giovedì 30 dicembre 2010

Molto del dolore causato dagli affari di cuore, è dovuto in realtà alla pretesa di essere coerenti con i propri precedenti innamoramenti. “Dato che ho sempre amato lei, mi rifiuto di credere che i sentimenti che provo per quest'altra donna siano sinceri”. Maledetta coerenza. Ma spesso si commette anche l'errore diametralmente opposto: “al cuor non si comanda, e perciò pur avendo sempre amato lei, ora che sono infatuato di quest'altra posso mandare in archivio tutti i miei precedenti sospiri e batticuore”. Maledetta incoerenza. Maledetta coerenza e maledetta incoerenza.
Una storia che è un pugno nello stomaco. Per conquistare il cuore di lei deve imporre la propria presenza, il proprio io, la propria volontà. Come se certe donne fossero libere di scegliere solo quando sono costrette a subire la volontà di un altro. Che assurdità. Sono sicuro che a raccontare una storia del genere è una donna dai mille fallimenti sentimentali, che perciò sogna di essere costretta ad amare qualcuno. La donna che odia se stessa finisce sempre nelle grinfie di qualche barbaro. Sempre. Ed è perfino contenta di essere maltrattata.

mercoledì 29 dicembre 2010

Finisce l'anno dei guai 2010, comincia l'anno dei guai 2011. Mi viene il magone a sentir parlare in modo sibillino ma fin troppo comprensibile le colleghe di lavoro. Obbediscono ad un calendario e a delle “tradizioni” che non hanno inventato loro. Ma il magone che ho è dovuto soltanto al passare altri giorni festivi da solo, tappato in casa, allergico alle visite (poiché in questi momenti non c'è niente di più deprimente dell'accogliere gente che vorrebbe travasarti un po' di allegria preconfezionata).
Sono anni che faccio il finto tonto. Sono anni che so che aspetti un mio sì. Sono anni che la mia presenza ti conforta e ti addolora allo stesso tempo. Sono anni che ho capito che mi desideri accanto ma fino ad oggi non ho mai osato avvicinarmi a te, e sono anzi terrorizzato dalla possibilità che la nostra amicizia vada al di là dell'amicizia. Sono anni che sto tentando di evitare l'occasione per dirti “restiamo amici”. Il tuo amore è sincero e per questo non meriti di soffrire per un altro mio “no”. Ricordi quella volta in cui apristi il tuo cuore alla sofferenza? Sapevi che avrei detto un “no”, eppure con le tue ultime forze sperasti, tentasti, mendicasti. Quel “no” ti ferì. Con quel “no” pensai di aver finalmente risolto la questione. Ma non è andata come prevedevo, poiché non hai mai smesso di amarmi e perciò non hai mai smesso di soffrire. Ma le nostre vite sono separate da qualcosa più grande di noi. Non vale la pena sognare un'ora per pagarla poi con un anno di sofferenze. Non vale la pena sognare un giorno per pagarlo poi con decenni di fatiche e difficoltà. Non si può costruire un grattacielo o un ponte utilizzando solo paglia.

martedì 28 dicembre 2010

Andiamo, non vorrai mica farti martire per una marca sbagliata? Andiamo, non vorrai mica farti martire per un posto macchina più vicino? Andiamo, non vorrai mica farti martire per una telefonata? Andiamo, non vorrai mica farti martire per un quarto d'ora di straordinario non pagato? Andiamo, non vorrai mica farti martire per un'espressione brusca? Andiamo, andiamo... alla fine uno è martire di un milione di piccole ingiustizie quotidiane. La vita sociale è tutta una persecuzione. Tasse e balzelli, pedaggi e ticket, file e burocrazia, adempimenti e obblighi, subiamo giorno per giorni la più terribile delle torture: quella del vedere che lontanissimi sconosciuti pianificano e complicano la nostra vita, allo scopo di migliorare la nostra “sicurezza” (cioè le loro rendite), mentre nel frattempo subiamo piccoli e grandi furti, piccole e grandi truffe, piccoli e grandi crimini, piccoli e grandi soprusi, piccoli e grandi insulti, piccole e grandi violenze. Ogni giorno, ogni giorno.
Il trailer di quel film mostrava il volto di una donna con un sorriso appena accennato, due occhi delicati e l'espressione di una donna innamorata. Quel trailer invitava tutte le donne che vogliono sentirsi innamorate (e anche gli uomini che sognano di avere accanto una donna innamorata di loro). Siamo sempre capaci di innamorarci, ma perché abbiamo continuamente bisogno di vedere figure di dolci donne innamorate? Perché? Perché abbiamo così tanto bisogno di sognare? Se non fosse redditizio, il cinema non produrrebbe tante storie sentimentali, infilate di forza anche nei film di ogni altro genere.
Dopo ogni delusione la tentazione è di alzare sempre più il tiro. Ma questo significa che dopo un certo numero di delusioni si arriverà a sparare ad alzo novanta, aspettando che il proietto ci ricada addosso. Per cui la delusione dovrebbe essere piuttosto di sprono a cambiare campo di battaglia: inutile combattere dove non c'è possibilità di vincere. Il vero stratega sa quale è la differenza tra una battaglia che non si può vincere ed una battaglia persa.
Il nemico degli ignoranti è la persona che ha cultura. Non temono la cultura: temono la persona che ha cultura. Temono il possesso della cultura più che il possesso di un'arma da fuoco con le peggiori intenzioni di utilizzarla. Hanno paura della cultura perché hanno paura di far la figura degli ignoranti: dunque non è un problema contro la cultura e contro le persone acculturate, ma è un problema di vanità. Si sentono superiori, sentono che “devono” essere superiori, e perciò qualsiasi ostacolo reale, qualsiasi cosa sia verificabilmente superiore e fisicamente vicina, è avvertita come un pericolo grave di cui liberarsi al più presto. Come oggi, con quel perfetto ignorante che ha troncato brutalmente la discussione perché ha capito che il suo prestigio (cioè il suo ego smisurato) era in pericolo: pericolo di essere riconosciuto come ignorante.

