lunedì 31 maggio 2010

Oggi non ho scritto molto. Quando scrivo poco nel blog, è perché il capo va avanti e indietro controllando a vista chi sembra lavorare e chi non sembra lavorare. Un vero negriero.
Ho sempre detestato il lavoro “stile operai cinesi”. Nell'immaginario collettivo, l'operaio cinese costruisce le cose in modo che sembrino funzionare almeno per il primo minuto di utilizzo. Quel che succede dopo il primo minuto è pura fatalità. Perciò nel suo lavoro accumula errori e problemi, mettendo “pezze” indicibili che servono solo a salvare il primo minuto di funzionamento. L'importante è che funzioni un minuto: tanto dura la dimostrazione presso il cliente (dopo la quale gli operai si sentono esentati da qualsiasi altra responsabilità: la prossima consegna è urgente e non possono preoccuparsi di qualcosa di già consegnato e che ha dato dimostrazione di funzionare... anche se per meno di un minuto).
Ora il capo insinua che io sarei uno spaccone, deridendomi perché promettevo di rispettare una scadenza che poi si è rivelata impossibile. Il capo fissa le dead-line senza conoscere l'entità dei problemi. Poi pretende che le rispettiamo. Poi, se qualcuno di noi osa dire che possiamo davvero rispettarle, quando viene a galla la verità eccolo pronto a deriderci: “e tu eri quello che dicevi che ce la facevi, eh?”
Il venerdì sera ti chiedono: “allora, lunedì mattina è pronto?” Rispondere onestamente significa rischiare il posto. Esempio di risposta onesta: “dovrei dunque lavorare anche fuori orario di lavoro?”
“Io lo odio, il lunedì”. Il capo si presenta a quest'ora, ma vuole un resoconto dettagliato dei ritardi e delle motivazioni. Vorrei dirgli: noi facciamo l'orario “nove-diciotto”, tu invece fai “dieci e un quarto - venti e trenta” con pause pranzo interminabili e altre comodità. E pretendi che noi si lavori dalle nove alle venti e trenta senza interruzione? Quando andiamo via alle diciotto, dopo otto ore di onesto lavoro, dai l'impressione di sentirti offeso e danneggiato. Dovremmo andar via tutti alle venti e trenta? Alle ventuno?

venerdì 28 maggio 2010

Il capo è presente anche quando non c'è: all'ultimo momento utile, telefona per sapere a che punto siamo. Anzi, telefona per verificare che non siamo scappati via un minuto prima del necessario. Cioè di quel che secondo lui è necessario.
Come se il capo dicesse: lavorate! lavorate! Non perdete tempo a pensare come si potrebbe far meglio risparmiando tempo e denaro: lavorate! niente domande! riflettere porta via tempo! riposarsi è dannoso! lavorate!
Il secondo giorno di questo lavoro il capo già parlava di ispezionare il lavoro svolto. Sono passate tre settimane, per lunedì deve funzionare tutto, e ancora non sappiamo bene cosa si deve fare su certe cose. Pianificazione: quasi zero. Documentazione: quasi zero. Discorsi: tanti. Incitazioni e pressioni: a non finire. Lavoro svolto: tantissimo, di cui gran parte inutilmente perché non si sapeva dove cominciare e dove finire. Ti dicono di fare in fretta, a costo di imboccare una strada qualsiasi. E i risultati vengono fuori alla fine, come adesso.
Per farmi capire che vuole andarsene a casa, se ne va in giro, va alla toilette, accende e spegne inutilmente luci e altre cose, sbuffa, si gira intorno... Vorrei dirgli che non sarò certo io a trattenerlo, ma temo di offenderlo. Le sue due principali preoccupazioni sono il capo e l'orologio.
La vita veramente vissuta è quella in cui non c'è mai occasione di annoiarsi.
Io sono uno dei pochi schiavi che si rendono conto di esserlo. I miei colleghi di lavoro sono come gli idioti protagonisti del mito della caverna di Platone. Sgobbano come muli per assicurarsi dei beni insulsi, come le partite di calcio. Riducono la fantasia e la libertà allo scegliere in un catalogo di qualche rivenditore. Riescono ad annoiarsi anche più volte al giorno.
Pensiamo erroneamente che la società schiavista non esista più. Non è vero. Lo schiavismo esiste ancora. Ha solo cambiato i metodi coercitivi. Al posto della frusta ci sono strumenti più efficienti. Con la violenza e con le frustate agisci sul corpo, non sulla mente. Oggi ci sono strumenti più efficienti: per esempio, l'economia e la psicologia. Oggi abbiamo schiavi che vogliono essere come degli schiavi, sono fieri di essere usati come schiavi, e sono convinti di essere liberi.
Viene facile dire che uno è malvagio. Ma a volte si tratta di pessime abitudini che si sono consolidate col passare degli anni. Il capo pensa che noi siamo capaci di lavorare solo se lui ci sprona a farlo. Non sa che una volta che sia chiara la meta da raggiungere e siano pronti gli strumenti, tutto fila liscio senza aver bisogno di controlli da kapò nazista.
Venti minuti di telefonata da cellulare per impartire i soliti ordini imbecilli, far ricadere sopra di noi colpe non nostre, ricordarci quello che sappiamo meglio di lui... Il collega a stento riusciva ad infilare qualche “sì” nei rari momenti in cui il capo smetteva di parlare per almeno un decimo di secondo. La strategia del capo è prendersi i meriti di ciò che va bene e riversare sui sottoposti la responsabilità di qualsiasi cosa non vada bene.
Il capo telefona per sapere se tutti sono al proprio posto di lavoro. Approfitta della telefonata per fare il solito discorso sulle date di consegna da rispettare a ogni costo. Non chiede se ci siano problemi o quali soluzioni stiamo adottando. Non chiede niente. Ordina, impartisce ordini, ricorda scadenze. Passano interi minuti prima che gli si possa rispondere almeno sì o no ad una delle sue domande. Che poi non sono domande ma sono ordini perentori di rispettare le scadenze. Siamo dei semplici schiavi.
Un collega si permette qualche sottile sarcasmo sul lavoro fatto da me. Non gli rispondo, perché so che quando uno è seccato e nervoso finisce per scaricare tutto su chi gli sta davanti.

