Oggi non ho scritto molto. Quando scrivo poco nel blog, è perché il capo va avanti e indietro controllando a vista chi sembra lavorare e chi non sembra lavorare. Un vero negriero.
lunedì 31 maggio 2010
Ho sempre detestato il lavoro “stile operai cinesi”. Nell'immaginario collettivo, l'operaio cinese costruisce le cose in modo che sembrino funzionare almeno per il primo minuto di utilizzo. Quel che succede dopo il primo minuto è pura fatalità. Perciò nel suo lavoro accumula errori e problemi, mettendo “pezze” indicibili che servono solo a salvare il primo minuto di funzionamento. L'importante è che funzioni un minuto: tanto dura la dimostrazione presso il cliente (dopo la quale gli operai si sentono esentati da qualsiasi altra responsabilità: la prossima consegna è urgente e non possono preoccuparsi di qualcosa di già consegnato e che ha dato dimostrazione di funzionare... anche se per meno di un minuto).
Ora il capo insinua che io sarei uno spaccone, deridendomi perché promettevo di rispettare una scadenza che poi si è rivelata impossibile. Il capo fissa le dead-line senza conoscere l'entità dei problemi. Poi pretende che le rispettiamo. Poi, se qualcuno di noi osa dire che possiamo davvero rispettarle, quando viene a galla la verità eccolo pronto a deriderci: “e tu eri quello che dicevi che ce la facevi, eh?”
“Io lo odio, il lunedì”. Il capo si presenta a quest'ora, ma vuole un resoconto dettagliato dei ritardi e delle motivazioni. Vorrei dirgli: noi facciamo l'orario “nove-diciotto”, tu invece fai “dieci e un quarto - venti e trenta” con pause pranzo interminabili e altre comodità. E pretendi che noi si lavori dalle nove alle venti e trenta senza interruzione? Quando andiamo via alle diciotto, dopo otto ore di onesto lavoro, dai l'impressione di sentirti offeso e danneggiato. Dovremmo andar via tutti alle venti e trenta? Alle ventuno?
venerdì 28 maggio 2010
Il secondo giorno di questo lavoro il capo già parlava di ispezionare il lavoro svolto. Sono passate tre settimane, per lunedì deve funzionare tutto, e ancora non sappiamo bene cosa si deve fare su certe cose. Pianificazione: quasi zero. Documentazione: quasi zero. Discorsi: tanti. Incitazioni e pressioni: a non finire. Lavoro svolto: tantissimo, di cui gran parte inutilmente perché non si sapeva dove cominciare e dove finire. Ti dicono di fare in fretta, a costo di imboccare una strada qualsiasi. E i risultati vengono fuori alla fine, come adesso.
Io sono uno dei pochi schiavi che si rendono conto di esserlo. I miei colleghi di lavoro sono come gli idioti protagonisti del mito della caverna di Platone. Sgobbano come muli per assicurarsi dei beni insulsi, come le partite di calcio. Riducono la fantasia e la libertà allo scegliere in un catalogo di qualche rivenditore. Riescono ad annoiarsi anche più volte al giorno.
Pensiamo erroneamente che la società schiavista non esista più. Non è vero. Lo schiavismo esiste ancora. Ha solo cambiato i metodi coercitivi. Al posto della frusta ci sono strumenti più efficienti. Con la violenza e con le frustate agisci sul corpo, non sulla mente. Oggi ci sono strumenti più efficienti: per esempio, l'economia e la psicologia. Oggi abbiamo schiavi che vogliono essere come degli schiavi, sono fieri di essere usati come schiavi, e sono convinti di essere liberi.
Viene facile dire che uno è malvagio. Ma a volte si tratta di pessime abitudini che si sono consolidate col passare degli anni. Il capo pensa che noi siamo capaci di lavorare solo se lui ci sprona a farlo. Non sa che una volta che sia chiara la meta da raggiungere e siano pronti gli strumenti, tutto fila liscio senza aver bisogno di controlli da kapò nazista.
Venti minuti di telefonata da cellulare per impartire i soliti ordini imbecilli, far ricadere sopra di noi colpe non nostre, ricordarci quello che sappiamo meglio di lui... Il collega a stento riusciva ad infilare qualche “sì” nei rari momenti in cui il capo smetteva di parlare per almeno un decimo di secondo. La strategia del capo è prendersi i meriti di ciò che va bene e riversare sui sottoposti la responsabilità di qualsiasi cosa non vada bene.
Il capo telefona per sapere se tutti sono al proprio posto di lavoro. Approfitta della telefonata per fare il solito discorso sulle date di consegna da rispettare a ogni costo. Non chiede se ci siano problemi o quali soluzioni stiamo adottando. Non chiede niente. Ordina, impartisce ordini, ricorda scadenze. Passano interi minuti prima che gli si possa rispondere almeno sì o no ad una delle sue domande. Che poi non sono domande ma sono ordini perentori di rispettare le scadenze. Siamo dei semplici schiavi.
giovedì 27 maggio 2010
Quando uno è stanco e sotto pressione, pensa a sua moglie e ai suoi figli (se è sposato). Se non è sposato, penserà a una donna che vorrebbe sposare. Se pensa ad una che non ha intenzione di sposare allora si tratta di una droga, non di un rifugio. L'affetto della tua donna (anche quando lei non sa ancora che la ami) è incomparabile.