lunedì 27 dicembre 2010

Questa avvenente signora ha quarantasei anni suonati. Disegnatrice di oggetti per “l'eleganza” della donna. Cioè vive vendendo eleganza. Non sei elegante? Compra l'eleganza. Più paghi e più sei elegante. Che volgarissimo e commercialissimo concetto di eleganza. Una volta l'eleganza era il concentrato di virtù femminili, non limitato all'espressione della bellezza. Oggi l'eleganza è un prodotto da comprare. La signora ha quarantasei anni. “Single” a quarantasei anni, cioè ha consumato tutto il suo periodo fertile cercando di impedire la nascita di figli mentre passava da un letto all'altro. Ora che la menopausa è alle porte, cerca ancora di darsi un tono, di esibire un'eleganza (vendendola anche come prodotto da lei disegnato) che non c'è più. L'eleganza l'hai consumata nelle facili storiette d'amore che potevi permetterti in ogni momento, visto il bel corredo di curve che avevi. Ma è proprio quel corredo di curve ad averti portato ad essere una single di 46 anni. Sapevi di essere bella, sapevi di poter agganciare qualsiasi uomo, non hai mai dovuto mettere a frutto l'intelligenza e l'arte di saper vivere con gli altri. Ti bastava esibire un po' di curve ed il gioco era fatto: dallo scansare la lunga fila per consegnare quel documento allo scegliere come da un menu il maritino che volevi. Col risultato che lui, stufo di dover assecondare una che pensa di vivere di rendita delle sue curve, alla fine non ne ha potuto più e ti ha piantato. Oppure, pensando di essere un playboy capace di trovare donne belle come te, ha pensato bene di piantarti per un'altra che lui ama più col cuore che col pisello. La bellezza fisica (e anche la cosiddetta eleganza) in fin dei conti sono una maledizione. Pensi di vivere di rendita e invece sono solo i capricci a vivere di rendita. Tanti capricci provocano una delusione. Tantissimi capricci provocano in fin dei conti tantissime delusioni. Essere ancora un po' attraente alle soglie della menopausa non è una soddisfazione, ma una disperazione. Ed essere “single” alle soglie della menopausa è la conferma dell'aver bruciato la miglior parte della tua vita subendo le conseguenze di capricci passeggeri, tuoi e altrui.

giovedì 23 dicembre 2010

Lui la guardava sorridendo e pensava per la milionesima volta: “ma come sei attraente”. Lei gli sorrideva e pensava: “non posso compromettermi con te”.
Ci sono persone che non riescono a dormire se non c'è rumore. Non so come ci riescano. Altri, non so come, non riescono a dormire se non c'è luce. Dipende da luce e luce, dipende da rumore e rumore. Mi è molto familiare il frastuono delle sirene delle forze dell'ordine. Non so perché. Forse perché fin da piccolo ho associato quelle immagini a dei benefattori eccitatissimi che gridano allegri: “presto, presto! c'è un problema da risolvere, abbiamo fretta!” Per me è una musica vedere rumorose pattuglie di Carabinieri, per me è un gradevole spettacolo osservare le auto della Polizia a sirene spiegate che sgommano, frenano, ripartono di corsa. Se sono a letto e li sento sfrecciare e sirene spiegate, mi accoccolo tranquillo e beato sul cuscino. “Presto! C'è un problema da risolvere!” È una frase che potrebbero dire anche altri (per esempio pompieri o medici), ma per Polizia e Carabinieri ho una simpatia assai maggiore.