giovedì 27 maggio 2010

Anche stasera abbiamo finito tardissimo.
Quando uno è stanco e sotto pressione, pensa a sua moglie e ai suoi figli (se è sposato). Se non è sposato, penserà a una donna che vorrebbe sposare. Se pensa ad una che non ha intenzione di sposare allora si tratta di una droga, non di un rifugio. L'affetto della tua donna (anche quando lei non sa ancora che la ami) è incomparabile.
Finirò per riempire un intero blog dei miei ricordi di Lisa T. senza mai conoscere il suo vero nome?
Poco fa durante l'ora di pranzo ero in giro ed ho incontrato la Fantasmina Pallidina! Era da sola, con due sportine della spesa. Non era elegante come ai bei tempi. Uno sguardo breve, ci siamo sicuramente riconosciuti l'una l'altro, ma non c'è stato neppure un cenno di saluto. Erano anni che non la vedevo. Forse è sposata. Aveva gli stessi occhiali di allora e la stessa acconciatura di allora.
Cerco anche di pensare a Lisa T. (chissà cosa trovo se la cerco su internet).
Il capo è venuto di nuovo a farmi tutto il discorso su come e quanto bisogna ossequiare il cliente. Insopportabile. Per consolarmi, cerco di pensare che il 95% del mio stipendio è per sopportare umiliazioni e seccature di ogni genere.
Finalmente è ora di pranzo. Vado a mangiare qualcosa anche se è un momento critico. Non puoi imboccare una lunga autostrada partendo col serbatoio a secco.
Prima di cominciare un lavoro, occorre pianificarlo fin nei dettagli più banali. Tutti sono daccordo con questa regola, ma in pratica la eludono in mille modi, per esempio supponendo banali le cose che non si capiscono, con la riserva mentale che dopotutto altri sapranno sicuramente provvedere. Oppure la eludono trasformando la pianificazione in interminabili riunioni e scambi di messaggi, aumentando la confusione anziché diminuirla. Basta che uno abbia le idee confuse per propagare la confusione a tutti gli altri. Sono settimane che sto lavorando tentando di mettere insieme il prodotto di incompetenti, tentando di allinearmi agli ordini degli ignoranti ottimisti, senza uno straccio di piano, rimpiangendo spesso di aver perso ancora una volta un'ora per includere una cosa che da solo avrei fatto molto meglio in meno di dieci minuti.
Non so se lo facciano per sedare le proprie paure o per cattiveria. Ma mi controllano mentre lavoro, fingendo di voler dare qualche consiglio qua e là. Non è bello lavorare mentre qualcuno alle tue spalle cerca di controllare ogni cosa.
Le pressioni del capo potrebbero quasi essere classificate come mobbing. Lui non se ne accorge di quanto sia invadente e fastidioso: è venuto qui a dirmi di aggiungere il lavoro fatto da altri, pensando che sia facile come mettere un tappo su una bottiglia. Invece è come connettere le due metà di una portaerei. Domani non ho idea di cosa dirò al cliente. Sabato un'altra giornata di lavoro straordinario.
Per trovare un nomignolo occorre aspettare una coincidenza: un momento di ispirazione poetica (di quelli intensi e sfuggenti) ed un evento banale, del tutto casuale, che non faccia morire l'ispirazione senza frutto. Ho trovato il nome per la “principessa”. Anziché scrivere “lista”, ho scritto “lisat”. Da oggi posso finalmente chiamarla “Lisa T.” (e dovrò anche decidere cosa significa quella T, ma per questo il tempo non mi mancherà). Lisa T., che bel nome. Già mi chiedo se lei non si chiami proprio Lisa. Non avrò più bisogno delle virgolette quando devo parlare di lei.
Stamattina in treno mi sono ritrovato accanto ad una che somigliava un po' alla mia “principessa” (insomma, il nomignolo sta diventando definitivo senza che io me ne accorga). Ma c'era anche un'altra che sembrava essere interessata a me, perché abbiamo scambiato più di qualche sguardo.

mercoledì 26 maggio 2010

Sono le quattro e mezza e qualcuno già comincia a scappar via. Meno rumore significa meno stress e meno capi e meno dirigenti a gridare nei loro rispettivi telefonini passeggiando per i corridoi.
Sono stanchissimo ma temo che dovrò continuare a lavorare fino a svenire. Il capo incombe. I suoi “e allora?” incombono.
La stanchezza fisica è sempre direttamente proporzionale allo stress della psiche. Avere ansia significa sentirsi stanchi anche dopo aver riposato a lungo.
Ricordo di quando avevo tanto di quel tempo libero che quasi non sapevo cosa fare. Lo utilizzai per ottenere la patente di guida e per tante altre cose. Perciò detesto chi perde tempo senza alcuno scopo, aspettando che finisca l'orario di lavoro. Vivere aspettando inutilmente non è vivere.
Un collega che non ha voglia di lavorare perde un sacco di tempo a martoriare qualche addetta del call-center della compagnia telefonica per un banalissimo problema di bonus ed offerte speciali. Vuol dire che in Italia c'è qualcuno che lavora in condizioni più disagiate delle mie.
Ma cosa dicono? è come se dicessero: abbiamo bisogno di una ceneriera, dunque compriamo un'autovettura perché sicuramente al suo interno vi è una ceneriera!
Ci vorrebbe una candid camera quando il capo dice: “poi voi integrate il vostro lavoro”. Lui pensa che per “integrare” basta uno schiocco di dita. Lo schiocco di dita è cominciato ieri sera ed ora, in tarda mattinata, ancora non si vede la fine di questo schiocco. Certa gente pensa che per costruire un grattacielo basti solo mettere mattoni su mattoni fino a raggiungere l'altezza desiderata.
Nella mia testa c'è un esercito di ansie.
Quello che mi criticava ora ha escogitato una soluzione simile alla mia. Ieri pomeriggio diceva che la mia soluzione era uno schifo. Ora ha la gran faccia di bronzo di annunciare la sua soluzione simile alla mia.
Queste vicende non mi hanno fatto dimenticare la mia “principessa”, a cui non ho trovato ancora un nomignolo simpatico. Sono parecchi giorni che non la vedo. E pensare che mi vedevo quasi come uno “stalker”. Non sembro minimamente capace di infastidirla. Meno male.
Che fastidio ricevere ordini da uno più ignorante di te. Chi sa lavorare lavora; chi non sa lavorare comanda e pianifica in modo da renderti la vita impossibile.
Questa situazione mi ha fatto tanto riflettere su come è possibile creare guai e farsi sommergere dai guai. Sembra quasi che sia la prima volta in vita mia che ci rifletto. Ma non è così: è capitato altre volte. Le altre volte era stato meno drammatico.
I minuti passano, la scadenza si avvicina: siamo ancora in alto mare, con il cliente sempre più minaccioso (non ha tutti i torti), il capo sempre più minaccioso verso di noi ed ottimistico verso il cliente, e sempre più ostacoli da superare. Non vedo l'ora che arrivi il giorno della scadenza per vedere come finirà questa brutta storia. E soprattutto per dormire sereno, senza ansie.
Comincia una nuova giornata. In treno tutti parlavano di lavoro. Stanotte, in sogno, mi trovavo a discutere di lavoro. Lavoro, lavoro, lavoro. Diventa quasi un'ossessione il dover lavorare sotto pressione da tutte le direzioni.

martedì 25 maggio 2010

Detto così, sembra che io stia cercando scuse per scappare. Può darsi. Ma sono sicuro che se ripeto il ragionamento quando sarò ben riposato e senza stress in arrivo, sono certo che giungerò alle stesse conclusioni. Il destino di questo lavoro era nelle mie mani. Troppe volte mi hanno ostacolato affermando che lo facevano per aiutarmi e facilitarmi. Troppe volte non si sono fidati di quello che dicevo: hanno ritenuto più importante la loro ispirazione del momento che la mia esperienza, e perciò è naturale che anche con la mia buona volontà vengano fuori le naturali conseguenze delle loro scelte. Se di questo lavoro ci fosse stato da pagare lo scotto per i miei soli errori, sarebbe andato tutto molto meglio.
No, non ce la faccio più a lavorare. Non sono fatto per le scalate dell'Hymalaya a piedi nudi. Non posso tornare a lavorare domani ancor più stanco di stasera. Per il bene dell'azienda (e soprattutto per il mio), devo tornare al lavoro riposato. Se il capo mi fa pressione e mi controlla e mi ostacola, è giusto che l'azienda ne paghi il costo associato, ottenendo da me un'ora di straordinario al giorno invece che le solite due o tre.
Anche stasera lavorare fino a tardi. Pretendono risultati. Pretendono che si rispettino i piani e le scadenze. Pretendono che tutto funzioni bene, velocemente, economicamente, elegantemente... Pretendono di tutto e di più. Ma i risultati, quasi sempre, sono assai miseri rispetto alle tante buone premesse che infiocchettano i discorsi del capo e del cliente. Costoro agiscono come se avessero il genio della lampada a disposizione: basta nominare qualcosa per vederlo comparire ottimamente prodotto e perfettamente gestito e praticamente gratis.
Il capo ama concludere i suoi noiosissimi discorsi con: “visto? proprio quel che avevo pensato io, proprio quel che avevo stabilito io, proprio quel che avevo previsto io”. Anche se quando ciò sia falso, oppure sia diventato vero a forza di lacrime e sangue (non suoi).
Un'altra, interminabile, faticosa riunione, con il faccia a faccia con il malefico collega che ha una sua azienda e che ha insistito a criticare il mio lavoro. Ho incassato perché ero stanco. Quando si è stanchi si diventa deboli e vigliacchi e si commettono più errori. Nella stanchezza pensavo solo al momento in cui avrei potuto ricacciargli in gola quel suo giudizio. Magari dicendo a tutti che quello lì ama criticare chi lavora onestamente.
Sono stanco, c'è fretta di completare il lavoro, è quasi ora di pranzo e non faccio altro che divagare. Ho bisogno di una pausa, ma gli occhiuti guardiani non me la permetteranno.
Ho parlato troppo presto: ecco la notizia tra capo e collo, di quelle che ti fanno inviperire. Il cliente che non vede l'ora di verificare il lavoro: forse il capo avrà fatto un'altra delle sue ottimistiche telefonate.
Ho una fame da lupo...
Dopo le battaglie di ieri seguite dalla “felice” conclusione, ora sembrano tutti più gentili. Ma l'intuito mi dice di diffidare.

