venerdì 30 settembre 2011

Ripeto: non-è-antipatia. Non lo considero antipatico. Lo considero una non-persona. Non esiste. Hai forse bisogno di parlare con una formica? Devi forse manifestare i tuoi sentimenti ad una formica? Si può dialogare forse con una formica? O la ignori o la schiacci: e deve già ritenersi fortunata di non essere schiacciata. Non provo antipatia per quella non-persona. Semplicemente, per me, non esiste più. Non esiste più nella mia vita, perché mi ha irrecuperabilmente dimostrato di non essere una persona.

giovedì 29 settembre 2011

Si definisce “capo” uno che non produce ma comanda, non capisce ma decide, non aiuta ma umilia. In particolare: non aiuta là dove c'è bisogno di aiuto, ma pretende di “aiutare” aggiungendo fatiche e vincoli a ciò che è già faticoso e già in ritardo. In particolare: umilia (ha la fissazione di umiliare) chiunque glielo faccia anche involontariamente notare.
Ieri sera sono stato espulso dalla chat. Di nuovo. Sempre con lo stesso metodo. C'è un personaggio isterico che spara a tutto e a tutti. Ieri mattina qualcuno ha fatto sapere al personaggio isterico che c'è qualche altro personaggio che mormora, che usa linguaggio scurrile, e via moraleggiando. Ieri sera compare in chat un amministratore. Non parla, ma ascolta, osserva, misura col calibro le parole. Ed alla prima battuta che un isterico collegio di educande puritane potesse ritenere almeno lontanamente volgare... zac! Mi blocca per sempre. Dopodiché l'amministratore della chat torna di nuovo in letargo (come avvenne già la prima volta) per settimane, mesi. I veri responsabili, i campioni di volgarità e di calunnia, che in quel momento o non erano presenti (per loro fortuna) o avevano taciuto per qualche minuto (per loro furbizia) sono salvi. Nelle chat, insomma, funziona così, proprio come nella vita reale. La cosiddetta giustizia è stata assicurata colpendo uno che “non rispetta le regole”, cioè colpendo me, reo in quel momento (in quel momento!) di non essere stato totalmente silenzioso. Per chi va a caccia del pelo nell'uovo, qualsiasi parola (qualsiasi!) è sufficiente per una condanna esemplare e definitiva. Proprio come nella società di oggi, col suo assurdo equilibrio fatto di ingiustizie, con le sue leggi che si “interpretano” per gli amici del potere e si “applicano con durezza” a chi è reo di non aver passato una vita intera a far da lacché dei potenti. Nelle chat è proprio come nella vita.

mercoledì 28 settembre 2011

Non è che le donne oggi siano più traditrici di ieri. Al contrario. Ti diventano fedeli se si accorgono che le ami. Una parola dolce ne può conquistare il cuore. Dicono di essere impegnate, dicono di avere il moroso, invece è solo un animale da compagnia, uno che per dire una parola dolce ha bisogno di sesso (solita brutta tangente da pagare). Non sono traditrici: sono solo poco amate. Una donna che si accorge di essere veramente amata e coccolata da un uomo, non tradirà. Gli uomini vengono traditi perché o non sanno amare col cuore, oppure amano in modo anonimo e invisibile.
Passa per manager tecnico di grande esperienza. Ma è solo un idiota. Un analfabeta. Un caprone. Passa le giornate al telefono a chiedere se è pronto questo, se è stato preparato quello. Somministra consigli inutili, quando non insensati e dannosi. Si muove, si agita, va in crisi, sbotta, batte i pugni sul tavolo, grida che vuole tutto pronto entro lunedì, entro domattina, entro le diciotto. Il suo apporto al nostro lavoro è come un macigno legato al piede di un nuotatore arrancante in ultima posizione. Il modo migliore per ottenere i risultati che chiede (efficienza, riduzione dei tempi, risparmio di risorse) è licenziarlo. Se venisse licenziato subito l'azienda otterrebbe esattamente ciò che lui vuole ottenere.