mercoledì 22 dicembre 2010

Alla luce di un fioco lampione, con un'aria così densa e fredda che temevi di far rumore a spostarla nel muoverti, con un mare placido alle spalle punteggiato solo dai colori delle stelle, appoggiata al muretto non smetteva di piangere e di domandare, con voce rotta, “ma perché? perché?” Una spiegazione non le sarebbe bastata. Non chiedeva un “perché”, ma chiedeva che tutto tornasse a mezz'ora prima, quando era contenta di avere un uomo, quando era orgogliosa di aver sempre qualcosa da perdonargli, quando la sua preoccupazione principale era cosa avrebbe indossato per questa sera così speciale, speciale come tutte le altre, speciale perché natalizia e festosa. Ma lui era lì a dirle che non avrebbero più potuto vedersi. Era lì a dirle che tutto era finito, che forse non era mai cominciato. Le era impossibile accettare questo imprevisto assoluto. Non aveva mai preso in considerazione l'ipotesi neppure come lontanissima, neppure come pensieraccio vendicativo nei tanti momenti di litigio e nei non pochi momenti di sconforto. Piantata così su due piedi, senza scuse. Lui non era più bello e desiderabile: i tratti del suo volto sembravano cambiati, erano quelli di un qualsiasi delinquente che stanco della solita donna la scarica da un momento all'altro. “Dai, parliamo un po'” le disse, come se le chiacchiere per distrarsi attutissero un dolore. Le lacrime le rigavano il trucco, il bel vestito sgualcito e spiegazzato da quei cinquanta metri di corsa, le scarpine carine sporche, la borsetta ammaccata e graffiata dall'impatto col muretto conservava le strisce di intonaco: il suo aspetto era quello del dramma più nero e più inaspettato. Con la voce rotta e la gola dolorante, gridava ancora “no, non è giusto! ma perché?” Ma non chiedeva una spiegazione, non chiedeva un perché. Lui sarebbe andato via già da tempo, ma sentiva che i passanti curiosi sarebbero stati pronti a chiamare la polizia e vigliaccamente cercava di contenere la disperazione di quella poveraccia, scopata e sfruttata per due anni e otto mesi e appena gratificata del più funesto regalo di Natale che una donna innamorata possa immaginare. Allontanandomi, ripongo il telefonino nel tascone del cappotto. Sta' tranquillo, vigliacco merdoso, non chiamerò i carabinieri se non sentirò urla più convincenti. Squallido merdoso, la tenevi solo come giocattolo da scopare e proprio oggi che lei aveva cominciato a sospettare dell'esistenza di un altro giocattolo l'hai scaricata. Lei voleva essere rassicurata da te e tu l'hai scaricata; lei voleva veder sparire il piccolo dubbio attraverso le tue scuse, e tu l'hai piantata. Avevi una faccia più fredda di un cadavere, avevi una determinazione da boia di professione. L'avevi inseguita per quelle poche decine di metri perché temevi che lei facesse un gesto insano: non era di lei che ti preoccupavi, ma del tuo buon nome, della tua immagine, della tua tranquillità. Sei solo un vigliacco merdoso.
Mi strazia veder piangere una donna delusa dal suo uomo. Vorrei tanto avvicinarmi a lei e fare qualcosa per consolarla, ma cosa? Come si può consolare un cuore affranto, un cuore deluso di una donna che si è accorta di aver amato un vigliacco merdoso? Quali parole possono diminuirle il dolore, quali gesti?

martedì 21 dicembre 2010

In una qualsiasi azienda o istituzione, ai vertici dovrebbero esserci persone che conoscono talmente bene il mestiere da fare le scelte giuste al modo giusto. Invece ci sono degli emeriti ignoranti. Considerano le persone come pedine su una scacchiera, intercambiabili, sacrificabili, rimpiazzabili. Considerano gli oggetti come mattoni elementari, sicuri, certificati, componibili. Bisogna andare lì? Si prenda un treno. Non sanno che c'è lo sciopero dei treni. Non sanno che i treni ritardano. Non sanno che l'ora di viaggio in treno è da sommare, oltre che ai ritardi, anche al tempo materiale necessario per andare in stazione, uscire dalla stazione, trovare il binario giusto, trovare l'uscita giusta. Il treno arriva alle 15 in punto? Ci vogliono almeno cinque o sei minuti per arrivare al punto dove ci sono i taxi. Anzi, ce ne vogliono dodici, perché la tua vettura era una delle ultime e quindi hai dovuto camminare per qualche centinaio di metri in più. C'è una corsa di metropolitana ogni due minuti? Loro dicono “ogni trenta secondi”. Poi ci metti sette minuti solo per scendere dal livello strada al binario, e lì trovi un'attesa “prevista” di quattro minuti. Trovi il treno pieno fino all'inverosimile perché non passavano da alcuni minuti (e perciò si è formato l'effetto fisarmonica). Sei costretto a prendere il treno successivo. Il viaggio non dura i dieci minuti che il capo aveva