lunedì 24 maggio 2010

A quest'ora sono ancora al lavoro.
Cominciamo bene la nuova settimana: il collega dell'altra azienda critica esplicitamente il mio lavoro. Se lo può permettere perché conosce il mio capo da quando erano ragazzi, e perciò il capo gli crederà qualsiasi cosa dirà. Ma oggi appena ho la possibilità gliene dico quattro.

venerdì 21 maggio 2010

Ma come, io gli facilito la vita e lui ha da lamentarsi? Forse è meglio chiudere subito baracca e burattini, prima che problemi e stress ricomincino e prima che il capo pensi di farsi vivo per chiedere a che punto siamo.
C'è il rumore dei neon. C'è il rumore dei computer. Lontano, c'è anche il rumore del traffico cittadino. Si sente qualche clic del mouse, qualche sedia spostata. Che pace. Ho risolto un altro problema. Si lavora così bene quando non c'è il trambusto. Nessun telefono squilla. Il capo non si aggira nei corridoi telefonando a gran voce. Nessuno si muove in modo frenetico per dimostrare che sta lavorando.
Finalmente il corridoio è silenzioso. Siamo rimasti in pochi, siamo quelli che volenti o nolenti restano fino alle sei. Che pace. Si può finalmente lavorare.
Non ho proprio alcuna voglia di lavorare. Sono ancora scottato da quanto il capo mi ha detto due ore fa. Se non lo sapessi già da molto tempo, oggi avrei capito il motivo per cui qui dentro sono tutti così strani, così cinici, sempre sulla difensiva: espansivi e generosi quando non si tratta di lavoro e durissimi quando si tratta di lavoro.
Chi è stanco o stressato, non lavora bene neppure se si tratta di un lavoro manuale.
Due anni fa ero stato assegnato ad un gruppo guidato da un vero professionista. Per alcuni mesi combattemmo per risolvere problemi difficili. Chi più, chi meno, qualche errore ci scappò. Quel capo - un vero capo - manifestò più volte la sua seccatura. Ma nessuno si sentì mai umiliato. Ricordo un venerdì sera, un venerdì sera come questo, un episodio memorabile. Avevamo annunciato al cliente che tutto funzionava e che lunedì o martedì avremmo consegnato. Dopo la comunicazione ci accorgemmo di un grosso imprevisto problema. Si prospettava una nottataccia di lavoro, oppure un sabato e una domenica passati a cercare disperatamente di risolvere il problema. Disse che non dovevamo preoccuparci né quella sera, né il sabato, perché neppure un notte di sano riposo sarebbe bastata a metterci nelle condizioni di affrontare seriamente il problema. “Signori”, annunciò in modo teatrale, “cominceremo (e sottolineo cominceremo) a pensarci lunedì mattina dopo aver preso il caffè”. Paradossale, mi dissi: di fronte ad un problema grave e urgente, rinvia tutto. Evidentemente sapeva bene anche lui che chi è stanco non lavora bene.
Ho invece avuto capi umani, in passato. Capaci di capire le tue esigenze. Capaci di sgridarti senza distruggerti. Capaci di correggerti senza umiliarti a gran voce. Capaci di mantenere le distanze senza essere formali. Veri professionisti, per i quali il sottoposto non è una macchina da calpestare perché produca di più, ma è un collaboratore da far lavorare su ciò su cui ha competenza e familiarità. Lavorare con loro è stato faticoso ma non è mai stato umiliante.
Poco più di un'ora fa andavo dal capo per chiedergli come comportarci con le “novità” del cambio strumenti e per annunciargli che avevo completato un'altra sezione. Il risultato è stata quella ricca sgridata. La conseguenza è che sto perdendo tempo, non ho più voglia di lavorare, e dovrò aspettare l'ultimo minuto della giornata lavorativa per sapere se domani potrò riposare o se dovrò affrontare un'altra giornata di stress. Questo non è un lavoro pagato: mi pagano per stressarmi. Mi stressano, e nel tempo libero dallo stress riesco a lavorare e produrre. Se mi stressano poco, produco molto. Quando il capo non c'è, lo stress è poco, e riesco persino a fare le cose come le vuole lui. Quando lui c'è e gira per i corridoi sbattendo i tacchi sul pavimento e parlando a telefono come se stesse parlando con dei sordi, il livello di stress sale tantissimo. Alla sua attitudine a stressare si aggiunge infatti il suo temperamento cinico e maleducato. Non è la prima volta in vita mia che ho avuto a che fare con una persona come lui. Ma lui certamente lo ricorderò a lungo, come esempio di “cosa non si deve fare ai sottoposti”.
Credevo di avere una buona memoria per le cattiverie, ma il capo ha una memoria migliore della mia. Mi ha rimbeccato con una delle osservazioni che avevo fatto diversi giorni fa. L'arte di essere capi è nel riuscire a respingere al mittente le accuse ricevute, specialmente quando erano giustificate e fondate.
Finalmente è venuto fuori il motivo di tanta foga: la “penale” che quest'azienda pagherà per ogni giorno di ritardo nella consegna. Il cliente ha stabilito la data di consegna e la penale. Pertanto, chi si è assunto la responsabilità di dire che “si può fare”, deve anche prendersi la responsabilità di dire “abbiamo bisogno di alcuni giorni in più”. Ma purtroppo è più facile scaricare le proprie ansie su chi compie materialmente il lavoro.
Per assurgere alle vette del comando bisogna padroneggiare l'arte ipocrita del presentare in cattiva luce chi non obbedisce ciecamente perché trova modi migliori di risolvere i problemi. Si dice che “il meglio uccide il bene” ed è vero. Ma questo proverbio si può brandire contro chi riesce a fare meglio risparmiando tempo e denaro.
Proclamarsi obbedienti senza obbedire significa qualificarsi come poco seri. Per cui per distruggere la reputazione di una persona, basta costruire una presunta dimostrazione della disobbedienza di chi ha già obbedito.
Questa sua abilità è invidiabile. Immaginate che carriera può fare uno che ha buona favella e che può far sembrare incompetente uno che sa fare le scelte giuste, spacciandosi per competente e saggio quando è a tutti evidente che è incompetente e meschino. Si può invidiare la sua carriera, ma è fastidioso pensare che esistano persone come lui. La responsabilità di comandare va affidata a chi ha saputo obbedire, non a chi si è fatto largo con artifici verbali. La responsabilità di progettare va affidata a chi ha dimostrato di sapersi adeguare, non a chi si è fatto largo con trucchetti di arte retorica. Il buonsenso è la dote essenziale quando si hanno dei sottoposti.
Riunione col capo. Come al solito lui ha tutte le ragioni ed io tutti i torti. Qualcosa non quadra: o lui è bravissimo in arte retorica a far sembrare nero il bianco e bianco il nero, oppure io sono incapace di comunicare concetti elementari. Mi ha trattato come un pivellino incapace. Gli ho detto che ho completato un'altra sezione e al termine del discorso mi sgridava perché ho usato lo strumento sbagliato. Gli ho detto che uno usa gli strumenti che conosce meglio, e che usare qualcosa che non conosci ti ruba tempo. Con lo strumento più adatto, siamo già in ritardo: vuoi l'altro strumento? Allora c'è bisogno di più tempo. Ti conviene? Incredibile: dopo queste domande fredde come il ghiaccio, è riuscito a farmi una doccia di azoto liquido, riuscendo a cavalcare le parole con tanta abilità da concludere il discorso con la sua solita paternale, buona solo a mettermi a disagio.
Come sempre: il cliente definisce “quando” va consegnato il lavoro, il cliente - dopo settimane - pretende che quii si cambino improvvisamente gli strumenti di lavoro senza che cambi la data di consegna, ed il capo in preda al panico (nonostante lui abbia contribuito fortemente a creare questa situazione) sta per mandarmi una mail perentoria in cui mi sgrida perché settimane fa non ho cominciato con gli strumenti che il cliente oggi ci ha intimato di utilizzare. Ecco come fa uno ad innamorarsi di una viaggiatrice pendolare, pensare a lei per anni, farsi quasi etichettare come “stalker” (ma solo dalla propria coscienza), e poi non riuscire neppure a sapere lei come si chiama. Uno diventa facile all'infatuazione in proporzione alla pressione psicologica subita mentre lavora. Uno diventa sentimentale perché è una via di fuga che sembra tanto dolce.
Certe cose succedono solo il venerdì pomeriggio: mi hanno appena detto che bisogna cambiare completamente strumenti di lavoro: la data di consegna ovviamente non può cambiare. Rido di gusto: bello scherzo, e poi? E poi non è uno scherzo: “tra poco ti arriverà una mail che...” No, dai, non scherziamo, se ne ricordano solo ora? Dopo tutte queste settimane? Se loro non sanno come si utilizza uno strumento, non vuol dire che noi non possiamo utilizzarlo. “No, non è uno scherzo: tra poco ti arriverà una mail che...”
Certe volte si diventa sentimentali solo perché si è sotto pressione col lavoro. Certe altre volte lo si diventa per noia, per assenza di preoccupazioni urgenti. Non so quale sia il mio caso. Ho sempre pensato di essere passionale. Ma il miglior ingrediente per sentirmi infatuato sono state le pressioni quando lavoravo.
Ora è al telefono con la svampita preferita, la quale balla e canta con le amiche mentre sta parlando al telefonino. Adolescenti troppo crescuti. Ed il capo se la prenderà con me perché il cliente ha fretta (ha fretta a causa della sua enfasi nel pubblicare i risultati che ancora non abbiamo raggiunto).
Chiedo ad un collega di aiutarmi a compilare un modulo (pura burocrazia aziendale). Mi risponde gentilmente che se ho dubbi posso telefonare alla segreteria. Il collega è quello che da quando è arrivato in questo ufficio si lamenta che si annoia. Passa le giornate tra navigazione sui social network, telefonate a ragazze svampite, pause e contropause per merende, caffè, merendine, scaricare musica, visite alla toilette, passeggiatine, youtube... Il nullafacente per eccellenza, la cui sola presenza in questo stesso ufficio è una bastonata sui nervi di chi ha da lavorare. Mi ha gentilmente risposto che se ho dubbi posso telefonare in segreteria. Me ne ricorderò.
Mi hanno frenato, mi hanno fatto sbagliare strada e ricominciare, mi hanno cambiato le carte in tavola senza avvisarmi, e mi sgrideranno perché sono in ritardo sulle consegne.
In questi momenti non sai contro chi imprecare. Hai esaurito tutti i soggetti. Hai dato fondo a tutte le paroline e tutte le parolacce. Non hai più niente da dire, nessun nome da sospirare. Ed è ancora venerdì mattina.
In prossimità delle scadenze, si cominciano a fare i grandi sacrifici. L'importante è consegnare in tempo: dunque non importa che sia bello o brutto.
Il presunto “stalker” (presunto dalle proprie apocalittiche fantasie momentanee dovute a stomaco vuoto) non sta più stalkando. Sono quattro giorni (o tre?) che non la vedo...
Il cliente paga un lavoro a peso d'oro, ma chi effettua materialmente il lavoro guadagna pochi spiccioli e grande usura dei nervi.
Il cliente ha deciso che ci occorrono due settimane di prova, non una. Dunque, proprio nell'imminenza della scadenza dei termini, ci ritroviamo con due settimane in meno di tempo per lavorare.
Mi dicono che il cliente è entusiasta dei nostri progressi (cioè dell'enfasi con cui sono stati descritti i progressi che non abbiamo ancora fatto) e che vuole che andiamo lì a provare quel che abbiamo già pronto (cioè niente di consistente). Ora sicuramente verrà qui il capo a sgridarmi perché sarei in ritardo sulle consegne (in ritardo rispetto ai suoi enfatici discorsi che hanno lusingato il cliente). L'errore principale che ha generato questo sconquasso è stato comandare quale deve essere la data di consegna senza pensare a quanto lavoro è necessario per fare le cose buone, belle, veloci e di qualità come le vogliono loro.
Quel demente è tutto impegnato a comprare una bella auto, perché gli sembra il modo unico e sicuro di trovare una donna. Siccome espone una bella auto, allora verrà visto come uomo di successo. Poco importa che lo stipendio se ne vada quasi tutto per pagarne le rate, le tasse e la benzina.
Mi sono appena ricordato che c'è l'imminente minaccia di dover lavorare anche domani che è sabato. Il capo, quando vuole riposare o quando è malato o quando ha da fare qualcosa con i suoi amici o con i suoi familiari, scompare nel nulla. Ma quando deve disporre del nostro tempo, non ammette né l'esistenza della possibilità che uno possa avere problemi personali, né la possibilità che tali problemi possano venir fuori all'ultimo momento e senza preavviso. Per disporre del tempo degli altri occorre avere un grande rispetto di loro.
Ieri ed oggi sono stato in un altro treno, non ho visto la mia “principessa tappetta” (ma perché mi riesce così difficile trovarle un nomignolo più simpatico?). Immagino che lei abbia guardato in giro più volte, pensando: “oggi non c'è , dunque contro chi potrò comportarmi come seccata o indifferente?”
Ogni volta che sono in giro, mi viene in mente qualcosa da aggiungere al blog. Ma poi appena rientro in ufficio, dimentico cosa volevo aggiungere.