martedì 27 settembre 2011

Di quante donne sono innamorato? Ogni tanto conto le donne con cui sarei felice di vivere insieme. La prima è lei, con la sua salute malmessa e i suoi parenti serpenti che direbbero che la sposo solo perché ha in dote un magnifico appartamento. Forse lei ricambierebbe i miei sentimenti ma temo che poi troppe cose prenderebbero il sopravvento e i due piccioncini non sarebbero tranquilli neppure durante la luna di miele. Lì poi mi conoscono tutti e penserebbero: dopo dieci anni si fa vivo perché si accorge che lei ha soldi e casa? La seconda è quella che vive al pianterreno sulla strada che va verso l'incrocio. Anche lei ha dei parenti serpenti che stanno da anni studiando il modo di togliersela dai piedi per appropriarsi dell'appartamento in cui vive. Di costei la preoccupazione principale è che ha un carattere infantile: capricci, pretese, ritualismi (l'uscire il sabato per andare in locali rinomati). Sarebbe uno spasso solo per fare sesso, ma il resto delle 24 ore sarebbe una tortura infinita. C'è poi la terza, quella coi capelli rossi. Più che di un marito avrebbe bisogno di un blog perché passa giornate intere a raccontare dei suoi guai e delle sue paure. Se si sfogasse sul blog forse svuoterebbe un po' del veleno che ha nell'animo (da fonte apparentemente inesauribile!) Anche lei, dopo averci fatto sesso, diverrebbe insopportabile. Anche lei ha dei parenti squinternati e isterici. Sposare una donna significa sposarne anche la famiglia. Quarta candidata: la maniaca del teatro. Buona solo per farci sesso, perché nel resto delle 24 ore reciterebbe una parte (penso che reciterebbe perfino durante il sesso). Perennemente depressa, instancabilmente fastidiosa e pignola, chiederebbe il divorzio per un calzino spaiato o un tubetto di dentifricio schiacciato alla metà anziché in coda. No, anche questa è da scartare. In fin dei conti di tutte queste donne non sono innamorato, ma solo sessualmente attratto. Per ingannarne una mi basterebbe fare il dolcino dicendo “ti amo amore tesoro dolcezza” per un tempo adeguato (e purtroppo con spesa adeguata). Il rituale del corteggiamento prevede infatti tutta una serie di forche caudine da attraversare. Alla fine riusciresti forse perfino a sposarne una e a trastullarti un po' (solo un po': presto la magia finisce) ma rimarrai a sognare di trovare un amore vero per il resto dei tuoi giorni, perché l'amore della tua vita non lo si trova pagando un prezzo e attraversando forche caudine.

lunedì 26 settembre 2011

La frase “ti sei offeso per così poco?” è uno dei canoni fondamentali per trasformare la vittima in colpevole.

venerdì 23 settembre 2011

Quelle volte in cui vai a dormire inquieto e affamato e ti giri e rigiri nel letto cercando di addormentarti e invece ti viene solo da pensare e ripensare ad un argomento qualsiasi che in quel momento sembra essere il centro della tua vita. “Da domani si cambia”, sì, da domani si farà così e così, da domani nuova vita, anzi, da adesso, anzi, da subito... Così cerchi di trasformare la fame e l'inquietudine in qualcos'altro, e forse ci riesci: da domani si va alla ricerca di una donna per la vita, da domani si spolverano e rimettono in azione tutte le vecchie agendine coi nomi di quelle che potrebbero ancora accettarmi, da domani, anzi, da subito, da stanotte, da stanotte vorrei una donna, anche soltanto come compagnia, anche soltanto per osservarla dormire accanto a me per poter pensare: non sono solo. Ma la fame, quello strano dolore che ti prende dallo stomaco fino alla gola, come se fosse un lungo oggetto metallico infilato nell'esofago, torna a farsi sentire, e tu pensi ancora di più a cosa dovrà succedere domani. Ma l'unica cosa che succederà domani (cioè tra poche ore) è che stramaledirai la maledetta sveglia perché non ti ha concesso altri dieci minuti di riposo.
Ottima tattica di quella viscida serpe. Ogni volta che è il suo turno di lavare i piatti se ne infischia completamente, dando a vedere di essere impegnato in altre faccende e senza nemmeno vergognarsi di star spassandosela. Ma ha già studiato il momento per compiere (al minimo) il suo dovere: in piena notte, o di mattina presto, sicché tutti dicano “dopotutto ci ha ripensato e li ha lavati: è affidabile”. Ma chi è veramente affidabile? Sono io, che li lavo subito dopo mangiato, o è lui che rinvia e rinvia in attesa di scansarsela o di guadagnare un elogio perché non se la scansa? In un mondo poggiato sull'ipocrisia e sul quieto vivere, una serpe viscida come lui ha buon gioco: lavora per l'immagine, non lavora per costruire; svolge i compiti per essere elogiato, non perché gli spettano come a tutti. Una viscida serpe. Questo genere di persone, poi, critica l'ipocrisia nonostante vi primeggi nella maniera più assoluta.

giovedì 22 settembre 2011

Chi desidera qualcosa è per ciò stesso ricattabile. Anche quando si tratti di una cosuccia da nulla, anche la più innocente. Più desideri e più sei ricattabile. La vera arte da sviluppare, in questo mondo schifoso, è desiderare senza farlo notare. Nascondere i propri desideri, dissimulare le proprie ambizioni, non far notare cosa hai dentro, perché c'è sempre qualcuno che vorrà speculare, c'è sempre qualcuno che intenderà concederti un'immagine o un soffio di ciò che desideri ma al gravissimo prezzo di impoverirti di tutto il resto. Viviamo in un mondo di avvoltoi feroci. Lo sono specialmente coloro che non se ne rendono conto. Non solo le donne che appena si vedono notate cominciano a fare le preziose.
È un mondo maledetto questo dove la volgarità è considerata spettacolo e divertimento.