preventivato, ma dura ventotto. All'uscita è un problema perché c'è una folla mai vista (proprio quel giorno? o è così tutti i giorni?) Non ditemi che avevate calcolato il treno alle 15 e l'appuntamento alle 15:10. Non ditemelo. Lo so già. Quel viaggio di un'ora di treno è durato due ore abbondanti. Quei dieci minuti di metropolitana, sommati i tempi intermedi e i piccoli inconvenienti, è durato un'ora abbondante. Se il vostro dipendente arriva lì alle cinque passate, non è colpa sua ma è colpa delle vostre stime ossessivamente ottimiste: “treno? poh, un'ora e sei lì... metro? bah, dieci minuti e sei là”. Considerate le persone come pedine su una scacchiera e perciò considerate anche gli oggetti (treni, computer, autovetture) come pezzi che in un “poh” e in un “bah” risolvono i vostri problemi anziché crearvene. “La prossima volta noleggeremo un'auto” dice con fare nervoso un altro dei capi. E allora il traffico? I tempi morti dal distributore? I tempi morti per ricevere e per riconsegnare l'auto? E se l'auto si dovesse guastare? E se succede un incidentucolo come un tamponamento in pieno centro? No, niente. I capi ragionano per figure mitologiche: il “poh” e il “bah”. Tutto è risolvibile. “Ma lì basta tenerci un computer che faccia questo”. Sì, il computer che ragiona da solo come vogliono i capi. Ci vuole una persona che faccia funzionare il computer. “Poh, trecento euro, lo si compra al supermercato”. Già: quanto tempo ci vuole per comprare un computer e metterlo in condizioni di operatività? Non meno di un giorno di lavoro. E se poi il computer vien fuori difettoso? E se poi qualche pezzo non si riesce a collegare alla rete aziendale? E se poi prende un virus? No, per i capi tutto è facile: “bah, che ci vuole? basta comprare uno di quei computer economici, duecento euro scarsi”. Facile essere ottimisti: basta dire “poh” e “bah”. Poi vai al supermercato e scopri che il più economico costa cinquecento euro. Telefoni al capo (a tue spese!) e lui ti sgrida perché “non può essere, guarda bene!” Capo, l'offerta speciale è di 499 euro, e l'unico al di sotto di questo prezzo non ha la memoria che avevate stabilito nella riunione. Altre sgridate (sempre a mie spese!) Ok, provo nel negozio di informatica dopo l'incrocio. Un'ora già persa (eppure “poh, che ci vuole? dieci minuti, vai lì, lo compri, lo porti qui”). Negoziante: “abbiamo questo da 399 euro in offerta speciale”. Altra telefonata, altra sgridata, stavolta con l'ordine di prenderlo. Già immagino nella riunione successiva, quando si accorgeranno di aver sforato su tutti i “poh” e su tutti i “bah”. Si accorgeranno che tutto è costato il doppio (sia in termini economici che di tempo che di persone da utilizzare), ma non saranno capaci di far tesoro della lezione. Non saranno capaci perché non lo sono mai stati. È tutto un “poh” e un “bah”. Saranno capaci solo di dire: “riduciamo il gruppo di lavoro da così a così”. Prima sprecano in mille rivoli e poi tentano di rifarsi sul punto più debole, cioè su noialtri che compiamo materialmente il lavoro e che veniamo utilizzati perfino come galoppini da supermarket.
La scorsa notte mi sono svegliato senza motivo. Saranno state le due. Incurante del freddo mi sono affacciato a guardare le luci della notte. Qualche rumore di ciclomotore, automobili, camion. Un paesaggio “metropolitano” che però ti fa desiderare di vivere in qualche sperduta campagna, dove anziché i cilindri dei motori senti il rumore di qualche timida bestia, anziché le luci delle case (e qualche televisore acceso) vedi solo le stelle e qualche lontano lampione. La notte è fatta per dormire ma quando ti svegli alle due del mattino e non riesci a riprendere sonno, significa che hai nostalgia di un mondo più tranquillo.
“Un altro racconto. Devo comporre qualcosa su un ragazzino che tiene su una banda di barbari distruttori. No, la banda più grande della città. Una città enorme e cupa, un desiderio di emergere e di vincere. Vincere la noia della vita. Devo scrivere un racconto violento solo per rappresentare il mal di vivere? Deve essere per forza un ragazzino solo perché il lettore lo identifichi con sè stesso a causa della propria sete di ringiovanire? Un racconto che non serva a sognare: deve essere un racconto che istighi a ricreare la realtà, come se fosse la rappresentazione simbolica della realtà da ricostruire. La banda ai suoi ordini sono le virtù che non riconosci. La città è il mal di vivere. Gli amici sono la nostalgia della purezza mentre ci divincoliamo nella malizia. Gli scontri sono un modo per dimostrare di esistere. Sarà un bel racconto. Sarà quel che una volta erano per i nostri nonni i racconti di pirati, tesori e avventure. Sarà. Chissà se sarà”.