giovedì 20 maggio 2010

Il capo fa pressione su di noi. Poi va dal cliente a vantarsi che qui è tutto quasi pronto. Il cliente allora si lusinga e chiede subito di fare prove, il prima possibile. Il capo allora va in panico. Stasera mi tocca scappare senza farmi notare dal capo, altrimenti qui si fa notte a sentire i suoi predicozzi su quanto siamo lenti.
Quando crei, puoi commettere errori, che avrai poi bisogno di correggere. Quando provi, puoi accorgerti di errori, che hai poi bisogno di correggere. Quando scrivi il manuale d'uso, puoi accorgerti di altri errori e debolezze che ti erano sfuggiti prima, e quindi hai bisogno di altro tempo per correggere. Infine, quando ne parli con il cliente o con altri estranei, possono affiorare altri errori e problemi che richiedono tempo per essere corretti.
Il capo è infinitamente pessimista quando ha a che fare con noi, ed infinitamente ottimista quando ha a che fare col cliente. Stiamo appena cominciando a vedere una piccola luce in fondo al tunnel, e il capo fa sapere al cliente che siamo quasi pronti per mostrargli il prodotto quasi completo. Abbiamo ancora paurose lacune su questioni importantissime, e il capo autolesionista va dal cliente a fingere di essere il genio della lampada. Poi tornerà sicuramente qui a dirci che siamo in ritardo e che il cliente ha sempre ragione e che dobbiamo fare di più, fare meglio, fare presto, fare bene. Faremo certamente di più. Ma quando si ha fretta, non si fa né meglio, né presto, né bene.
Ad ogni telefonata di chiarimenti tecnici del collega che lavora dall'altra parte, il capo corre allarmato e infuriato da me a chiedermi se ci siano “problemi” (parola da pronunciare in modo cupo e funereo). No, era un chiarimento su una questione tecnica: chiarimento non significa problema. “Ma allora perché ha telefonato?” Per avere un chiarimento su una questione tecnica. Chiedere un chiarimento non significa brancolare nel buio. Il capo non è convinto. Il capo non si convincerebbe neppure se tutti in coro corressero a dirgli: abbiamo risolto improvvisamente tutti i problemi!
Sono tornato dalla pausa pranzo con sei minuti di ritardo. Il capo mi aspettava da cinque minuti prima. Ha aspettato per dieci minuti (cioè fino ad un minuto prima che rientrassi) e se ne è andato infuriato, credendo che io prolunghi all'infinito la mia pausa pranzo. Proprio a me doveva capitare, proprio a me che non ne ho mai veramente approfittato...
Il problema di questo ambiente di lavoro è che chi comanda pretende di incastrare gli imprevisti e le difficoltà in uno schema. Così è già una bolgia infernale. Immaginate cosa può diventare nel momento in cui comanda un ignorante che pretende di adeguare il mondo ai suoi sogni di gloria: “dobbiamo consegnare lunedì!”
Venticinque minuti di telefonata per spiegare ad uno “specialista” la sua “specialità”, che in toria lui conosce bene ed io ignorerei.
Quel che è più incredibile, è che se lavori su una cosa che non riguarda il capo, lui vive come se non esistessi. Non sarà una qualità da vero carnefice, ma certo può soffiare sul fuoco dell'invidia.
Ah, in tutto questo aggiungiamoci 33 minuti di inutile riunione.
C'è un lavoro da fare in una settimana, che per il capo diventa composta da quattro giorni (se dovesse essere lui a lavorare, la settimana diventerebbe di venti giorni). I quattro giorni consistono in tre giornate, perché il quarto è per consegnare. Le tre giornate sono in realtà due, perché la terza è per verificare e provare. Le due giornate si riducono a una, perché nel primo giorno non si sa bene cosa si deve fare. Dopo tutto questo, il capo mi chiede se sono pronto a venire a lavorare anche sabato e domenica, dando ovviamente la colpa a me perché sarei stato “lento” a capire le sue indicazioni e “lento” a capire come bisogna lavorare...