mercoledì 21 settembre 2011

La sequenza degli eventi è stata questa: visto che le sue argomentazioni venivano facilmente ridicolizzate dai fatti, si è mortalmente risentito per essere stato qualificato “ignorante”. Certo, non si può pretendere che lui ammetta che le sue conoscenze ed i suoi pregiudizi lo qualificano come tale. Non si può pretendere che chieda scusa. Un uomo normale, se proprio non ha il coraggio di chiedere lumi, avrebbe buttato la cosa sul ridere, avrebbe reagito con altri insulti bonari (in modo da dare ad intendere di aver accolto il termine “ignorante” come un'espressione bonacciona, e tutti si sarebbero adeguati). Lui no: lui si è offeso mortalmente, come un bambino capriccioso e arrogante. Secondo passaggio: non ha annunciato subito la sua ira. Ha aspettato il momento buono. Ha aspettato che io fossi da solo, per venire a minacciarmi di violenza fisica e di distruzione delle mie cose. Un vero mafioso sarebbe stato più gentile. Ce ne sarebbe abbastanza per denunciarlo, ma poi? Chi ce li ha i soldi per andare da un avvocato e raccontargli della faccenda? Quelli che come me guadagnano a stento per pagare l'affitto e pagarsi da mangiare non possono spendere un quarto di uno stipendio solo per farsi ascoltare da un avvocato. Denunciarlo direttamente alle forze dell'ordine? Benissimo, ma poi quanto sopravviverò qui dentro dopo aver fatto una cosa del genere ad un collega di lavoro? Quanto durerà il mio già precario posto di lavoro? Il male minore è fingere che non sia successo nulla ed aspettare un momento buono per dargli quel che si merita. A costo di dover aspettare una vita intera, mi tocca aspettare, perché non sono in condizione di reagire fisicamente. Terzo passaggio: mi ha tolto il saluto. Ho ricambiato con un silenzio di tomba. Mi sto abbassando al suo livello perché non so cos'altro fare. Temo che sembreremo due bambinette delle elementari che per un giorno o due non si guardano in faccia. Invece no, siamo a tre giorni e l'aria è sempre pesante. Ma almeno non gli do occasione di rifare il gradasso. Vien voglia di desiderare per lui tutto il male possibile, ma sarebbe solo un sogno consolatorio, destinato ad infrangersi contro la realtà ed ad aumentare la delusione qualora lui trovi qualche altro mio punto debole.
Il nemico non vive solo per danneggiarti. Vive anche per dimostrare a tutti (e soprattutto a se stesso e a te) che lui è quello furbo, è quello giusto, è quello intelligente, è quello che ha ragione, è quello che non prova emozioni per il problema che è in corso. Ecco perché è così giulivo con i tuoi colleghi: sta cercando di farti pensare che tu sei isolato nel silenzio e lui è al centro della vita sociale in ufficio, tu sei quello che vuole emarginarsi e lui è quello che emargina gli altri. Vecchio trucco, che funziona perfino con coloro che hanno la coscienza limpida. Ma non funziona con coloro che lo conoscono (per averlo dolorosamente subìto più e più volte).

martedì 20 settembre 2011

“Ma come ti permetti di chiamarmi ignorante? io entro in camera tua e sfascio tutto, sai?” disse il bambino arrogante e viziato (che però all'anagrafe risultava avere ventun anni). La colpa del minacciato consisteva nell'aver indovinato ed esposto il suo punto debole: la Famosa Università, a cui il bambino prepotente e viziato si era iscritto per Incrementare il proprio Prestigio, era nota per insegnare scemenze inutili che non avrebbero fruttato né lavoro né prestigio.

lunedì 19 settembre 2011

Hanno quaranta e anche cinquant'anni, ma sono dei bambini viziati, capricciosi, arroganti. Vogliono sentirsi dire solo ciò che hanno già in testa. Pretendono incessantemente di essere rassicurati. Esigono continuamente di essere elogiti e coccolati. Se fossero bambini, un paio di sberle alla volta potrebbero essere utili a raddrizzare. Ma non sono più bambini. Sono adulti, sono mezza età, sono in età avanzata: e quel che è peggio, sono in posti di potere, di comando, di decisione. Non è più maleducazione: è persecuzione. Non lo fanno perché hanno voglia di farti un dispettino, ma perché vogliono vendicarsi di qualche famosa occasione di decenni prima, in cui magari tu non c'entri niente. Avranno fatto un milione di manifestazioni antimafia in piazza, ma si comportano come il più lercio e arrogante dei mafiosi.