Poco fa durante l'ora di pranzo ero in giro ed ho incontrato la Fantasmina Pallidina! Era da sola, con due sportine della spesa. Non era elegante come ai bei tempi. Uno sguardo breve, ci siamo sicuramente riconosciuti l'una l'altro, ma non c'è stato neppure un cenno di saluto. Erano anni che non la vedevo. Forse è sposata. Aveva gli stessi occhiali di allora e la stessa acconciatura di allora.
Prima di cominciare un lavoro, occorre pianificarlo fin nei dettagli più banali. Tutti sono daccordo con questa regola, ma in pratica la eludono in mille modi, per esempio supponendo banali le cose che non si capiscono, con la riserva mentale che dopotutto altri sapranno sicuramente provvedere. Oppure la eludono trasformando la pianificazione in interminabili riunioni e scambi di messaggi, aumentando la confusione anziché diminuirla. Basta che uno abbia le idee confuse per propagare la confusione a tutti gli altri. Sono settimane che sto lavorando tentando di mettere insieme il prodotto di incompetenti, tentando di allinearmi agli ordini degli ignoranti ottimisti, senza uno straccio di piano, rimpiangendo spesso di aver perso ancora una volta un'ora per includere una cosa che da solo avrei fatto molto meglio in meno di dieci minuti.
Le pressioni del capo potrebbero quasi essere classificate come mobbing. Lui non se ne accorge di quanto sia invadente e fastidioso: è venuto qui a dirmi di aggiungere il lavoro fatto da altri, pensando che sia facile come mettere un tappo su una bottiglia. Invece è come connettere le due metà di una portaerei. Domani non ho idea di cosa dirò al cliente. Sabato un'altra giornata di lavoro straordinario.
Per trovare un nomignolo occorre aspettare una coincidenza: un momento di ispirazione poetica (di quelli intensi e sfuggenti) ed un evento banale, del tutto casuale, che non faccia morire l'ispirazione senza frutto. Ho trovato il nome per la “principessa”. Anziché scrivere “lista”, ho scritto “lisat”. Da oggi posso finalmente chiamarla “Lisa T.” (e dovrò anche decidere cosa significa quella T, ma per questo il tempo non mi mancherà). Lisa T., che bel nome. Già mi chiedo se lei non si chiami proprio Lisa. Non avrò più bisogno delle virgolette quando devo parlare di lei.
mercoledì 26 maggio 2010
Ci vorrebbe una candid camera quando il capo dice: “poi voi integrate il vostro lavoro”. Lui pensa che per “integrare” basta uno schiocco di dita. Lo schiocco di dita è cominciato ieri sera ed ora, in tarda mattinata, ancora non si vede la fine di questo schiocco. Certa gente pensa che per costruire un grattacielo basti solo mettere mattoni su mattoni fino a raggiungere l'altezza desiderata.
I minuti passano, la scadenza si avvicina: siamo ancora in alto mare, con il cliente sempre più minaccioso (non ha tutti i torti), il capo sempre più minaccioso verso di noi ed ottimistico verso il cliente, e sempre più ostacoli da superare. Non vedo l'ora che arrivi il giorno della scadenza per vedere come finirà questa brutta storia. E soprattutto per dormire sereno, senza ansie.
martedì 25 maggio 2010
Detto così, sembra che io stia cercando scuse per scappare. Può darsi. Ma sono sicuro che se ripeto il ragionamento quando sarò ben riposato e senza stress in arrivo, sono certo che giungerò alle stesse conclusioni. Il destino di questo lavoro era nelle mie mani. Troppe volte mi hanno ostacolato affermando che lo facevano per aiutarmi e facilitarmi. Troppe volte non si sono fidati di quello che dicevo: hanno ritenuto più importante la loro ispirazione del momento che la mia esperienza, e perciò è naturale che anche con la mia buona volontà vengano fuori le naturali conseguenze delle loro scelte. Se di questo lavoro ci fosse stato da pagare lo scotto per i miei soli errori, sarebbe andato tutto molto meglio.
No, non ce la faccio più a lavorare. Non sono fatto per le scalate dell'Hymalaya a piedi nudi. Non posso tornare a lavorare domani ancor più stanco di stasera. Per il bene dell'azienda (e soprattutto per il mio), devo tornare al lavoro riposato. Se il capo mi fa pressione e mi controlla e mi ostacola, è giusto che l'azienda ne paghi il costo associato, ottenendo da me un'ora di straordinario al giorno invece che le solite due o tre.
Anche stasera lavorare fino a tardi. Pretendono risultati. Pretendono che si rispettino i piani e le scadenze. Pretendono che tutto funzioni bene, velocemente, economicamente, elegantemente... Pretendono di tutto e di più. Ma i risultati, quasi sempre, sono assai miseri rispetto alle tante buone premesse che infiocchettano i discorsi del capo e del cliente. Costoro agiscono come se avessero il genio della lampada a disposizione: basta nominare qualcosa per vederlo comparire ottimamente prodotto e perfettamente gestito e praticamente gratis.