mercoledì 19 maggio 2010

Il capo viene a farmi pressione ancora una volta. Non si rende conto che è opprimente? Gli ho detto che ho un problema che conto di risolvere a breve, e che se vuole discuterlo mi toglie tempo prezioso. Ha capito l'antifona ed è andato via. Ma tornerà presto. Sono certo che lì, nel suo ufficio, sta solo guardando l'orologio in attesa di correre di nuovo qui.
Passano minuti preziosi, il fiato del capo si sente sempre tra capo e collo, sta finendo la giornata, e le scadenze comandate diventano sempre più difficili da rispettare. In questo ambiente si lavora al contrario: prima decidono quando dobbiamo consegnarlo, e poi ci dicono cosa dobbiamo fare, centellinando le informazioni fino a quando è troppo tardi. Infine si lamentano che lavoriamo con molta fretta e poca attenzione.
Magari il blog dovevo chiamarlo: “lo stalker pigro”.
Niente da fare: è sempre una lotta contro il tempo, ogni minuto è prezioso.
Tutto quel che sa dire il capo è: “dobbiamo consegnare”. Lui comanda, noi lavoriamo (noi: cioè io), e se non si riesce a consegnare non è colpa sua che ha chiesto l'impossibile (come sempre), ma è colpa nostra che non abbiamo “capito” quel che lui ha comandato.
Leggere quella pagina sullo stalking mi ha fatto quasi tremare. Possibile che io sia uno stalker? Mi sento solo un buontempone un po' innamorato.
Oggi ho proprio scritto un poema. Sarà ora di ricominciare a lavorare...
Insomma, anche analizzandomi severamente, non credo di ricadere nella categoria “stalker”: non sono abbastanza molesto da indurre una minima preoccupazione, non sono abbastanza opprimente da guadagnarmi altro che il suo detestarmi.
Ottava domanda: c'è stato forse un crescendo di attività nei suoi confronti? Nessun crescendo. Dopo che capii che mi detestava, cioè già durante la prima settimana, le “attività” si sono ridotte e sono rimaste uguali fino ad oggi. Salvo qualche “spike” dettato dalla coincidenza di ispirazioni momentanee e condizioni ottimali, come martedì della settimana scorsa. Per la verità, c'ero già riuscito in almeno un'altra occasione, ma sono passati anni.
Settima domanda: ho fatto appostamenti? Certamente: come ogni studente adolescente che vuol farsi notare dalla compagna di classe, né più né meno. Lei mi detesta, così come una studentessa carina detesta essere notata dai brufolosi bruttini e adora essere notata dai belli della classe successiva. Sono troppo pigro per fare appostamenti elaborati: per esempio, so che all'uscita della stazione lei va verso destra, ma in tutti questi anni non mi sono mai appostato all'incrocio per sapere che direzione prenderà dopo. Un altro appostamento molto fantasticato e mai realizzato, è prendere il treno prima, sedermi nella sua stazione ed aspettare che lei arrivi. Se in tutti questi anni non sono mai riuscito a vincere questa forma di pigrizia, allora non ci riuscirò mai.
Sesta domanda: ho fatto intrusioni? Nessuna intrusione, a meno che “intrusione” non significhi prendere lo stesso treno. Dato che lei sale sul treno ad una stazione successiva alla mia, non posso “invadere” il campo sedendomi di proposito accanto a lei.
Quinta domanda: sono affetto da disturbi mentali? No, ma la mia “stalker” temo di sì. Con quest'ultima le ho provate tutte, senza riuscire a togliermela di torno. La considero seccante, ma non persecutrice. Non è abbastanza invadente. Non fa appostamenti né intrusioni. Sospetto che abbia disturbi mentali solo perché in alcuni anni non ha cambiato registro: le sue telefonate e i suoi SMS del primo giorno sono gli stessi di oggi. Non l'ho mai considerata più di una seccatrice. Ed ora non mi secca più: mi sono abituato.
Quarta domanda: reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta? A dire il vero, quasi nessuno. Gli unici tentativi fatti sono di comunicazione non verbale, come l'espressione sorpresa degli occhi quando la rividi dopo molti mesi che l'avevo persa di vista. Avevo preparato una simile espressione anche per stavolta, che erano quasi due anni che non la vedevo più, ma lei si è accorta di me prima che potessimo incrociare lo sguardo, e perciò quando ero “pronto” per mostrarmi sorpreso, lei si era già voltata dall'altra parte. I tentativi di comunicazione non verbale (e nemmeno scritta) sarebbero dunque reiterati, con la precisazione che di sicuro sono“frequenti”, ma sono non troppo insistenti.
Terza domanda: la perseguito? Risposta: no. Scelgo di proposito di non incontrarla anche quando ne ho la possibilità: lo faccio proprio per evitare di darle l'idea di essere un persecutore. Inoltre, le persone che mi stanno intorno ancora non ci hanno fatto caso.
Seconda domanda: le ingenero stati di ansia e paura? Certamente lei non prova né ansia né paura. Dopotutto sto sempre a notevole distanza fisica e sempre in luoghi pubblici e molto affollati.
Prima domanda: la affliggo? Come ho detto, lei certamente mi detesta. Ma non mi sembra terribilmente afflitta dalla mia presenza. Inoltre, questa sua scarsa afflizione non è dovuta ai miei tentativi (più o meno riusciti) di non essere troppo invadente. Per adesso non sono ancora un caso clinico.
Lo “stalking” è “una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un'altra persona, spesso di sesso opposto, perseguitandola ed ingenerando stati di ansia e paura, che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della quotidianità”. Comincia a somigliarmi. La persecuzione avviene solitamente “mediante reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti e intrusioni nella vita privata”. Ahi, ahi. Lo “stalker” può essere un estraneo o un conoscente, che agisce in questo modo per “stabilire una relazione sentimentale, imponendo la propria presenza ed insistendo anche nei casi in cui si sia ricevuta una chiara risposta negativa”. Più leggo, e più mi sento un caso clinico. “Meno frequente è il caso individui affetti da disturbi mentali”, e qui ricordo che anche io ho una “stalker” che (in teoria) mi affligge. “Solitamente questi comportamenti si protraggono per mesi o anni, il che mette in luce la anormalità di tali atteggiamenti”.
Mi chiedo se sia ancora fidanzata con quel brutto arnese pelato che vidi nella foto che lei aveva nel suo portafoglio, in quell'unica occasione in cui lo aprì. Non ha ancora una fede al dito. Mi domando quanti la stiano corteggiando. Chissà quali sono i suoi gusti in fatto di uomini. Certamente mi detesta, ma non penso che mi consideri un vero e proprio “stalker”.
Stamattina lei aveva un simpatico pantalone a righe, decisamente più elegante dei jeans. Un colore blu cupo, con sottili righine bianco crema.
Quando il capo tutto sorridente ti chiede come procede il lavoro, non hai alternative. O gli sorridi inventandoti qualcosa per rassicurarlo, o lo prendi a pedate per aver scelto di farmi “aiutare” da un inetto e da un incompetente.
Ma come si fa a restare calmi? Per farmi risparmiare dieci minuti mi stanno facendo perdere mezza giornata. Il mio aiutante riuscirebbe molto più utile nel settore della pulizia pavimenti.
Lo so che non hai niente da fare: per cui ti chiedo gentilmente di non farmi perdere tempo! Voglio lavorare!
Per qualche attimo si vedeva la sua mano sinistra aggrapparsi ad uno dei sostegni. Poi non ho visto più niente per qualche minuto, e quando la studentessa si è spostata, ho notato che la mia “principessa” (uffa, devo ancora trovare un nome adatto, ancora non mi è venuta la giusta ispirazione) aveva finalmente trovato posto a sedere, addirittura nella mia direzione, ma anche stavolta ho evitato quanto più possibile di incrociarne lo sguardo. W la timidezza.
Rieccomi di nuovo a lavorare. Stamattina, in treno, lei c'era: ieri non c'era e perciò pensavo che fosse malata (mi sembrava improbabile che una donna così metodica potesse perdere il treno). Ho provato ad essere delicato, cioè a non farmi vedere. Mi sono però istintivamente seduto sempre al solito posto (sulla sinistra della terza porta) e c'era in treno una tal quantità di viaggiatori che lei è rimasta in piedi per buona parte del viaggio. Avrei voluto offrirle il mio posto a sedere, ma era in piedi a diversi metri da me e certamente non avrebbe risposto ai miei cenni. Poi si è addirittura messa in modo da essere “eclissata” da una studentessa che era in piedi tra me e lei. La studentessa era alquanto carina, ma la vedevo come un ostacolo.