lunedì 20 dicembre 2010

Dopo la Grande Delusione cominciai a fumare. La Grande Delusione mi aveva lasciato con una strana posizione delle labbra. Innaturale, tesa. Ferma. Un'espressione di perplessità stampata con chiarezza nel mio volto, particolarmente nella bocca e negli occhi. Con le labbra così, leggermente scostate, era naturale metterci una sigaretta. Non ero mai stato attratto dal tabacco, prima. Ma adesso, come per vendicarmi della Grande Delusione, piazzavo una sigaretta. Ero lì dal tabaccaio per un motivo che non ricordo più. Indicai l'ultimo pacchetto di sigarette di uno degli scomparti alle spalle dell'anziana donna vestita di un rosso cupo senza proferir parola. Lei lo aggiunse alle altre cose e disse il prezzo. Pagai ed uscii silenzioso, senza batter ciglio. Non so perché ma avevo con me dei fiammiferi. Una persona normale che non fuma non porta i fiammiferi con sè. Io in quel momento li avevo. Aprii lentamente il pacchetto di sigarette e ne tirai fuori una. La posi tra le mie labbra, come sigillo per la paresi dovuta alla Grande Delusione. Passeggiai per un po' prima di accenderla, come se tra me e me fossi stato curioso di vedere se l'urlo sordo che avevo dentro me l'avesse fatta gettar via all'improvviso. Invece, come obbedendo a un ordine scritto, l'accesi. Un saporaccio orrendo invase la bocca e fu l'ultima volta che fui tentato di gettar via una sigaretta. Sono passati sei anni, ventidue giorni, sei ore e trentaquattro minuti dalla Grande Delusione. La bocca, da qualche tempo, è tornata alla normalità. Ma l'urlo che mi porto dentro per l'ingiustizia che mi toccò subire è ancora grande, è grande come quel giorno. L'enorme tributo di sigarette mi ha forse raddrizzato la bocca ma non mi ha mai sanato neppure di un millesimo.
Si accarezzava la pancia mentre attraversava il corridoio sorridendo. Una pioggerella confortante, il pigiama pulito, il letto caldo che lo aspettava. Avrebbe dormito tutto il pomeriggio; la pioggia si faceva più intensa, il letto si faceva più caldo. Si sistemò per bene, preparandosi accuratamente al letargo. Socchiuse gli occhi un'ultima volta, per assicurarsi di essersi tappato in casa per bene, mentre fuori diluviava. Dieci minuti più tardi squillò il telefono che aveva dimenticato di spegnere: era una notizia di morte. Non poteva più rimanere lì. La pioggia non poteva valere come alibi. Fu il week-end più straziante e defatigante della sua vita.
Nel miglior anno della mia adolescenza ero innamorato perso di quella ragazza. Ce l'avevo in pugno, come si suol dire. Avrei dovuto solo farle capire che ci stavo. Gita scolastica, cena al ristorantino ungherese. Con un'abile mossa riesco ad ottenere uno dei rarissimi tavoli da due persone e a sedere di fronte a lei, solo io e lei, mentre gli altri (voglio sperare) non facevano troppo caso a quel che ci dicevamo. Lei, quasi tremante, mi chiese: “allora, cos'è che volevi dirmi?” Ci servirono un brodino grigio. Il cameriere si allontanò e lei, con l'ultimo brandello di coraggio e di speranza che aveva, tornò per un'ultima volta all'attacco: “dai, volevi dirmi qualcosa?” Forse sarebbe bastato uno sguardo. Non riuscii neppure a guardarla. Fino alla fine della cena. Non so quante parole pronunciai nella mezz'ora successiva. Forse due, forse tre in tutto. Qualcosa mi bloccava, non so più cosa. Non era quel brodino malefico. Forse non erano nemmeno le occhiatine interessate da parte del resto della classe. Nel ripensarci mi vengono quasi le lacrime perché a distanza di anni ho capito tantissime cose della mia vita, ma quell'impossibile silenzio non l'ho mai capito. Non so perché restai così, di sasso. Non so perché evitai di servirmi di quell'occasione fornitami su un piatto d'argento. Non so. So solo che non so. Oggi, dopo tanti anni, poteva essere mia moglie. Oggi sono single, così come sono sempre stato da quella sera. Lei era lì ed aspettava un mio monosillabo. Avrebbe abbassato lo sguardo e trattenuto sorrisi e lacrime. Lei ci teneva tanto, forse ci teneva ancor più di me. È terribilmente poetico, doloroso e grandioso allo stesso tempo, gradevole e pericoloso nello stesso momento, innamorarsi di una compagna di classe mentre nessuno fa il tifo per te e per lei. Ero lì, bloccato, bloccato nel corpo e nella mente e nel cuore. Era la donna che avrebbe cambiato la mia vita. Tre mesi prima della maturità, il tempo di lasciarci invidiare dai compagni di classe e cominciare un'estate insieme e una vita insieme. Niente. Silenzio. Un blocco improvviso. Lei non me lo ha mai perdonato. Dopo quella cena mi evitò con sempre maggior durezza. Dopo la maturità trovai una scusa per incontrarla, lei fu formale come con uno che non avesse mai visto prima. Poi è scomparsa completamente. Un paio d'anni fa ebbi notizie di lei, vaghe e frammentarie. Non ho idea di quanto dolore io possa averle provocato. Non lo so, non ho idea, ho paura perfino di scoprirlo. Anche lei probabilmente è ancora single (non so se sono io che lo spero, o forse lo temo, oppure fu solo una mia approssimata deduzione da quel che mi riferirono un paio d'anni fa). Poteva bastare un solo sguardo, poteva bastare una sola parola, saremmo stati insieme per tutta la vita. Poteva, poteva. Poteva.

venerdì 17 dicembre 2010

Non ne posso più di quest'aria natalizia. Tutto è così fastidiosamente natalizio.
Quella volta Babbo Natale mi gratificò un giocattolo stupendo. Non era esattamente il modello che avevo chiesto: il budget di Babbo Natale doveva essere inferiore a quel che avevo previsto. Oppure Babbo Natale non aveva saputo imbroccare la vetrina giusta del negozio giusto, che pure mi ero affannato a segnalare. Accettai comunque di buon grado l'aggeggio e mi immaginai pilota provetto mentre venivo lasciato solo in compagnia del mio giocattolo, ebbro di contentezza come un giovane sposo che arriva casto alla prima notte di nozze. Poco meno di tre giorni dopo il giocattolo era rotto. Piansi più per rabbia (non potevo accusare altri che la mia distrazione e la nota fragilità di quell'arnese) che per dolore. Avrei a lungo fantasticato ancora di essere un pilota provetto, ma stavolta senza il giocattolo adatto. Avrei fantasticato e basta. Avrei sognato senza lo strumento adatto per quel tipo di sogno. Ancora molte settimane dopo speravo in cuor mio che si trovasse qualcuno (un negoziante? un laboratorio specialistico?) capace di aggiustare quell'aggeggio. Sognavo ad occhi aperti che mi dicessero: non si può aggiustare per cui ti diamo il modello più avanzato (che era esattamente quello che avevo domandato a Babbo Natale): quella sì che sarebbe stata giustizia, seppure a prezzo di tanti giorni di dolore. Ma non ci fu niente da fare. Per mesi conservai quel cadavere di plastica, per poterlo ancora guardare e sognare (quel poco che si poteva ancora sognare con un giocattolo inutilizzabile), finché per un po' di tempo smisi di tornare nello sgabuzzino a coccolarlo. Mi accorsi per caso, molto tempo dopo, che non era più lì. I miei avevano fatto sparire quel pezzo di spazzatura costato a me tanto dolore e a loro la sensazione di aver fatto bene a comprarne uno economico vista la rapida morte. Ma lo ricordo ancora oggi, ricordo il colore, la forma, lo ricordo come se lo avessi visto un minuto fa, ricordo la sensazione al tatto, la gustosa sensazione che mi dava sfiorandone la plastica (che non era di qualità ma era comunque del giocattolo e quindi per me aveva decisamente valore). Non era il migliore per sognare di essere piloti, ma era il mio, era di mia proprietà, totalmente e unicamente mio. A volte mi domando se l'esperienza di veder nascere un proprio figlio desse ad un padre altrettanto movimento del cuore.