venerdì 16 settembre 2011

Tre giorni prima dell'inizio della scuola qualcuno bussò alla porta. Infastidita e allarmata andò ad aprire. Un ragazzino sugli undici anni era lì con un bloc-notes. “Mio figlio non c'è; lo troverai domani” gli disse tentando di non far notare il disappunto. “Sì, ma devo copiarmi gli esercizi di matematica, ho perso il libro, non so come fare...” Lei lo fece entrare, fecero un po' di zig-zag tra gli scatoloni. Gli trovò il libro di matematica e lui si sedette a copiare gli esercizi, imprecando per un attimo contro i fatidici “compiti per le vacanze” che era riuscito a rinviare di giorno in giorno fino alla sera prima, quando si era accorto che il libro di matematica era andato disperso chissà quando e chissà dove. Il suo scaffale di libri era rimasto un unico blocco fermo, dall'inizio dell'estate, a raccogliere polvere. Mai toccato, solo visto da lontano con ripugnanza. E quindi già dall'inizio dell'estate il libro di matematica era andato perduto. Ed ora mancavano meno di tre giorni all'inizio della scuola, al controllo feroce dei compiti delle vacanze, forse già al primo giorno, forse già alla prima ora! Si preannunciavano tre giorni zeppi di matematica, più l'umiliazione del dover andare a copiarli in extremis dall'unico compagno di scuola di cui conosceva l'indirizzo di casa ed a cui poteva chiedere un simile favore senza esserne deriso. No, di trovarli già risolti non ci contava: il suo amico era talmente disordinato ed approssimativo che oltre ad essere sbagliati ed incompleti sarebbero stati faticosissimi da ricopiare. Meglio prendere le tracce dal libro e andar via: ci vorranno solo dieci minuti, un quarto d'ora al massimo! Dopo più di un'ora finalmente, sudato, ricopiò l'ultima traccia. La donna era rimasta in cucina a sfaccendare ma non lo perdeva mai di vista. Il piccoletto ringraziò sorridendo ed andò via. Alle ventidue della sera prima dell'inizio delle lezioni era fermo ad ancor meno di un terzo degli esercizi di matematica. “Ho quasi finito!” aveva gridato per reazione alle imprecazioni di sua madre che gli rimproverava di essersi ridotto all'ultimo minuto dell'ultimo giorno. Il mattino dopo andò tutto tremante a scuola. Prima ora, matematica. Riepilogò mentalmente tutte le scuse architettate per giustificare il mancato svolgimento degli esercizi. Sentì dire che l'amico dal cui libro aveva copiato le tracce era andato a vivere in un'altra città e pertanto non lo avrebbero più rivisto a scuola. Entrò un uomo in giacca e cravatta, si fermò alla cattedra e disse: “beh? Non vi hanno insegnato a salutare? Sono il vostro nuovo insegnante di matematica e voglio vedervi tutti in piedi, silenziosamente, per salutare. Sia all'inizio dell'ora che alla fine dell'ora!” Il ragazzino con due terzi degli esercizi non fatti tremò di gioia: nuovo professore, niente verifica! Dopo i primi minuti di appello e di convenevoli, la saccente del terzo banco disse a voce alta che avrebbero potuto passare l'ora verificando gli esercizi per le vacanze. Con un tempismo incredibile, mentre qualche altra diceva “sì, li ho portati anch'io”, tutti i ragazzi lanciarono le loro più impressionanti scuse, che vanificavano l'originalità (e dunque la credibilità) del ragazzino già umiliato dalla tre-giorni-di-matematica. Quando finalmente riuscì a parlare, il nuovo insegnante finalmente lo interruppe: “lo so bene che sono tutte scuse, e so anche che quasi nessuno di voi ha davvero messo mano a quei compiti”.

giovedì 15 settembre 2011

“Ma insomma!” gridò l'uomo verso le capriate del tetto, “dopo che ho fatto tutto questo per te, dopo che con un nodo in gola ho fatto per te anche le cose che più mi ripugnavano, dopo tutto questo mi pianti in asso all'ultimo minuto? Ma dico, all'ultimo minuto? Ma sei proprio un sadico! È colpa tua, se sono così, è colpa tua!” Sentì gli occhi bagnarsi di lacrime. “È colpa tua!” gridò ancora verso le capriate, “Colpa tua, colpa tua!” diceva mentre la lingua gli si impastava e la voce gli si rompeva. Volle mantenere un contegno davanti al deposito vuoto, si girò di lato come per non essere visto dalle capriate. Si avviò di buon passo verso la porta. Diede un colpo violento alla maniglia, e la luce del giorno lo accecò, perché era ancora assuefatto alla semioscurità. “Colpa sua”, si ripeteva tra sé, ora resistendo alla tentazione di gridarlo, ora cedendo alla tentazione di mormorarlo. Sbatté la porta, alzando una nuvola di polvere. Entrò in auto. Faticò a trovare le chiavi. Faticò di più a inserire la chiave nel cruscotto e ad accendere il motore. Ebbe qualche incertezza col cambio, che gli costò grotteschi rumori di ingranaggi e una smorfia sul viso come se avesse provato un dolore lancinante nelle carni. Si fermò qualche metro più avanti, mentre altre nuvole di polvere si alzavano dalla traccia delle ruote. Una lucertola, ferma sul palo, sembrava osservarlo. Reclinò la testa sul volante per qualche attimo. La lucertola lo osservava ancora, più ferma di una pietra. “Ma perché? Perché?” si chiedeva mentre finalmente lasciava scorrere le prime lacrime. “Perché? Perché mi hai scaricato così? Perché? Perché proprio all'ultimo momento? Perché? Dopo tutti i soldi che hai guadagnato col mio lavoro! Perché?” Immaginò che la lucertola fosse diventata grande, grandissima, capace di inghiottire lui e la macchina in un sol boccone. “Perché?” E più si chiedeva “perché” e più il lucertolone diventava famelico. Aprì gli occhi di colpo, per assicurarsi che la lucertola fosse ancora lì. Era ancora lì, anche se le lacrime gli avevano annebbiato la vista, ed aveva ancora le stesse dimensioni di prima. Inserì di nuovo la prima e svoltò verso destra, risalendo lo sterrato fino alla statale. L'immagine del lucertolone gli tornò in mente la notte successiva, in sogno: fermo davanti alla macchina, con la bocca chiusa ma pronto a scattare, mentre lui tentava disperatamente di muovere volante, pedali e marce, senza riuscire a spostarla di un millimetro.