Un'altra, interminabile, faticosa riunione, con il faccia a faccia con il malefico collega che ha una sua azienda e che ha insistito a criticare il mio lavoro. Ho incassato perché ero stanco. Quando si è stanchi si diventa deboli e vigliacchi e si commettono più errori. Nella stanchezza pensavo solo al momento in cui avrei potuto ricacciargli in gola quel suo giudizio. Magari dicendo a tutti che quello lì ama criticare chi lavora onestamente.
lunedì 24 maggio 2010
venerdì 21 maggio 2010
C'è il rumore dei neon. C'è il rumore dei computer. Lontano, c'è anche il rumore del traffico cittadino. Si sente qualche clic del mouse, qualche sedia spostata. Che pace. Ho risolto un altro problema. Si lavora così bene quando non c'è il trambusto. Nessun telefono squilla. Il capo non si aggira nei corridoi telefonando a gran voce. Nessuno si muove in modo frenetico per dimostrare che sta lavorando.
Non ho proprio alcuna voglia di lavorare. Sono ancora scottato da quanto il capo mi ha detto due ore fa. Se non lo sapessi già da molto tempo, oggi avrei capito il motivo per cui qui dentro sono tutti così strani, così cinici, sempre sulla difensiva: espansivi e generosi quando non si tratta di lavoro e durissimi quando si tratta di lavoro.
Due anni fa ero stato assegnato ad un gruppo guidato da un vero professionista. Per alcuni mesi combattemmo per risolvere problemi difficili. Chi più, chi meno, qualche errore ci scappò. Quel capo - un vero capo - manifestò più volte la sua seccatura. Ma nessuno si sentì mai umiliato. Ricordo un venerdì sera, un venerdì sera come questo, un episodio memorabile. Avevamo annunciato al cliente che tutto funzionava e che lunedì o martedì avremmo consegnato. Dopo la comunicazione ci accorgemmo di un grosso imprevisto problema. Si prospettava una nottataccia di lavoro, oppure un sabato e una domenica passati a cercare disperatamente di risolvere il problema. Disse che non dovevamo preoccuparci né quella sera, né il sabato, perché neppure un notte di sano riposo sarebbe bastata a metterci nelle condizioni di affrontare seriamente il problema. “Signori”, annunciò in modo teatrale, “cominceremo (e sottolineo cominceremo) a pensarci lunedì mattina dopo aver preso il caffè”. Paradossale, mi dissi: di fronte ad un problema grave e urgente, rinvia tutto. Evidentemente sapeva bene anche lui che chi è stanco non lavora bene.
Ho invece avuto capi umani, in passato. Capaci di capire le tue esigenze. Capaci di sgridarti senza distruggerti. Capaci di correggerti senza umiliarti a gran voce. Capaci di mantenere le distanze senza essere formali. Veri professionisti, per i quali il sottoposto non è una macchina da calpestare perché produca di più, ma è un collaboratore da far lavorare su ciò su cui ha competenza e familiarità. Lavorare con loro è stato faticoso ma non è mai stato umiliante.
Poco più di un'ora fa andavo dal capo per chiedergli come comportarci con le “novità” del cambio strumenti e per annunciargli che avevo completato un'altra sezione. Il risultato è stata quella ricca sgridata. La conseguenza è che sto perdendo tempo, non ho più voglia di lavorare, e dovrò aspettare l'ultimo minuto della giornata lavorativa per sapere se domani potrò riposare o se dovrò affrontare un'altra giornata di stress. Questo non è un lavoro pagato: mi pagano per stressarmi. Mi stressano, e nel tempo libero dallo stress riesco a lavorare e produrre. Se mi stressano poco, produco molto. Quando il capo non c'è, lo stress è poco, e riesco persino a fare le cose come le vuole lui. Quando lui c'è e gira per i corridoi sbattendo i tacchi sul pavimento e parlando a telefono come se stesse parlando con dei sordi, il livello di stress sale tantissimo. Alla sua attitudine a stressare si aggiunge infatti il suo temperamento cinico e maleducato. Non è la prima volta in vita mia che ho avuto a che fare con una persona come lui. Ma lui certamente lo ricorderò a lungo, come esempio di “cosa non si deve fare ai sottoposti”.
Credevo di avere una buona memoria per le cattiverie, ma il capo ha una memoria migliore della mia. Mi ha rimbeccato con una delle osservazioni che avevo fatto diversi giorni fa. L'arte di essere capi è nel riuscire a respingere al mittente le accuse ricevute, specialmente quando erano giustificate e fondate.
Finalmente è venuto fuori il motivo di tanta foga: la “penale” che quest'azienda pagherà per ogni giorno di ritardo nella consegna. Il cliente ha stabilito la data di consegna e la penale. Pertanto, chi si è assunto la responsabilità di dire che “si può fare”, deve anche prendersi la responsabilità di dire “abbiamo bisogno di alcuni giorni in più”. Ma purtroppo è più facile scaricare le proprie ansie su chi compie materialmente il lavoro.
Per assurgere alle vette del comando bisogna padroneggiare l'arte ipocrita del presentare in cattiva luce chi non obbedisce ciecamente perché trova modi migliori di risolvere i problemi. Si dice che “il meglio uccide il bene” ed è vero. Ma questo proverbio si può brandire contro chi riesce a fare meglio risparmiando tempo e denaro.
Questa sua abilità è invidiabile. Immaginate che carriera può fare uno che ha buona favella e che può far sembrare incompetente uno che sa fare le scelte giuste, spacciandosi per competente e saggio quando è a tutti evidente che è incompetente e meschino. Si può invidiare la sua carriera, ma è fastidioso pensare che esistano persone come lui. La responsabilità di comandare va affidata a chi ha saputo obbedire, non a chi si è fatto largo con artifici verbali. La responsabilità di progettare va affidata a chi ha dimostrato di sapersi adeguare, non a chi si è fatto largo con trucchetti di arte retorica. Il buonsenso è la dote essenziale quando si hanno dei sottoposti.