giovedì 16 dicembre 2010

Quanto più sono incravattati tanto più sono inutili. Hanno fatto studi, corsi, master, detengono lauree, diplomi, specializzazioni, ma in fin dei conti sono dei cafoni. Tutta la scienza che hanno acquisito è uno sterile nozionismo. Il loro mestiere è prendere decisioni insindacabili. Vengono strapagati (minimo il triplo di quanto viene faticosamente elargito a me) solo per manifestare, di tanto in tanto, un atto di volontà. Sapendo che la loro vita lavorativa è vuota, la imbottiscono di inutilissime riunioni, defatiganti riunioni, noiosissime riunioni, riunioni su riunioni. Tempo non solo perso, ma vissuto malissimo. Per loro, ed ancor più per noialtri che siamo chiamati a parteciparvi. Interminabili discorsi riassumibili nelle solite tre o quattro frasi: “siamo in ritardo”, “dovete risolvere tutti i problemi”, “bisogna accelerare i tempi”, “oh no c'è di nuovo qualcosa che non va”. La mia non è neppure invidia: è solo un senso di impotenza totale di fronte ad un'ingiustizia totale. Obbedendo alle loro decisioni vedi affondare la barca, e non puoi permetterti di disobbedire. Il mestiere dei decisionisti, posti lì a comandarci per chissà quale magia, incapaci di comprendere il nostro lavoro, divenuti arroganti (coloro che non lo erano già) perché non si può vivere di impunità per anni ed anni senza che il vizio prima o poi non esploda. Decisionisti senza responsabilità: anche se sbagliassero, la colpa è nostra e del resto del mondo. Parassiti veri, strapagati per ostacolarci.

mercoledì 15 dicembre 2010

C'è una cosa che non capisco. Perché quando si parla di licenziamenti, siamo sempre minacciati noi che materialmente lavoriamo? Perché non rischiano mai il posto quegli inutili dirigenti e quegli inutilissimi commerciali? I primi non fanno altro che “prendere decisioni”. Ci vogliono così tante persone (e chissà quanto ben pagate) per “decidere” cose all'altezza di un adolescente? I secondi non sono altro che degli inutili passacarte. Ci vogliono così tante persone (e chissà quanto ben pagate) per passare carte? Questi ultimi lavoreranno (si fa per dire) un'ora al giorno in totale (quando c'è veramente parecchio da fare). Quelli che “prendono decisioni” sforzeranno le meningi per tre minuti al giorno (quando c'è veramente tantissimo da fare). E allora? Quando l'azienda deve snellirsi, vuole snellire sempre partendo da chi materialmente produce qualcosa di concreto? Perché? Abbiamo torto a pensare che la lobby dei passacarte e dei pensatori decisionisti sia fatta di bestie feroci che si proteggono a vicenda contro noialtri che materialmente produciamo? Come fanno quei nullafacenti a non rendersi conto che il loro ricco stipendio è garantito proprio dalla fatica di noi che produciamo? Togliendo di mezzo noi, è come uccidere (per fame) la gallina dalle uova d'oro. Se l'azienda licenziasse uno di loro, risparmierebbe l'equivalente di almeno due o tre di noi, senza ridurre assolutamente la “produzione”. Un passacarte in meno non è un dramma. Figurarsi un pensatore decisionista pensoso e incravattato, parassita per eccellenza, capace solo di indire riunioni per farvi comizi interminabili, prolungarle fino allo svenimento per noia, esporre quelle orrende cravatte cinesi pagate come se fossero italiane, e decidere della nostra buona e cattiva sorte come se noi fossimo delle stupide pedine su una stupida scacchiera.
No, ora me lo devi spiegare, me lo devi spiegare subito. Chi è stronzo? Hai gridato “questo stronzo!” e qui dentro ci siamo solo noi due. A chi ti riferivi? Chi è lo stronzo, tu o io? Come sarebbe a dire che hai detto “così per dire”? Per chi mi hai preso? Prima ti lasci sfuggire ciò che veramente hai in cuore e poi cerchi miseramente di rimediare alla figuraccia che hai fatto, invitandomi con quelle parole ad essere ipocrita quanto te?