mercoledì 14 settembre 2011

Conosco quella città attraverso i racconti di mio zio. Ero bambino e lui mi raccontava delle cose che non capivo: era andato a pagare la bolletta lì, era passato dal barbiere là, aveva ritirato l'auto dall'officina sita lì... Tutti nomi stranissimi di strade, piazze, posti. A volte mi sembra di averci vissuto. Mio zio morì tanti anni fa, ma tutta quella involontaria lezione di geografia mi è rimasta impressa nella mente, perché le cose che si ascoltano con avidità da bambini ti restano per tutta la vita. Grazie a Google ho finalmente visto le foto di quelle strade, la posizione di quegli incroci, la correttezza delle informazioni che mi aveva affidato mio zio. Mi sembra quasi di averci vissuto, in quello strano paese, che fino ad oggi non ho ancora mai visto. Grazie, Google Street view, grazie.

martedì 13 settembre 2011

Ero giunto in stazione pochi minuti dopo le 13: la stazione era deserta. Un segnale di avviso indicava un treno in arrivo o in transito. Andai al marciapiede dei binari 2 e 3, dove avevo visto l'unico foglio orari utile. Non avevo più forza per muovermi. Passò un costosissimo treno di lusso, mentre mi accorgevo che il mio primo treno utile era a più di due ore e mezza: di domenica non ferma quasi nessun treno a Erborina Sabina. Per fortuna la tettoia mi riparava da quel sole che spaccava le pietre. Ero stato gentile con il loro ospite, stavo per offrirmi di portar su il passeggino ma ancor prima che proferissi parola me lo aveva detto il lugubre capo. Io, che detestavo i bambini, avevo coccolato il marmocchio, per tenermi buono il capo e forse anche per fare impressione sulle vicine di casa del terzo piano. Quasi nessuno degli invitati mi aveva rivolto la parola, però sono certo che qualcuno di loro aveva parlottato di me col capo. Aspettai quegli interminabili convenevoli, in mezzo a quella quindicina di invitati che faceva di tutto per non dare a vedere che mi aveva notato. Il capo, dopo un po' di tempo, era riapparso (che si fosse dileguato per darmi ad intendere che non c'era un orario preciso per la partenza? sperava che me ne andassi?) e finalmente diede il segnale che era ora di andar via. Quando fummo nel cortile, non capii se ci fosse posto anche per me, ma si affannarono tutti nelle auto come per rispettare un ordine prestabilito. Un posto c'era: nell'auto con il capo, quella davanti alla colonna. Ma volevano liberarsi di me, era evidente. A cominciare dal capo. Mi avviai a piedi, girando lentamente intorno all'auto del capo col posto libero, ma quando passai voltò altrove lo sguardo, sempre con quel falso sorriso sulle labbra: non voleva a che fare con me, per coerenza con i suoi errori aveva deciso di fingere che non esisto. Uscii dal cortile e mi avviai per strada. Una strada di quelle dove è pericoloso camminare anche al ciglio, perché lì in periferia corrono tutti come matti. Non ero riuscito a vincermi: volevo essere chiamato, non volevo mendicare, perché se lo avessi fatto avrebbe risposto di no. Per parecchi minuti proseguii aspettando di vedere da un momento all'altro la loro colonna di auto, ma non comparvero. Neppure dopo il fatidico incrocio. Proseguii a piedi per ore, nell'indifferenza generale degli automobilisti frettolosi, finché trovai la stradina che portava verso la stazione. Era ora di pranzo, avevo camminato di buon passo ma non avevo fame. La stradina si interrompeva bruscamente: lavori in corso. Proseguii comunque, accorgendomi che la stradina terminava lì in mezzo ai campi, alle zolle riarse, a distanza da alcuni alberi. Avevo fretta di arrivare alla stazione, non mi fermai neanche quando sentii le lontane imprecazioni di un agricoltore per avergli pestato una vecchia fascina di rami e paglia. Finalmente arrivai in vista del piazzale della stazione, una stazione in mezzo al nulla, un fabbricato, tre binari, una tettoia. Avevo camminato per più di cinque ore, ero esausto. Il mio treno era alle 15:43. Prima delle 17:30 sarei giunto a casa. Il capo mi aveva ignorato, come previsto. Avrà fatto chissà che giri per non incrociarmi, per non essere costretto dal galateo a suggerirmi un passaggio in macchina. Ostinato nella sua persecuzione, mentre i suoi reggicoda lo imitano e lo assecondano, senza sapere che un giorno la stessa sorte potrebbe toccare a loro.
Ero giunto in stazione pochi minuti dopo le 13: la stazione era deserta. Un segnale di avviso indicava un treno in arrivo o in transito. Andai al marciapiede dei binari 2 e 3, dove avevo visto l'unico foglio orari utile. Non avevo più forza per muovermi. Passò un costosissimo treno di lusso, mentre mi accorgevo che il mio primo treno utile era a più di due ore e mezza: di domenica non ferma quasi nessun treno a Erborina Sabina. Per fortuna la tettoia mi riparava da quel sole che spaccava le pietre. Ero stato gentile con il loro ospite, stavo per offrirmi di portar su il passeggino ma ancor prima che proferissi parola me lo aveva detto il lugubre capo. Io, che detestavo i bambini, avevo coccolato il marmocchio, per tenermi buono il capo e forse anche per fare impressione sulle vicine di casa del terzo piano. Quasi nessuno degli invitati mi aveva rivolto la parola, però sono certo che qualcuno di loro aveva parlottato di me col capo. Aspettai quegli interminabili convenevoli, in mezzo a quella quindicina di invitati che faceva di tutto per non dare a vedere che mi aveva notato. Il capo, dopo un po' di tempo, era riapparso (che si fosse dileguato per darmi ad intendere che non c'era un orario preciso per la partenza? sperava che me ne andassi?) e finalmente diede il segnale che era ora di andar via. Quando fummo nel cortile, non capii se ci fosse posto anche per me, ma si affannarono tutti nelle auto come per rispettare un ordine prestabilito. Un posto c'era: nell'auto con il capo, quella davanti alla colonna. Ma volevano liberarsi di me, era evidente. A cominciare dal capo. Mi avviai a piedi, girando lentamente intorno all'auto del capo col posto libero, ma quando passai voltò altrove lo sguardo, sempre con quel falso sorriso sulle labbra: non voleva a che fare con me, per coerenza con i suoi errori aveva deciso di fingere che non esisto. Uscii dal cortile e mi avviai per strada. Una strada di quelle dove è pericoloso camminare anche al ciglio, perché lì in periferia corrono tutti come matti. Non ero riuscito a vincermi: volevo essere chiamato, non volevo mendicare, perché se lo avessi fatto avrebbe risposto di no. Per parecchi minuti proseguii aspettando di vedere da un momento all'altro la loro colonna di auto, ma non comparvero. Neppure dopo il fatidico incrocio. Proseguii a piedi per ore, nell'indifferenza generale degli automobilisti frettolosi, finché trovai la stradina che portava verso la stazione. Era ora di pranzo, avevo camminato di buon passo ma non avevo fame. La stradina si interrompeva bruscamente: lavori in corso. Proseguii comunque, accorgendomi che la stradina terminava lì in mezzo ai campi, alle zolle riarse, a distanza da alcuni alberi. Avevo fretta di arrivare alla stazione, non mi fermai neanche quando sentii le lontane imprecazioni di un agricoltore per avergli pestato una vecchia fascina di rami e paglia. Finalmente arrivai in vista del piazzale della stazione, una stazione in mezzo al nulla, un fabbricato, tre binari, una tettoia. Avevo camminato per più di cinque ore, ero esausto. Il mio treno era alle 15:43. Prima delle 17:30 sarei giunto a casa. Il capo mi aveva ignorato, come previsto. Avrà fatto chissà che giri per non incrociarmi, per non essere costretto dal galateo a suggerirmi un passaggio in macchina. Ostinato nella sua persecuzione, mentre i suoi reggicoda lo imitano e lo assecondano, senza sapere che un giorno la stessa sorte potrebbe toccare a loro.