Riunione col capo. Come al solito lui ha tutte le ragioni ed io tutti i torti. Qualcosa non quadra: o lui è bravissimo in arte retorica a far sembrare nero il bianco e bianco il nero, oppure io sono incapace di comunicare concetti elementari. Mi ha trattato come un pivellino incapace. Gli ho detto che ho completato un'altra sezione e al termine del discorso mi sgridava perché ho usato lo strumento sbagliato. Gli ho detto che uno usa gli strumenti che conosce meglio, e che usare qualcosa che non conosci ti ruba tempo. Con lo strumento più adatto, siamo già in ritardo: vuoi l'altro strumento? Allora c'è bisogno di più tempo. Ti conviene? Incredibile: dopo queste domande fredde come il ghiaccio, è riuscito a farmi una doccia di azoto liquido, riuscendo a cavalcare le parole con tanta abilità da concludere il discorso con la sua solita paternale, buona solo a mettermi a disagio.
Come sempre: il cliente definisce “quando” va consegnato il lavoro, il cliente - dopo settimane - pretende che quii si cambino improvvisamente gli strumenti di lavoro senza che cambi la data di consegna, ed il capo in preda al panico (nonostante lui abbia contribuito fortemente a creare questa situazione) sta per mandarmi una mail perentoria in cui mi sgrida perché settimane fa non ho cominciato con gli strumenti che il cliente oggi ci ha intimato di utilizzare. Ecco come fa uno ad innamorarsi di una viaggiatrice pendolare, pensare a lei per anni, farsi quasi etichettare come “stalker” (ma solo dalla propria coscienza), e poi non riuscire neppure a sapere lei come si chiama. Uno diventa facile all'infatuazione in proporzione alla pressione psicologica subita mentre lavora. Uno diventa sentimentale perché è una via di fuga che sembra tanto dolce.
Certe cose succedono solo il venerdì pomeriggio: mi hanno appena detto che bisogna cambiare completamente strumenti di lavoro: la data di consegna ovviamente non può cambiare. Rido di gusto: bello scherzo, e poi? E poi non è uno scherzo: “tra poco ti arriverà una mail che...” No, dai, non scherziamo, se ne ricordano solo ora? Dopo tutte queste settimane? Se loro non sanno come si utilizza uno strumento, non vuol dire che noi non possiamo utilizzarlo. “No, non è uno scherzo: tra poco ti arriverà una mail che...”
Certe volte si diventa sentimentali solo perché si è sotto pressione col lavoro. Certe altre volte lo si diventa per noia, per assenza di preoccupazioni urgenti. Non so quale sia il mio caso. Ho sempre pensato di essere passionale. Ma il miglior ingrediente per sentirmi infatuato sono state le pressioni quando lavoravo.
Ora è al telefono con la svampita preferita, la quale balla e canta con le amiche mentre sta parlando al telefonino. Adolescenti troppo crescuti. Ed il capo se la prenderà con me perché il cliente ha fretta (ha fretta a causa della sua enfasi nel pubblicare i risultati che ancora non abbiamo raggiunto).
Chiedo ad un collega di aiutarmi a compilare un modulo (pura burocrazia aziendale). Mi risponde gentilmente che se ho dubbi posso telefonare alla segreteria. Il collega è quello che da quando è arrivato in questo ufficio si lamenta che si annoia. Passa le giornate tra navigazione sui social network, telefonate a ragazze svampite, pause e contropause per merende, caffè, merendine, scaricare musica, visite alla toilette, passeggiatine, youtube... Il nullafacente per eccellenza, la cui sola presenza in questo stesso ufficio è una bastonata sui nervi di chi ha da lavorare. Mi ha gentilmente risposto che se ho dubbi posso telefonare in segreteria. Me ne ricorderò.
Mi dicono che il cliente è entusiasta dei nostri progressi (cioè dell'enfasi con cui sono stati descritti i progressi che non abbiamo ancora fatto) e che vuole che andiamo lì a provare quel che abbiamo già pronto (cioè niente di consistente). Ora sicuramente verrà qui il capo a sgridarmi perché sarei in ritardo sulle consegne (in ritardo rispetto ai suoi enfatici discorsi che hanno lusingato il cliente). L'errore principale che ha generato questo sconquasso è stato comandare quale deve essere la data di consegna senza pensare a quanto lavoro è necessario per fare le cose buone, belle, veloci e di qualità come le vogliono loro.
Mi sono appena ricordato che c'è l'imminente minaccia di dover lavorare anche domani che è sabato. Il capo, quando vuole riposare o quando è malato o quando ha da fare qualcosa con i suoi amici o con i suoi familiari, scompare nel nulla. Ma quando deve disporre del nostro tempo, non ammette né l'esistenza della possibilità che uno possa avere problemi personali, né la possibilità che tali problemi possano venir fuori all'ultimo momento e senza preavviso. Per disporre del tempo degli altri occorre avere un grande rispetto di loro.
Ieri ed oggi sono stato in un altro treno, non ho visto la mia “principessa tappetta” (ma perché mi riesce così difficile trovarle un nomignolo più simpatico?). Immagino che lei abbia guardato in giro più volte, pensando: “oggi non c'è , dunque contro chi potrò comportarmi come seccata o indifferente?”
giovedì 20 maggio 2010
Il capo fa pressione su di noi. Poi va dal cliente a vantarsi che qui è tutto quasi pronto. Il cliente allora si lusinga e chiede subito di fare prove, il prima possibile. Il capo allora va in panico. Stasera mi tocca scappare senza farmi notare dal capo, altrimenti qui si fa notte a sentire i suoi predicozzi su quanto siamo lenti.