martedì 14 dicembre 2010

“Sono una di quelle! Sono una di quelle!” le scrisse la donna. “Vado con tutti! Lo faccio con tutti! Con te e con Enzo e con gli sconosciuti!” Era furiosa: voleva che lui si rimangiasse la parola, a costo di pronunciare anche il dolorosissimo nome di Enzo. Voleva fare “con tutti” e di testa sua, ma senza essere etichettata “una di quelle”. Si illudeva che “spassarsela” fosse non solo diritto inalienabile di ogni donna, ma fosse anche esatto sinonimo di quelle certe cose che si vedono in quei certi film. Così, quando uno innamorato di lei tentò di dirle di non comportarsi come “una di quelle” (lo aveva detto più per gelosia che per buon senso), lei si era scatenata come un cane idrofobo. E lui, che aveva chiuso in tempo la telefonata perché addolorato e stanco, cominciò silenziosamente a piangere qualche attimo dopo perché gli era appena arrivato il violentissimo messaggino: “Sono una di quelle!”
La mia vita è costellata di mancati pagamenti. Nel senso che prima mi è stata promessa una ricompensa e poi non mi è stata data per intero, oppure non mi è stata data per niente. (E magari il lavoro richiesto, nel frattempo, si era ingigantito rispetto alle richieste iniziali). Questo mi è successo fin da piccolo, cioè fin dalla scuola. Ognuno dei professori aveva sempre i suoi alunni preferiti che meritavano un voto alto anche se avessero soltanto starnutito. Io non ero tra i preferiti di nessuno, mai nessun professore mi ha preferito, neppure i supplenti. Metà della classe era nelle mie stesse condizioni, ognuno di noi si sentiva un brutto anatroccolo in attesa del momento del riscatto, momento che non è mai arrivato per nessuno. Era inutile studiare perché oltre la sufficienza era impossibile andare. Ricordo in più di una occasione l'aver studiato tantissimo, imbottendomi di stupide nozioni per presentarle esattamente come voleva l'insegnante, subire un'interrogatorio più che un'interrogazione, e infine vedere quella zitella isterica darmi una sufficienza stentata. Due minuti dopo uno stronzetto al primo banco fa una osservazione intelligente (“intelligente” nel senso che pareva tale alla vecchia megera) e prende un voto più alto del mio. Non so come, restai impassibile di fronte alla scena. Ma in cuor mio giuravo che non avrei mai più studiato letteratura italiana. Mi sono spaccato per giorni, settimane, a studiare quelle noiosissime pagine. Le avevo studiate per bene, per prepararmi a quella interrogazione di fuoco come tu comandi, utilizzando il tuo gergo e assecondando tutte le tue manie. Ho studiato pregustando il momento in cui avrei detto ai compagni della “metà dei mal pagati”: vedete? costa un grosso sforzo, ma si può sfondare il maledetto muro della sufficienza e andare più in alto, invadendo anche per un solo giorno il territorio dei nobili aristocratici che prendono voti alti senza studiare. Invece no. Nessuna soddisfazione. Solo un misero elogio di incoraggiamento che fu tanto più umiliante in quanto detto con distaccata formalità.

lunedì 13 dicembre 2010

Poche cose ritemprano lo spirito come una lunga passeggiata serale, per le strade poco illuminate di periferia, sotto una pioggia che fiaccamente picchietta l'ombrello. Le automobili dei benestanti che sfrecciano, le lontane luci delle case che tradiscono la luce dei televisori e i preparativi della cena, quella gradevole solitudine che ti avvolge e ti accompagna, solitudine stavolta morbida e desiderata, silenziosa e soffice, quella solitudine che per una volta tanto non è la tenaglia che stringe il cuore ma è la boccata di aria pura dopo una settimana di velenose battaglie. E a casa non ti aspetta altro che un letto caldo ed un pezzetto di qualcosa da scaldare nel microonde. Una sensazione unica. Ci vorrebbe una pioggia del genere ogni venerdì sera.

venerdì 10 dicembre 2010

Ricordo di quando da piccolo ebbi come regalo di Natale un gatto. Uno dei ricordi più belli della mia vita (il momento in cui l'ho ricevuto) e due anni dopo uno dei ricordi più tristi della mia vita (il momento in cui scomparve nel nulla, presumibilmente ammazzato). Oggi ancora mi vien nostalgia di quei momenti in cui mi limitavo solo ad osservarlo mentre esplorava, andava a caccia, si lavava, mangiava, dormiva... Eppure era una bestia pelosa, niente di particolare. Tanto affetto per una bestia, tanto affetto che ci riesce così difficile esprimere a persone reali. Forse perché le persone sono talvolta più bestie delle bestie stesse. O forse perché siamo troppo spesso incapaci di amare sinceramente qualcosa che non sia meccanicamente prevedibile.
Se fosse per me abolirei il Natale. Quanto odio quest'ipocrita aria natalizia, tutta festoni babbonatale e falsa allegria. Una noia mortale, il Natale. Non sono uno Scrooge che odia il Natale perché si sente solo. Non mi sentirò solo: troverò, volente o nolente, compagnia per “far passare” la giornata di Natale. Ma è proprio questo noioso obbligo babbonatalesco che mi dà sui nervi. Nei giorni di feste comandate (comandatissime dalla TV) il mio unico desiderio è una passeggiata solitaria in qualche luogo disabitato (sì, a Natale si possono trovare luoghi disabitati perché tutti sono impegnatissimi nel “festeggiare” una casellina rossa del calendario).
Conosco un ragazzo “molto bravo col computer”. Sa organizzarsi video e canzoni e film e fotografie come nessun altro sa fare. Spende un numero impressionante di ore per organizzarsi, archiviare, installare... Ma un film, una volta che lo hai visto, ti serve ancora? Quanti sono i film che vale la pena rivedere? Quel ragazzo comincia a guardare il film ancor prima di averlo, ancor prima di aver finito di scaricare. Una volta scaricato e visto tutto, lo masterizza. Ma poi? Quella pila di vecchi e stupidi film, a che serve? Ha bisogno di computer sempre più grandi e potenti per non perdere nulla del suo enorme archivio di film e di video. Ma poi? Quand'è che ti verrà voglia di rivedere quel tal film dove c'era quella tale scena interessante? (e tutto il resto del film era da buttare). Poi, “rivedere” cosa? Non ricordi più neppure i titoli dei film che hai visto quattro o cinque mesi fa, figurarsi quelli che tieni archiviati ormai da sei o sette anni. Molte persone vivono come se lo scopo della propria vita fosse il perder tempo a organizzare il proprio divertimento e per un'ora di divertimento spendono una settimana di organizzazione. Anche quando il novantanove per cento dei film, ancor prima che cominci, ti annoia perché non ti ispira niente di veramente nuovo.