lunedì 12 settembre 2011

Ci pensi? Questa pagina potrebbe essere stata scritta un anno fa. Di notte anziché di giorno. A casa anziché in ufficio. Disteso anziché seduto. Come se l'insegnante di italiano una mattina, svegliandosi, avesse capito che quel giovane non era così per vizio, ma per malattia; non era così per orgoglio, ma per problemi esterni; non era così per carattere, ma per mancanza di salute. Come se il sottoscritto oggi fosse già morto da tempo (chissà, magari avendo già realizzato i suoi sogni) e questo blog proseguisse automaticamente, aggiornato da un software dimenticato da qualche parte, per bloccarsi poi all'improvviso quando la macchina che provvedeva viene disattivata, venduta, guastata. Come se il tempo fosse scollegato. Come se la metropolitana non fosse più il sollievo mattutino e la purificazione serale. Come se in metropolitana non ci fossero più donne dell'età giusta per sposarmi. Come se il capo grassone si svegliasse una mattina e si dicesse: ma dopotutto è il regolamento, perché mai dovrei fare mobbing contro un dipendente onesto? E venisse da me a dirmi: è tuo diritto, e mi farò in quattro per assicurartelo in tempi brevi, cominceremo subito, so bene che ne hai bisogno, non ti chiedo nulla perché tutto ciò che avrei potuto chiederti lo hai già dato con abbondanza. Ma un rumore improvviso (il fragoroso campanello del citofono) ti fa sobbalzare dalla sedia peggio che una doccia fredda mentre dormivi. La realtà è tutt'altro. La realtà è dura e infame, perché coloro che comandano sono duri ed infami, sono ignoranti che vogliono darsi arie da intellettuali, isterici che vogliono darsi arie da saggi, diffidenti che vogliono darsi arie da sapienti. La realtà è peggiore di qualsiasi incubo. Qualsiasi.

venerdì 9 settembre 2011

Oggi è un'altra giornata strana. Un altro rinvio, un'ennesima mancata conferma. Il mio destino viene deciso tra sbadigli di capi e distrazioni di chi non dovrebbe mai giocare con le vite degli altri. Una strana giornata: anche le condizioni metereologiche sembrano confermarlo. Mi vien voglia di scrivere uno di quegli assurdi racconti che per essere suggestivi cominciano con il negare la realtà. Come se oggi non fosse oggi, come se qui non fosse qui.