Quando crei, puoi commettere errori, che avrai poi bisogno di correggere. Quando provi, puoi accorgerti di errori, che hai poi bisogno di correggere. Quando scrivi il manuale d'uso, puoi accorgerti di altri errori e debolezze che ti erano sfuggiti prima, e quindi hai bisogno di altro tempo per correggere. Infine, quando ne parli con il cliente o con altri estranei, possono affiorare altri errori e problemi che richiedono tempo per essere corretti.
Il capo è infinitamente pessimista quando ha a che fare con noi, ed infinitamente ottimista quando ha a che fare col cliente. Stiamo appena cominciando a vedere una piccola luce in fondo al tunnel, e il capo fa sapere al cliente che siamo quasi pronti per mostrargli il prodotto quasi completo. Abbiamo ancora paurose lacune su questioni importantissime, e il capo autolesionista va dal cliente a fingere di essere il genio della lampada. Poi tornerà sicuramente qui a dirci che siamo in ritardo e che il cliente ha sempre ragione e che dobbiamo fare di più, fare meglio, fare presto, fare bene. Faremo certamente di più. Ma quando si ha fretta, non si fa né meglio, né presto, né bene.
Ad ogni telefonata di chiarimenti tecnici del collega che lavora dall'altra parte, il capo corre allarmato e infuriato da me a chiedermi se ci siano “problemi” (parola da pronunciare in modo cupo e funereo). No, era un chiarimento su una questione tecnica: chiarimento non significa problema. “Ma allora perché ha telefonato?” Per avere un chiarimento su una questione tecnica. Chiedere un chiarimento non significa brancolare nel buio. Il capo non è convinto. Il capo non si convincerebbe neppure se tutti in coro corressero a dirgli: abbiamo risolto improvvisamente tutti i problemi!
Sono tornato dalla pausa pranzo con sei minuti di ritardo. Il capo mi aspettava da cinque minuti prima. Ha aspettato per dieci minuti (cioè fino ad un minuto prima che rientrassi) e se ne è andato infuriato, credendo che io prolunghi all'infinito la mia pausa pranzo. Proprio a me doveva capitare, proprio a me che non ne ho mai veramente approfittato...
Il problema di questo ambiente di lavoro è che chi comanda pretende di incastrare gli imprevisti e le difficoltà in uno schema. Così è già una bolgia infernale. Immaginate cosa può diventare nel momento in cui comanda un ignorante che pretende di adeguare il mondo ai suoi sogni di gloria: “dobbiamo consegnare lunedì!”
C'è un lavoro da fare in una settimana, che per il capo diventa composta da quattro giorni (se dovesse essere lui a lavorare, la settimana diventerebbe di venti giorni). I quattro giorni consistono in tre giornate, perché il quarto è per consegnare. Le tre giornate sono in realtà due, perché la terza è per verificare e provare. Le due giornate si riducono a una, perché nel primo giorno non si sa bene cosa si deve fare. Dopo tutto questo, il capo mi chiede se sono pronto a venire a lavorare anche sabato e domenica, dando ovviamente la colpa a me perché sarei stato “lento” a capire le sue indicazioni e “lento” a capire come bisogna lavorare...
mercoledì 19 maggio 2010
Il capo viene a farmi pressione ancora una volta. Non si rende conto che è opprimente? Gli ho detto che ho un problema che conto di risolvere a breve, e che se vuole discuterlo mi toglie tempo prezioso. Ha capito l'antifona ed è andato via. Ma tornerà presto. Sono certo che lì, nel suo ufficio, sta solo guardando l'orologio in attesa di correre di nuovo qui.
Passano minuti preziosi, il fiato del capo si sente sempre tra capo e collo, sta finendo la giornata, e le scadenze comandate diventano sempre più difficili da rispettare. In questo ambiente si lavora al contrario: prima decidono quando dobbiamo consegnarlo, e poi ci dicono cosa dobbiamo fare, centellinando le informazioni fino a quando è troppo tardi. Infine si lamentano che lavoriamo con molta fretta e poca attenzione.
Ottava domanda: c'è stato forse un crescendo di attività nei suoi confronti? Nessun crescendo. Dopo che capii che mi detestava, cioè già durante la prima settimana, le “attività” si sono ridotte e sono rimaste uguali fino ad oggi. Salvo qualche “spike” dettato dalla coincidenza di ispirazioni momentanee e condizioni ottimali, come martedì della settimana scorsa. Per la verità, c'ero già riuscito in almeno un'altra occasione, ma sono passati anni.
Settima domanda: ho fatto appostamenti? Certamente: come ogni studente adolescente che vuol farsi notare dalla compagna di classe, né più né meno. Lei mi detesta, così come una studentessa carina detesta essere notata dai brufolosi bruttini e adora essere notata dai belli della classe successiva. Sono troppo pigro per fare appostamenti elaborati: per esempio, so che all'uscita della stazione lei va verso destra, ma in tutti questi anni non mi sono mai appostato all'incrocio per sapere che direzione prenderà dopo. Un altro appostamento molto fantasticato e mai realizzato, è prendere il treno prima, sedermi nella sua stazione ed aspettare che lei arrivi. Se in tutti questi anni non sono mai riuscito a vincere questa forma di pigrizia, allora non ci riuscirò mai.