martedì 18 maggio 2010

Andando via, mentre nuoto tra le raffiche di vento per raggiungere la stazione, provo sempre quel senso di sollievo che mi ridà voglia di tornare su a lavorare ancora per un po'. Ma finora ho sempre resistito alla tentazione. Forse solo per questo posso dire che amo il mio lavoro... senza esserne diventato schiavo.
All'ultimo minuto mi arriva un documento word che in teoria io dovrei studiare, ammirare, lodare. Anche stavolta ci sono segni evidentissimi che è stato fatto a suon di copia e incolla. Oggi non si sa più neppure scrivere in lingua italiana.
Si è fatta ora di andare via. Rimarrei volentieri qualche altra ora, perché gli elementi di disturbo sono assai diminuiti. A quest'ora si lavora bene (specialmente adesso che il capo è andato via). I telefoni non squillano. Non si sentono in corridoio mitragliate di tacchi di qualcuno che fa sapere a tutto il mondo che sta andando alla toilette. Non vengono convocate riunioni improvvise (se ci fosse il capo, il rischio ci sarebbe ancora).
Sfogarsi immaginando di poter gridare ai propri colleghi “siete un branco di incompetenti” non aiuta a risolvere i problemi. Non aiuta neppure il riassumere ad amici e parenti quanto siano incompetenti propri i colleghi di lavoro. E se continuo a scriverlo su questo blog, andrà a finire che nessuno avrà più voglia di leggere. Non serve a molto lamentarsi dei propri colleghi. La vera arte, in questo tipo di lavoro, è produrre qualcosa che li contenti e che contemporaneamente funzioni. Questa è la vera sfida. Ma è una sfida durissima: è come pretendere di smontare un camion usando solo un cacciavite: ci si può anche riuscire, se ci fosse il tempo adeguato, la pazienza adeguata, una tolleranza adeguata sui risultati e soprattutto un incentivo economico adeguato.
Diceva un vecchio proverbio (letto su Topolino): se vuoi scontentarli, allora accontentali troppo. Purtroppo funziona solo con le persone normali e dotate di buonsenso. Quando uno è pazzo, non si accontenta mai “troppo”. Non si possono inseguire le manie dei pazzi.
Se non hai idea di come si fa, non dovresti venire da me (che so come si fa) a darmi consigli su come devo fare (per poi sbraitare quando ti accorgi che comunque vado avanti a modo mio, nonostante che il problema venga risolto).
Incredibile quanto fracasso siano capaci di fare certuni nell'andare alla toilette. Ci vanno a passo di carica, sbattendo i tacchi come se volessero farsi sentire dal mondo intero. Si liberano in maniera fracassona di solidi, liquidi e gassosi. Si lavano le mani che sembra il diluvio universale. Escono infine quasi sbattendo la porta della toilette. Forse lo fanno solo per dimostrare che si può andare a fare pipì sottraendo meno di venti secondi totali al lavoro.
Come sempre, bramano di risolvere i problemi e poi invece sprecano il tempo (quello loro e quello altrui) per delle meschinità. Varrà più una soluzione già funzionante e già consegnata, oppure varrà più una fine discussione filosofica-metafisica del “come si potrebbe far di meglio”? Dipende. Se sei il capo, improvvisamente vale più la seconda.
Quando durante la riunione ho ammesso onestamente una mia svista, c'è stato quasi un urlo di trionfo da parte di tutti gli altri. La riunione, infatti, serviva per umiliare i sottoposti, non per risolvere problemi. C'era anche il controllo dei volti: “non mi sembri convinto”, mi dice il capo, e così la riunione già conclusa prosegue per altri dieci minuti finché non mi decido ad elargire un falso sorriso di circostanza.
Sessantaquattro minuti di riunione. Decretata all'improvviso. Urgenza immediata. Improcrastinabile. Ingiustificabile anche un solo secondo di ritardo. Infatti nel corridoio sento fare il mio nome: avevo un solo secondo di ritardo. Riunione improvvisa, sessantaquattro minuti persi: è tempo perso quello che non ti risolve problemi, non ti chiarisce dubbi, non ti aggiunge informazioni e materiali per lavorare e non ti fa neppure divertire un poco.
C'è stato un periodo in cui in ufficio non avevo quasi niente da fare. Navigavo, ripulivo directory, archiviavo posta elettronica, leggevo manuali: detestavo pensare di star lì ed essere pagato per non fare proprio niente. Fino alla fine della giornata, perché detestavo approfittarne. Ancora non ho trovato nessuno che agisca allo stesso modo. Non vedono l'ora di scappare dal posto di lavoro: sia quando sono giornate “tranquille”, sia quando sono giornatacce di lavoro duro. Per molti il “posto” di lavoro è una specie di carcere che si sopporta solo per guadagnare la libertà a fine giornata (e lo stipendio mensile).
La mail, naturalmente, serviva per mettermi di fronte al “fatto compiuto”.
Poi vengono qui a chiederti: “ti è arrivata la mail che ti ho spedito un minuto fa?”
Il collega “abita” due o tre stanze più avanti, e pensa che per comunicare con me siano indispensabili le email. Forse è più facile comunicare con un collega in Papuasia che non parla né italiano né inglese...
Ci risiamo: sento ancora una volta la frase “l'azienda ha deciso che...” (l'azienda? non sapevo che fosse un essere vivente).
Il collega mi dice a chiare lettere che non può permettersi di non seguire le lune del capo. Non vede l'ora di tirare i remi in barca. Eppure ha ancora un ventennio davanti prima della pensione.
Appartengo alla razza di quelli che il proprio lavoro vorrebbero farlo bene. Razza in via di estinzione.
Ma poi, come si fa a non lagnarsi? Il capo mi dà un certo tempo per concludere il lavoro. Dopo un decimo del tempo, senza consultarmi, in nome delle sue sole ansie, subappalta parte del mio lavoro ad un perfetto incompetente. Vengo a saperlo per puro caso. Dato che l'incompetente è pagato per esserlo alla perfezione, dovrò adeguarmi a quel che lui “produce”, triplicando il mio già delicato lavoro. Sappiamo tutti che è incompetente, ma guai a dirlo: il Capo, essendo il Capo, per definizione sceglie sempre la persona giusta al momento giusto. Perciò, se una settimana fa l'incompetente poteva essere qualificato come incompetente, ora è vietato accennare anche lontanamente alla sua principale caratteristica. La morale di tutto questo è che per fare male un lavoro basta fondare ogni ragionamento sulle ansie di chi comanda.
Un blog è un ottimo modo per affidare le proprie rabbie a chi non può utilizzarle come strumento per vendicarsi di te.
Lagnarsi è come fumare una sigaretta: forse non farà tanto bene alla salute, ma qualche effetto lo produce comunque (non fumo, ma rispetto l'opinione e l'abitudine dei fumatori fintantoché non mi affumicano). Lagnarsi serve a scaricare la tensione: chi accumula rabbia prima o poi esplode.
Qui lo sappiamo tutti che se quattro persone vanno in quattro direzioni diverse, il risultato finale non è certo il ritrovarsi tutti insieme al punto prestabilito e al momento prestabilito. Però è vietato dirlo: tre di quei quattro insorgerebbero, pretendendo di aver ragione. E il quarto, cioè l'unico che va nella direzione giusta, non può rischiare guai affermando una verità così evidente.
E poi si scatenerebbe la bufera per quel che ho detto. In questo mondo di ipocriti, è talvolta proibito dire ciò che tutti sanno.
Mi deriderebbero perché sono completamente timido e completamente innamorato di una che mi evita di proposito (penso però che lo faccia per farsi notare).
Ci mancava solo questa: da giorni interi la directory con le copie dei messaggi che ho lasciato sul blog era accessibile in lettura da tutti i computer dell'azienda! Che vergogna. Spero che nessun curiosone abbia avuto modo di leggere. Purtroppo è proprio vero che ha la possibilità di restare davvero segreto solo ciò che ti rimane in testa. Ora ho preso qualche precauzione, stramaledicendo i computer e le loro “condivisioni”...
Comincia una nuova giornata in trincea. Comincia male: mi manca il volto di quella donna. Stamattina in treno non c'era. Che sia ammalata? Una donna puntualissima e metodica: non può banalmente trattarsi di ritardo...