giovedì 8 settembre 2011

Insomma, chiudi il computer e vorresti guardare fuori, come per scaricare il magone sul panorama. Vorresti guardare fuori e invece guardi solo le ante della finestra. Fuori c'è un intero mondo e tu guardi la finestra, senza neppure vedere cosa c'è al di là del vetro. Ti accorgi che fai così perché ti manca il fiato. Non hai fiato neppure per mormorare quell'urlo di rabbia che ti viene su dal cuore. Una donna intelligente, di grande talento, con un visino acqua e sapone, delle mani delicate, ha dedicato anni e risorse a quel progetto assurdo e inutile, quella insignificante e assurda opera. Trentadue anni oggi, ne aveva ventiquattro quando ha cominciato. Otto lunghissimi anni, di cui sette passati insieme ad un uomo che diceva di amarla e invece la usava come bestia da compagnia o come giocattolo di piacere. Già ti piange il cuore per questo. Ma ti piange il cuore ancor più pensando all'immane fatica per realizzare questo monumento al niente. Un enorme monumento al niente. Un pupazzo di neve nel deserto del Sahara: riuscito benissimo, ma già albeggia, riuscito perfettamente, ma il sole che lo illumina tra pochi minuti lo ridurrà ad un lontano e misero ricordo. Lui ti ha piantata, gettandoti via con distrazione, come l'involucro delle gomme da masticare. Prima ti dedicavi tutto il giorno a questo imperioso monumento al niente, dopo ti sei dedicata giorno e notte. Una banalissima circostanza ci ha fatti conoscere. Un attimo prima sulla metropolitana e non ci saremmo sfiorati, non ci saremmo incontrati. Alcuni minuti di viaggio insieme, all'inizio parlando come marionette, formali, fredde, come per far passare il tempo rispettando le regole del galateo, ma poi con più familiarità, più umani, più vivi. E infine vispi. Ti sei detta sorpresa di conoscere uno come me: forse non sai (o forse sai bene) che per sciogliere il cuore di un uomo basta così poco, basta ancor meno di quelle parole. “Sorpresa”: non tutti gli uomini sono come quello che ti ha sfruttata, non tutti gli uomini sono come quelli che quotidianamente ti respingono. Ci sono uomini come me, condannati probabilmente alla solitudine perché respingono fermamente l'idea che le donne siano oggetti. Non ho insistito troppo per conoscerti, perché ogni volta che stavo per aprir bocca mi sembrava di invadere la tua vita, di storpiare la tua privacy, di disturbare la tua quiete. Mi innamoro sempre delle donne che soffrono, che hanno sofferto. Mi innamoro sempre delle donne che non hanno mai avuto un amore vero. Mi fanno tanta tenerezza le donne vittima di immeritate delusioni sentimentali. Ma la vita è dura: alla tua stazione, un breve saluto e via. Quell'attimo in più di esitazione della vettura della metropolitana, con le porte ancora aperte, ti ha permesso di lanciarmi un ultimo sguardo e di accompagnare un bacio con le tue dita. Dopo una frazione di secondo, un tempo in cui si è fermato tutto, si è fermato il mio cuore, si è fermato il mondo circostante, si è fermato il tempo e lo spazio, dopo quella frazione di secondo ho trovato forza per risponderti col tuo stesso gesto, con tutta la delicatezza che mi è stata possibile. Si sono chiuse le porte e ci siamo persi nella folla ancor prima che la vettura si mettesse in moto. Mi avevi detto che utilizzi molto internet. Ti avevo chiesto se tu avessi un blog. Chissà se capiterai su questa pagina, mi riconoscerai, e mi lascerai un messaggio. Mi piacerebbe tanto rivederti, e se ti rivedessi probabilmente ti chiederei di non lasciarmi più, e di capire che queste lacrime non sono più di dolore o di solitudine.