Quinta domanda: sono affetto da disturbi mentali? No, ma la mia “stalker” temo di sì. Con quest'ultima le ho provate tutte, senza riuscire a togliermela di torno. La considero seccante, ma non persecutrice. Non è abbastanza invadente. Non fa appostamenti né intrusioni. Sospetto che abbia disturbi mentali solo perché in alcuni anni non ha cambiato registro: le sue telefonate e i suoi SMS del primo giorno sono gli stessi di oggi. Non l'ho mai considerata più di una seccatrice. Ed ora non mi secca più: mi sono abituato.
Quarta domanda: reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta? A dire il vero, quasi nessuno. Gli unici tentativi fatti sono di comunicazione non verbale, come l'espressione sorpresa degli occhi quando la rividi dopo molti mesi che l'avevo persa di vista. Avevo preparato una simile espressione anche per stavolta, che erano quasi due anni che non la vedevo più, ma lei si è accorta di me prima che potessimo incrociare lo sguardo, e perciò quando ero “pronto” per mostrarmi sorpreso, lei si era già voltata dall'altra parte. I tentativi di comunicazione non verbale (e nemmeno scritta) sarebbero dunque reiterati, con la precisazione che di sicuro sono“frequenti”, ma sono non troppo insistenti.
Lo “stalking” è “una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un'altra persona, spesso di sesso opposto, perseguitandola ed ingenerando stati di ansia e paura, che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della quotidianità”. Comincia a somigliarmi. La persecuzione avviene solitamente “mediante reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti e intrusioni nella vita privata”. Ahi, ahi. Lo “stalker” può essere un estraneo o un conoscente, che agisce in questo modo per “stabilire una relazione sentimentale, imponendo la propria presenza ed insistendo anche nei casi in cui si sia ricevuta una chiara risposta negativa”. Più leggo, e più mi sento un caso clinico. “Meno frequente è il caso individui affetti da disturbi mentali”, e qui ricordo che anche io ho una “stalker” che (in teoria) mi affligge. “Solitamente questi comportamenti si protraggono per mesi o anni, il che mette in luce la anormalità di tali atteggiamenti”.
Mi chiedo se sia ancora fidanzata con quel brutto arnese pelato che vidi nella foto che lei aveva nel suo portafoglio, in quell'unica occasione in cui lo aprì. Non ha ancora una fede al dito. Mi domando quanti la stiano corteggiando. Chissà quali sono i suoi gusti in fatto di uomini. Certamente mi detesta, ma non penso che mi consideri un vero e proprio “stalker”.
Per qualche attimo si vedeva la sua mano sinistra aggrapparsi ad uno dei sostegni. Poi non ho visto più niente per qualche minuto, e quando la studentessa si è spostata, ho notato che la mia “principessa” (uffa, devo ancora trovare un nome adatto, ancora non mi è venuta la giusta ispirazione) aveva finalmente trovato posto a sedere, addirittura nella mia direzione, ma anche stavolta ho evitato quanto più possibile di incrociarne lo sguardo. W la timidezza.
Rieccomi di nuovo a lavorare. Stamattina, in treno, lei c'era: ieri non c'era e perciò pensavo che fosse malata (mi sembrava improbabile che una donna così metodica potesse perdere il treno). Ho provato ad essere delicato, cioè a non farmi vedere. Mi sono però istintivamente seduto sempre al solito posto (sulla sinistra della terza porta) e c'era in treno una tal quantità di viaggiatori che lei è rimasta in piedi per buona parte del viaggio. Avrei voluto offrirle il mio posto a sedere, ma era in piedi a diversi metri da me e certamente non avrebbe risposto ai miei cenni. Poi si è addirittura messa in modo da essere “eclissata” da una studentessa che era in piedi tra me e lei. La studentessa era alquanto carina, ma la vedevo come un ostacolo.
martedì 18 maggio 2010
Andando via, mentre nuoto tra le raffiche di vento per raggiungere la stazione, provo sempre quel senso di sollievo che mi ridà voglia di tornare su a lavorare ancora per un po'. Ma finora ho sempre resistito alla tentazione. Forse solo per questo posso dire che amo il mio lavoro... senza esserne diventato schiavo.
Si è fatta ora di andare via. Rimarrei volentieri qualche altra ora, perché gli elementi di disturbo sono assai diminuiti. A quest'ora si lavora bene (specialmente adesso che il capo è andato via). I telefoni non squillano. Non si sentono in corridoio mitragliate di tacchi di qualcuno che fa sapere a tutto il mondo che sta andando alla toilette. Non vengono convocate riunioni improvvise (se ci fosse il capo, il rischio ci sarebbe ancora).
Sfogarsi immaginando di poter gridare ai propri colleghi “siete un branco di incompetenti” non aiuta a risolvere i problemi. Non aiuta neppure il riassumere ad amici e parenti quanto siano incompetenti propri i colleghi di lavoro. E se continuo a scriverlo su questo blog, andrà a finire che nessuno avrà più voglia di leggere. Non serve a molto lamentarsi dei propri colleghi. La vera arte, in questo tipo di lavoro, è produrre qualcosa che li contenti e che contemporaneamente funzioni. Questa è la vera sfida. Ma è una sfida durissima: è come pretendere di smontare un camion usando solo un cacciavite: ci si può anche riuscire, se ci fosse il tempo adeguato, la pazienza adeguata, una tolleranza adeguata sui risultati e soprattutto un incentivo economico adeguato.
