Vincerebbero ugualmente, e si vendicherebbero nel più crudele dei modi. Mi imbottiscono di parole ed io che continuo ad andare da loro a chiedere ragioni e spiegazioni, nella tenue speranza di vederli arrendersi alla noia e di rimediare almeno un po' allo stupido e inutile e dannosissimo torto che ho subito. Ma loro non sembrano mai a corto di parole, non sembrano mai annoiati.
Avvenne quando ero bambino. Ero a casa di un amico. Giocavamo ad un grandioso videogioco, alternando una partita a testa. Dopo aver commesso un errore grossolano, l'amico “suicidò” la partita. “Ma che fai? Stavi andando bene”. E lui: “inutile giocare se non hai il massimo delle armi”. Per lui la partita aveva senso solo se poteva ottenere il massimo punteggio nel massimo trionfo. Un piccolo “gap” era sufficiente per gettare via tutto. Per fortuna l'ho perso di vista. Per me, anche al più insulso dei videogiochi, bisognava dare il massimo in ogni momento, anche di fronte ai più ingiusti e rognosi “gap” e “handicap”. Chissà, forse è perché non sono mai stato “ricco di videogiochi” come i miei compagni di scuola. Ammazzarsi solo perché per un fortuito motivo non c'è più la possibilità di trionfare, è la più stupida delle vigliaccherie. Quanta gente oggi teme i “gap” e gli “handicap” più della morte stessa. Quanti stupidi fanno grandissime vigliaccate solo per una delusione amorosa: come lo stupidissimo collega che si è licenziato perché non sopportava più di lavorare nello stesso luogo di colei che lo ha respinto. Vigliacchi. Bambinate da vigliacchi. Partite al videogioco della vita “suicidate” perché per un evento qualsiasi non si può più puntare al massimo punteggio nel massimo trionfo.

martedì 1 marzo 2011

Guardi l'armadio. Ascolti il ticchettio dell'orologio. Guardi il soffitto. Ascolti il ticchettio dell'orologio. Guardi i tuoi piedi. Ascolti il ticchettio dell'orologio. Poi ti rendi conto che anche oggi sei senza una donna, senza la tua donna, senza una donna che completi la tua vita. Pensi a quanto sia curioso che oggi sia tanto facile “accoppiarsi” (anche in senso non sesuale) mentre per alcuni - te compreso - sia così assurdamente difficile trovare una donna che ricambi l'amore che provi per lei. L'orologio continua a ticchettare. Il soffitto è sempre lì, i tuoi piedi non si sono certo staccati da te, l'armadio non si è mosso. Anche oggi una giornata incompleta. Una vita non realizzata, perché con tre miliardi di donne presenti su questo stesso pianeta, nessuna di quelle che ho amato (e di quelle che amo tuttora) mi è mai stata consapevolmente vicina. Il ticchettio dell'orologio scandisce il tempo. Ogni secondo che passa è bruciato, scompare nel nulla. Forse è solo il fatto che mi innamoro della “donna sbagliata”. Forse. Il tempo passa, ed io scopro che la categoria delle “donne sbagliate” è popolatissima.
Non so cosa possa significare avere un fratello o una sorella. Io non ne ho mai avuti. Chi ne ha avuti si è sempre lamentato: intrusioni, litigi, minor privacy (quanto fastidio può darti lo scoprire che tua sorella si è già accorta da tempo che sei innamorato!). Una volta l'avere pochi figli significava solo qualche problema medico. Una volta tutti avevano tanti fratelli e sorelle. Chissà come sarebbe stata la mia vita con una decina di fratelli e sorelle, chissà se mi sarei posto ugualmente il problema di intrusioni, litigi e minor privacy.