lunedì 17 maggio 2010

Torno a casa, torno a casa! finalmente è ora...
Quando da queste parti non resta quasi più nessuno, mi torna sempre la voglia di lavorare e di esplorare nuove soluzioni. L'ispirazione è sempre inversamente proporzionale all'ansia prodotta dall'andirivieni di capi, di tirapiedi e di nullafacenti annoiati.
Qui moltissimi hanno qualche problema di vescica piccola: hanno continuamente voglia di andare a fare un giretto alla toilette...
Quando dentro di me mi accorgo che sto obbedendo ad uno che mi tratta male, finisco sempre per reagire: è più forte di me. Non sono di quelli che riversano cattiverie senza motivo. Ma mi accorgo di non saper pazientare di fronte al più banale e fastidioso dei soprusi: quello di essere maltrattato senza motivo.
Per chi fa un orario “nove diciotto”, quando la lancetta dell'orologio ha superato le diciassette, si sente già aria di casa. E viene l'ansia a pensare che da un momento all'altro potrebbero piovere telefonate, riunioni, richieste...
Ancora non ho trovato un nome da assegnare alla mia principessa. “Principessa”, del resto, mi sembra troppo banale. Non vedo l'ora di rivederla.
Non mi dà fastidio che qui dentro oggi io sia l'unico che sta lavorando. Mi dà fastidio il fatto di essere controllato a vista, come se fossi un ergastolano disperato che non aspetta che una minima distrazione dei carcerieri per poter scappare.
Le riunioni col capo dovrebbero servire a capire quali sono i problemi e come risolverli. In realtà servono a riversare fiumi di parole inutili, ingigantire problemi minuscoli, sottovalutare le osservazioni pertinenti di chi ha capito qualcosa, trattenere per interminabili ore gente che aveva ancora forza e volontà di affrontare i problemi.
L'orario di lavoro ridotto ad una serie di lagne. Ma la chiave di tutto è nel fatto che chi non sa lavorare, comanda, e chi non sa neppure comandare, dirige e decide in che direzione vanno i soldi.
Sembro lagnoso? Quanta pazienza ci vuole per evitare di lagnarsi di uno che pretende che tu usi degli strumenti che non conosci, e che non conosce neppure lui, al posto di quelli che conosci bene e sui quali hai la massima familiarità...
Sembro lagnoso. Lo sono. Tu insinui, e poi scappa qualche insinuazione anche a me. Tu deridi i miei strumenti di lavoro, che non conosci, che non hai mai usato. Cosa ti potrei rispondere? Tu mi ricordi cento volte al giorno la scadenza di un mese, come se io non la ricordassi. Cosa ti potrei rispondere? Te lo posso dire che le cose prendono forma lavorandoci piuttosto che ripetendo meccanicamente delle frasi fatte?
Sembro lagnoso? Vi sembra troppo chiedere di essere trattato come una persona? Vi sembra assurdo chiedere che se mi viene assegnato un compito X, nessuno (tanto meno il capo che me l'ha ordinato) dovrebbe lavorare in direzione opposta a X? Presentarmi il “fatto compiuto” dopo avermi fatto svenare a rispettare una scadenza, significa prendermi per il sedere. Credo che la mia paga sia la retribuzione per il lavoro, non il contentino per le frustrazioni.
Ma allora ditelo!
Ora mi tocca pure lavorare per rimediare agli errori del collega. La sua posizione è indifendibile. Se avesse detto “scusate, il capo mi metteva fretta” avremmo tutti dimenticato l'episodio. Invece difende a spada tratta la sua soluzione, dicendo che dopotutto ci servirà, e per adattare ci costerà una fatica minima. Fatica, si intende, del sottoscritto. Minima, si intende, rispetto a qualche millennio.
Ufficio Complicazioni Affari Semplici. Se il capo fa guai, i sottoposti sono tenuti a chiamarli “variazioni necessarie” e a lavorare sodo (e con urgenza) per inventare qualcosa che le faccia sembrare veramente necessarie. Non mi rimaneva che sbottare: “ma allora ditelo!”
Lo “stato di avanzamento lavori” è quel diabolico strumento che serve a farti pressare dal capo in ogni momento. Qui non stiamo costruendo un grattacielo: dopo sedici giorni, non è affatto preoccupante che non siano ancora costruiti sedici piani.
Un ottimo modo per essere sconfitti è quando tutti i comandanti, pur di mettersi in mostra presso il generale, si ostacolano tra di loro. Davvero è incredibile ciò che può compiere l'ambizione umana. Ma è ancora più incredibile ciò che possono compiere le piccole ambizioni personali, quelle piccole meschinità di tutti i giorni.
Mi ha appena detto che “venerdì notte” (testuale) ha provveduto a fare di testa sua. Sono rimasto in silenzio. Tutto il lavoro che ho fatto venerdì è da buttare.
Lei c'era anche stamattina. Ma non sono riuscito ad avere un attimo dei suoi occhi. Non ho cercato occasioni, non voglio essere invadente. Ma quando è ripartito il treno, anche stavolta ho notato che lei non guardava dal lato del marciapiede (dove il mio sorriso la aspettava). Basta un piccolo evento del genere per cominciare male una nuova settimana.