Incredibile quanto fracasso siano capaci di fare certuni nell'andare alla toilette. Ci vanno a passo di carica, sbattendo i tacchi come se volessero farsi sentire dal mondo intero. Si liberano in maniera fracassona di solidi, liquidi e gassosi. Si lavano le mani che sembra il diluvio universale. Escono infine quasi sbattendo la porta della toilette. Forse lo fanno solo per dimostrare che si può andare a fare pipì sottraendo meno di venti secondi totali al lavoro.
Come sempre, bramano di risolvere i problemi e poi invece sprecano il tempo (quello loro e quello altrui) per delle meschinità. Varrà più una soluzione già funzionante e già consegnata, oppure varrà più una fine discussione filosofica-metafisica del “come si potrebbe far di meglio”? Dipende. Se sei il capo, improvvisamente vale più la seconda.
Quando durante la riunione ho ammesso onestamente una mia svista, c'è stato quasi un urlo di trionfo da parte di tutti gli altri. La riunione, infatti, serviva per umiliare i sottoposti, non per risolvere problemi. C'era anche il controllo dei volti: “non mi sembri convinto”, mi dice il capo, e così la riunione già conclusa prosegue per altri dieci minuti finché non mi decido ad elargire un falso sorriso di circostanza.
Sessantaquattro minuti di riunione. Decretata all'improvviso. Urgenza immediata. Improcrastinabile. Ingiustificabile anche un solo secondo di ritardo. Infatti nel corridoio sento fare il mio nome: avevo un solo secondo di ritardo. Riunione improvvisa, sessantaquattro minuti persi: è tempo perso quello che non ti risolve problemi, non ti chiarisce dubbi, non ti aggiunge informazioni e materiali per lavorare e non ti fa neppure divertire un poco.
C'è stato un periodo in cui in ufficio non avevo quasi niente da fare. Navigavo, ripulivo directory, archiviavo posta elettronica, leggevo manuali: detestavo pensare di star lì ed essere pagato per non fare proprio niente. Fino alla fine della giornata, perché detestavo approfittarne. Ancora non ho trovato nessuno che agisca allo stesso modo. Non vedono l'ora di scappare dal posto di lavoro: sia quando sono giornate “tranquille”, sia quando sono giornatacce di lavoro duro. Per molti il “posto” di lavoro è una specie di carcere che si sopporta solo per guadagnare la libertà a fine giornata (e lo stipendio mensile).
Ma poi, come si fa a non lagnarsi? Il capo mi dà un certo tempo per concludere il lavoro. Dopo un decimo del tempo, senza consultarmi, in nome delle sue sole ansie, subappalta parte del mio lavoro ad un perfetto incompetente. Vengo a saperlo per puro caso. Dato che l'incompetente è pagato per esserlo alla perfezione, dovrò adeguarmi a quel che lui “produce”, triplicando il mio già delicato lavoro. Sappiamo tutti che è incompetente, ma guai a dirlo: il Capo, essendo il Capo, per definizione sceglie sempre la persona giusta al momento giusto. Perciò, se una settimana fa l'incompetente poteva essere qualificato come incompetente, ora è vietato accennare anche lontanamente alla sua principale caratteristica. La morale di tutto questo è che per fare male un lavoro basta fondare ogni ragionamento sulle ansie di chi comanda.
Qui lo sappiamo tutti che se quattro persone vanno in quattro direzioni diverse, il risultato finale non è certo il ritrovarsi tutti insieme al punto prestabilito e al momento prestabilito. Però è vietato dirlo: tre di quei quattro insorgerebbero, pretendendo di aver ragione. E il quarto, cioè l'unico che va nella direzione giusta, non può rischiare guai affermando una verità così evidente.
Ci mancava solo questa: da giorni interi la directory con le copie dei messaggi che ho lasciato sul blog era accessibile in lettura da tutti i computer dell'azienda! Che vergogna. Spero che nessun curiosone abbia avuto modo di leggere. Purtroppo è proprio vero che ha la possibilità di restare davvero segreto solo ciò che ti rimane in testa. Ora ho preso qualche precauzione, stramaledicendo i computer e le loro “condivisioni”...
lunedì 17 maggio 2010
Quando dentro di me mi accorgo che sto obbedendo ad uno che mi tratta male, finisco sempre per reagire: è più forte di me. Non sono di quelli che riversano cattiverie senza motivo. Ma mi accorgo di non saper pazientare di fronte al più banale e fastidioso dei soprusi: quello di essere maltrattato senza motivo.
Le riunioni col capo dovrebbero servire a capire quali sono i problemi e come risolverli. In realtà servono a riversare fiumi di parole inutili, ingigantire problemi minuscoli, sottovalutare le osservazioni pertinenti di chi ha capito qualcosa, trattenere per interminabili ore gente che aveva ancora forza e volontà di affrontare i problemi.
Sembro lagnoso. Lo sono. Tu insinui, e poi scappa qualche insinuazione anche a me. Tu deridi i miei strumenti di lavoro, che non conosci, che non hai mai usato. Cosa ti potrei rispondere? Tu mi ricordi cento volte al giorno la scadenza di un mese, come se io non la ricordassi. Cosa ti potrei rispondere? Te lo posso dire che le cose prendono forma lavorandoci piuttosto che ripetendo meccanicamente delle frasi fatte?