mercoledì 7 settembre 2011

Ecco i risultati del concorsino: ho avuto in totale zero punti. Zero. Zero assoluto. Nessuno di loro ha espresso la più remota preferenza per me. Io ho votato per loro, onestamente, scegliendo quelli che ritenevo lavori ben fatti (ma erano generalmente peggiori del mio). Loro invece hanno fatto di tutto per distribuirsi tra di loro i voti. Ora capisco il meccanismo: non è un circolo aperto a tutti dove viene giudicata la qualità... ma è un circolo di amici che si incensano a vicenda, e gli estranei (come me) vengono accolti solo come incensatori, mai come persone che possono portare qualcosa di nuovo e di ben fatto. Zero voti. Nessuno di loro mi ha degnato di un minuscolo complimento. Zero assoluto. Ed io che pensavo che si valutasse la qualità. Nel concorsino su internet è come nella società vera.
Le brutte sorprese vengono sempre dopo le ferie. La brutta sorpresa è un altro trasferimento. Per l'azienda i lavoratori sono pedine su una scacchiera: a seconda dei giochi di potere ai piani più alti, le persone vengono spostate qua e là, spesso contro la logica e il buonsenso. Hai fatto tanto per apprendere bene questo compito, e ti mandano a svolgere un altro di cui non sai assolutamente nulla. Hai fatto tanto per ridurre rischi e ritardi su queste procedure, e te le cambiano con altre che sembrano fatte apposta per sforare ogni scadenza. Hai fatto tanto - anche umanamente - per questo ufficio, ed ecco che senza motivo vengono spostati gli uomini chiave dai loro posti. Siamo pedine su una scacchiera. Tolgono sempre le pedine migliori. Umiliano le persone, le costringono a lavorare su cose su cui non hanno esperienza, o quel che è peggio, a lavorare su cose su cui hanno esperienza ma alle dipendenze di un ottuso capogruppo che non è capace di azzeccarne una e ha la fissazione di voler umiliare chiunque ne sappia più di lui. Ho paura per il futuro. Non so cosa mi aspetta tra qualche giorno. Non ho idea di quanto siano disumani gli intoccabili a cui dovrò ubbidire sorridendo. Non ho idea di quanta salute mi costerà lavorare sotto la loro incompetenza, il loro desiderio di mettersi in mostra, la loro stupida credenza nel poter risolvere i problemi urlando più perentoriamente le loro richieste e più gratuitamente gli insulti a chi non è della loro sacra cerchia. Lo spettro del mobbing si riaffaccia. Vorrei poter sperare che siano solo mie paure. Vorrei poter sperare.

martedì 6 settembre 2011

Dopo mesi e mesi che la sedicente signorina veniva corteggiata da tutti nella chat... si è scoperto che era un uomo. Nelle chat sono tutti esperti del fingere ciò che non sono. La maggior parte degli utenti delle chat è fatta di uomini. Per di più gran parte delle sedicenti donne, indipendentemente dai gusti sessuali dichiarati, è fatta di uomini annoiati. La popolazione veramente femminile e veramente disposta ad accettare amicizie o corteggiamento è quindi infima (e bisogna anche sottrarre dal conto le donne che fingono di non essere già impegnate). Quindi, statisticamente, non è clamoroso scoprire che la corteggiatissima signorina era in realtà un uomo annoiato. Lo è solo per i delusi.
Ieri sera verso le 23:45 quelli del piano di sotto litigavano ancora. Urla sconnesse, urti violenti sulle pareti, alternati a piccoli periodi di silenzio o di parlottare a bassa voce. Ho dormito male, un sonno agitato, sogni strani in cui forse ritornavano in mente i ricordi di quelle urla, il desiderio irrealizzabile di chiamare i carabinieri per evitare il peggio (o almeno per farli tacere). Ma è inutile. I carabinieri sarebbero giunti troppo tardi, avrebbero trovato solo il silenzio. Avrebbero giustamente preteso di sapere chi sono io e perché li ho chiamati. Quelli del piano di sotto avrebbero saputo della mia bravata, avrebbero minimizzato e avrebbero fatto di tutto per farmela pagare cara senza lasciare tracce legalmente perseguibili. Così ho passato la notte agitata con davanti una giornata di lavoro combattendo la spossatezza e il sonno. Questa è solo un'altra delle tante piccole ingiustizie che mi tocca subire quotidianamente. Non poterli denunciare se non dopo la dimostrabile certezza che è successo qualcosa di gravissimo. Non poter dormire a causa loro.

lunedì 5 settembre 2011

Su una vecchia rivista trovo la recensione di un film-scandalo che “rischia di scoperchiare” tante pentole e che invece oggi non ricorda più nessuno. Tutte le pentole sono rimaste al loro posto, tutti i coperchi sono saldamente fermi sulle rispettive pentole. Sulla stampa si fa presto a gridare al “rischia”... tanto più gridano, tanto più sarà grande la noia con cui verrà accolto l'ennesimo “film-scandalo”. Altro che “scandalo”.
Per me “vacanza” significa potersi appisolare beatamente dopo pranzo e, qualche ora dopo, riaprendo gli occhi, chiedersi: ma è mattina, o è pomeriggio? Questo sonno ristoratore era una buona dormita notturna, o una ricca pennichella del dopo-pranzo?

venerdì 2 settembre 2011

Non mi sento a mio agio con tutti questi rumori. In lontananza uno stereo, qui vicino il frusciare delle ventole dei computer, per strada autoveicoli, ciclomotori, clacson. Tutto questo frastuono mi stona e mi toglie quel poco di carica di vita che avevo conquistato durante le ferie.

giovedì 1 settembre 2011

Qualche sera fa avevo cominciato il triste conto alla rovescia, cercando di non pensare ad ogni minuto di riposo che si dissolveva nel nulla. Ieri mattina sono tornato a lavorare con la stessa espressione di uno che si avvia alla forca per essere impiccato. Avrei voluto trovare ritardi, problemi, invece è tutto filato liscio (forse perché ieri non era ancora settembre). Ripensavo alle cose che ho visto e che avrei voluto raccontare; non volevo proprio pensare al lavoro. Avrei voluto trovare la sede ridotta in cenere ma poi riflettevo su cosa avrei fatto in mancanza di un lavoro. Avrei voluto scrivere tante cose sul blog ma non riuscivo a focalizzare nient'altro che rumore di fondo. Dev'essere il trauma del rientro. Chissà se a tutti i lavoratori capita così.