venerdì 14 maggio 2010

E finalmente è finita un'altra terribile settimana che non finiva mai. Il nostro tempo è prezioso, eppure abbiamo spesso così tanta voglia che passi velocemente...
Quando uno è stanco e sotto pressione, finisce per innamorarsi più facilmente. Innamorarsi di proposito è un modo per scappare dalla realtà.
Siamo i nuovi schiavi: non valiamo per le nostre qualità e le nostre conoscenze, ma siamo solo sostituti economici di macchine più costose dei nostri stipendi.
Certe volte mi sembra di essere l'unico che lavora qui dentro.
Anche ieri ho evitato di farmi notare (ero nello stesso treno, e probabilmente lei mi ha visto, ma non ho voluto farmi notare troppo: qualcosa ieri mi diceva che ne avrebbe provato fastidio).
Mercoledì, di proposito, ho preso un altro treno (anche al ritorno). Non volevo sembrare assillante.
Martedì mattina, alla grande! La intravedo in treno, ma come il giorno prima siamo lontani e poco in vista, e non trovavo mai lo spiraglio adatto (in questo mondo è difficile anche il solo lanciare uno sguardo ad una donna). Ma quando scendo dal treno, un attimo prima che il treno riparta io sto passando vicino al suo finestrino, per un attimo la guardo con due occhi da vero innamorato, e con la mano le faccio un breve cenno di saluto. Istintivamente mi avrebbe risposto e sorriso, ma si trattiene. Però quella frazione di secondo in cui rispondeva al mio saluto sorridendomi, mi ha ripagato ampiamente di questi anni di attesa per rivederla. Mi torna il batticuore solo a ricordare quel brevissimo istante...
Lunedì sera l'ho vista di sfuggita.
Lavoro e penso a lei. Lunedì mattina prendo proprio quel treno, c'era proprio lei, volevo far finta di essere sorpreso nel rivederla. Ma mi è andata male. Lei mi ha visto prima che i nostri sguardi si potessero incrociare, ed avrà avuto tempo di pensare “oh, no!”
Non voglio più chiamarla “tappetta”, mi sembra un nome da personaggio di cartoni animati per bambini. Ci vuole un nome più carino, perché lei è proprio carina. Venerdì sera la vidi mentre saliva per le scale, appena uscita dal treno. Dopo tanto tempo... finalmente la rivedevo!
Può lavorare in modo creativo anche chi è costretto ad agire come se fosse una macchina. Purché non intervengano fattori esterni a frustrare e ingabbiare.
La prima cosa che fanno appena arrivati in ufficio è decidere come e dove andare a prendere un caffè. Non c'è da invidiarli per tutta questa libertà, ma c'è piuttosto da invidiarli perché in quel modo rendono meno più umano il lavoro. Non siamo macchine. Il fattore umano è fondamentale. Chi lavora contento lavora meglio. Chi lavora nutrito e riposato, rende di più. Chi ha in cuore ansie o delusioni (anche se estranee all'ambito in cui lavora: per esempio, una delusione sentimentale) lavora male.

giovedì 13 maggio 2010

Il capo non si vede più da un'ora buona. Non si sente la sua voce nei corridoi. Ho l'impressione che tutta la tensione e la frustrazione accumulate fino a quel momento si siano ridotte parecchio: avverto solo la stanchezza. Ma forse è perché tra poco vado via.
Capo, sto cercando di spiegarti che il tuo discorso significa che ci chiedono in un anno di inventare una nuova automobile e tu pretendi che in una settimana noi ti mettiamo in grado di fare già un bel giro di prova senza che la Polstrada abbia da ridire.
Per essere un “capo” bisogna avere orecchie con funzionamento selettivo. Quando il sottoposto parla di come migliorare il lavoro, le orecchie devono essere spente. Quando il sottoposto parla di qualcosa di diverso dal lavoro, le orecchie devono essere accese e ad altissima sensibilità, in modo da poter sgridare chi si distrae dal lavoro.
Ho spiegato tutto al capo. Il capo mi interrompe ogni momento per ripetere la sua idea. Alla fine il capo mi dice che bisogna fare come dice lui, perché così si risparmierebbe tempo e denaro: infatti dovrà pagare un altro per fargli fare in una settimana il lavoro che avrei fatto io in due giorni.
Dice: “è stato deciso che”. Ma perché mai tutti questi verbi impersonali? Quando io decido qualcosa, dico: “ho deciso che”. Quando il capo decide qualcosa, dobbiamo dire “è stato deciso che”. Vuol dire che lui non solo comanda, ma può anche evitare di prendersi la responsabilità delle sue decisioni.
Quando si fissa una riunione a mezzogiorno, significa che il pranzo slitterà senza limiti di tempo.p
Le finte risate e i veri sguardi di minaccia.
Martedì scorso il capo ironizzava sui miei strumenti di lavoro. Chi è abituato a comandare piuttosto che lavorare, non sa che i risultati migliori si ottengono utilizzando strumenti affidabili, conosciuti, di cui si ha familiarità. Non è importante che siano i migliori sul mercato o i più eleganti: è importante che mi siano familiari e che io li senta come affidabili.
Incredibile quanto fracasso riesca a fare il capo quando va al bagno. Chi lavora è in genere sempre discreto.
Mi domando come mai l'unica voce sempre udibile nei corridoi è quella del capo che urla al telefono. Chi lavora è discreto, chi comanda (cioè non lavora) è fastidiosamente chiassoso.
La sola voce dell'aguzzino è sufficiente a mettermi in ansia.
Qui manca anche il cestino rifiuti, ma mi guardo bene dal farlo notare. L'ultima volta che ho fatto presente una cosa banale come questa, fu la miccia involontaria per una guerra tra fazioni di sindacalisti.
L'ambiente di lavoro è quel posto dove chi non sa lavorare, comanda. Il supervisore impartisce gli ordini come un maestro agli alunni, e poi annuncia che va a prendere il caffè. Sono contento per questo caffè, perché significa che per la prossima mezz'ora potrò lavorare con calma e concentrazione, senza essere controllato a vista, senza essere interrotto da improvvise ispirazioni altrui che rovinano ciò che ho fatto fino a quel momento.
Non ho più un aguzzino. Ne ho due.

mercoledì 12 maggio 2010

Vedo tutti questi giovani immigrati conquistati dai "valori" occidentali che prima consideravano proibitissimi. A cominciare dalla pornografia e dall'alcolismo.

Va bene, va bene. Ora ti senti furbo perché alla fine ti sei accordato col capo per fare esattamente quel che ti avevo proibito, insistendo a complicare inutilmente le cose. Hai avuto la tua vittoria. Hai manifestato la tua superiorità. Hai saziato ancora una volta il tuo orgoglio (che ovviamente non sarà mai sazio). E ora? Hai complicato la vita a me e a tutti. Questa è la tua soddisfazione? Questo è il tuo modo di lavorare?
Quello che ti uccide non è la fatica, ma l'ingratitudine del padrone (non solo in termini economici).
Sentire il fiato del boia sul collo è il modo migliore per lavorare male concentrandosi sulle apparenze piuttosto che sul risultato.
Sono tutti bravi a dare consigli. Tutti paterni, tutti filosofici.
Quante volte vorrei concludere le discussioni dicendo: “sono un professionista, non sono uno schiavo negro della vostra piantagione”.
Si presentava come tuo benefattore. Sarebbe presto diventato il tuo carnefice.
Mai lagnarti! Tanto tra mezz'ora cambieranno di nuovo tutte le carte in tavola.
Il dittatore ha avuto un'improvvisa ispirazione. Fulminante. Cioè ha fulminato me: “perché non usi questo strumento?” E così devo lasciare la via vecchia per la via nuova. Se solo gli fosse squillato il telefono mezzo minuto prima!
Il bello è che solo in questo preciso momento ho cominciato ad avere indicazioni precise su ciò su cui dovrò lavorare nelle prossime settimane. Non è una barzelletta.
Ci considera muli da soma a potenziale infinito: pensa che più pressione applica, prima verrà terminato il lavoro. Abbiamo cominciato ieri mattina qualcosa che richiederà almeno un mese, e stamattina già vuole ispezionare e comunicare al cliente lo stato di avanzamento lavori. No, non è una barzelletta.

martedì 11 maggio 2010

Che bella donna. Bella come una statua. Dopo una dura giornata di lavoro, è stata una consolazione per gli occhi stancati dal monitor. Sono a casa da due ore ma ancora rivedo quei lineamenti semplici, sofferti, ingenui.