Sembro lagnoso? Vi sembra troppo chiedere di essere trattato come una persona? Vi sembra assurdo chiedere che se mi viene assegnato un compito X, nessuno (tanto meno il capo che me l'ha ordinato) dovrebbe lavorare in direzione opposta a X? Presentarmi il “fatto compiuto” dopo avermi fatto svenare a rispettare una scadenza, significa prendermi per il sedere. Credo che la mia paga sia la retribuzione per il lavoro, non il contentino per le frustrazioni.
Ora mi tocca pure lavorare per rimediare agli errori del collega. La sua posizione è indifendibile. Se avesse detto “scusate, il capo mi metteva fretta” avremmo tutti dimenticato l'episodio. Invece difende a spada tratta la sua soluzione, dicendo che dopotutto ci servirà, e per adattare ci costerà una fatica minima. Fatica, si intende, del sottoscritto. Minima, si intende, rispetto a qualche millennio.
Un ottimo modo per essere sconfitti è quando tutti i comandanti, pur di mettersi in mostra presso il generale, si ostacolano tra di loro. Davvero è incredibile ciò che può compiere l'ambizione umana. Ma è ancora più incredibile ciò che possono compiere le piccole ambizioni personali, quelle piccole meschinità di tutti i giorni.
Lei c'era anche stamattina. Ma non sono riuscito ad avere un attimo dei suoi occhi. Non ho cercato occasioni, non voglio essere invadente. Ma quando è ripartito il treno, anche stavolta ho notato che lei non guardava dal lato del marciapiede (dove il mio sorriso la aspettava). Basta un piccolo evento del genere per cominciare male una nuova settimana.
venerdì 14 maggio 2010
Martedì mattina, alla grande! La intravedo in treno, ma come il giorno prima siamo lontani e poco in vista, e non trovavo mai lo spiraglio adatto (in questo mondo è difficile anche il solo lanciare uno sguardo ad una donna). Ma quando scendo dal treno, un attimo prima che il treno riparta io sto passando vicino al suo finestrino, per un attimo la guardo con due occhi da vero innamorato, e con la mano le faccio un breve cenno di saluto. Istintivamente mi avrebbe risposto e sorriso, ma si trattiene. Però quella frazione di secondo in cui rispondeva al mio saluto sorridendomi, mi ha ripagato ampiamente di questi anni di attesa per rivederla. Mi torna il batticuore solo a ricordare quel brevissimo istante...
La prima cosa che fanno appena arrivati in ufficio è decidere come e dove andare a prendere un caffè. Non c'è da invidiarli per tutta questa libertà, ma c'è piuttosto da invidiarli perché in quel modo rendono meno più umano il lavoro. Non siamo macchine. Il fattore umano è fondamentale. Chi lavora contento lavora meglio. Chi lavora nutrito e riposato, rende di più. Chi ha in cuore ansie o delusioni (anche se estranee all'ambito in cui lavora: per esempio, una delusione sentimentale) lavora male.
giovedì 13 maggio 2010
Per essere un “capo” bisogna avere orecchie con funzionamento selettivo. Quando il sottoposto parla di come migliorare il lavoro, le orecchie devono essere spente. Quando il sottoposto parla di qualcosa di diverso dal lavoro, le orecchie devono essere accese e ad altissima sensibilità, in modo da poter sgridare chi si distrae dal lavoro.
Dice: “è stato deciso che”. Ma perché mai tutti questi verbi impersonali? Quando io decido qualcosa, dico: “ho deciso che”. Quando il capo decide qualcosa, dobbiamo dire “è stato deciso che”. Vuol dire che lui non solo comanda, ma può anche evitare di prendersi la responsabilità delle sue decisioni.
Martedì scorso il capo ironizzava sui miei strumenti di lavoro. Chi è abituato a comandare piuttosto che lavorare, non sa che i risultati migliori si ottengono utilizzando strumenti affidabili, conosciuti, di cui si ha familiarità. Non è importante che siano i migliori sul mercato o i più eleganti: è importante che mi siano familiari e che io li senta come affidabili.
L'ambiente di lavoro è quel posto dove chi non sa lavorare, comanda. Il supervisore impartisce gli ordini come un maestro agli alunni, e poi annuncia che va a prendere il caffè. Sono contento per questo caffè, perché significa che per la prossima mezz'ora potrò lavorare con calma e concentrazione, senza essere controllato a vista, senza essere interrotto da improvvise ispirazioni altrui che rovinano ciò che ho fatto fino a quel momento.
mercoledì 12 maggio 2010
Va bene, va bene. Ora ti senti furbo perché alla fine ti sei accordato col capo per fare esattamente quel che ti avevo proibito, insistendo a complicare inutilmente le cose. Hai avuto la tua vittoria. Hai manifestato la tua superiorità. Hai saziato ancora una volta il tuo orgoglio (che ovviamente non sarà mai sazio). E ora? Hai complicato la vita a me e a tutti. Questa è la tua soddisfazione? Questo è il tuo modo di lavorare?
Ci considera muli da soma a potenziale infinito: pensa che più pressione applica, prima verrà terminato il lavoro. Abbiamo cominciato ieri mattina qualcosa che richiederà almeno un mese, e stamattina già vuole ispezionare e comunicare al cliente lo stato di avanzamento lavori. No, non è una barzelletta.
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