giovedì 9 dicembre 2010

Mi intristisce vedere certe persone raccogliere una quantità notevole di registrazioni video della propria vita. Ogni ora di registrazione ti costerà un'ora, in futuro, per rivederla tutta almeno una volta. Allora perché registri? Sarà bello sapere che tieni conservati tanti ricordi. Ma quante volte hai riaperto in vita tua, spontaneamente, l'album delle foto delle tue nozze? Escludendo il momento fastidiosissimo in cui lo mostravi ad amici e parenti (che erano lì per il rito del vedere le fotografie solo per gentilezza, solo perché è una tradizione ancora non soppressa). Quando apriamo un album di ricordi, anche se sono dei bellissimi ricordi ci viene sempre un magone. Quando sono dei brutti ricordi ci ispirano rabbia, quando sono dei bei ricordi sembra sempre che ci manchi qualcosa, vien sempre il desiderio di tornare a quegli anni per riviverli di nuovo senza commettere gli stupidi errori che caratterizzano la vita di ognuno di noi. Raccogliere ricordi è triste.
Ho capito cosa sono i veramente i capricci quella volta che una donna, incapricciatasi di una stupidaggine, preferì perdere in un sol colpo tanti amici pur di non rinunciare al suo capriccio. Quelle che chiamiamo “questioni di principio” spesso sono in realtà soltanto dei capricci travestiti con eleganza. Anzi, dirò di più: le questioni di principio probabilmente non esistono. Ogni principio, essendo un concetto astratto, può essere messo da parte per un minuto. La realtà vale più di tutti i discorsi e vale più di tutti i concetti astratti. Di fronte ad un pericolo (e ancor più di fronte a qualcosa che ci piace tanto) siamo fin troppo disposti a mettere il resto del mondo da parte. L'uomo è composto per il 70% di acqua e per il 99% di capricci.

martedì 7 dicembre 2010

Hanno scoperto che fumo anch'io. Sigari. Eppure erano sigari sottili e anemici, sembravano sigarette. Ma mi hanno scoperto mentre maldestramente lasciavo cadere la cenere. Quindi non posso più inveire contro il fumo. Non posso più ruggire contro le sigarette, contro i danni del tabacco, contro l'assurdo vizio del fumo. Specialmente nei confronti di quella donna, che fuma così tanto solo per capriccio, solo per apparire emancipata, come se fossimo ancora fermi a cinquant'anni fa. Le avevo sempre contestato il fatto che fumasse, con modi sempre gentili ma purtroppo mai abbastanza convincenti, e qualche volta con modi un po' meno gentili perché fumava non lontano da me e la puzza del fumo mi arrivava proprio addosso. Ora che mi hanno scoperto fumare un sigaro (l'unica volta che ne fumavo uno, l'unica volta che ho ceduto alla tentazione, l'unica da quando ero ragazzino!) ho perso tutta la mia autorità perché aprono ogni discorso con “parli proprio tu che”. Parli proprio tu. “Parli proprio tu che”. Come se il vizio del fumo fosse criticabile solo da chi non ha mai fumato in vita sua. Che ipocriti.
C'è una scena che credo di aver visto in più di un film: una giovane si accorge, imbarazzatissima, di essere incinta; cerca di contattare quello che può essere il “padre” sperando che questi si prenda le sue responsabilità. Tipicamente il “padre” si limita ad umiliarla e respingerla per sempre, talvolta impreca contro il fallimento o l'assenza degli anticoncezionali. La giovane incinta teme il cambiamento di vita che comporta l'accettare il figlio, teme di essere pubblicamente svergognata come ragazza facile, distratta, ingenua (cioè teme la verità), teme le conseguenze e le fatiche necessarie a “sbarazzarsi” del problema (cioè il figlio che porta in grembo a causa della faciloneria, della distrazione, dell'ingenuità, del funzionamento naturale degli organi “genitali”, che cioè servono esattamente a “generare” figli). L'uomo, passato il momento di svago con la donna, non ne vuole più sapere: lo prenderanno per ingenuo se accetta di prendersi le sue responsabilità. Lo prenderanno per distratto e facilone se risulta costretto ad un matrimonio “riparatore” (cioè prima eseguono la sequenza di azioni per avere figli, e poi dopo si sposano in fretta e furia per dare una famiglia ai figli). Per cui l'uomo, nella sua natura di forte e coraggioso, scappa come un vigliacco: scappa sempre, fugge mentendo, addirittura se ne ride del “guaio” della facilona distrattona ingenua. Questo genere di scene l'ho visto in più di un film, tipicamente film americani del periodo degli anni '70-'80. Quel tipo di moralismo forse era diretto alle ragazze, forse era un messaggio per convincerle a non essere “distratte” e ad utilizzare tutti gli strumenti che la scienza vende (vende!) alle persone che vogliono tentare di far figli senza riuscirci. Non sono sicuro che ci siano riusciti. La società sempre più “sessuomane” ha raggiunto livelli assurdi, contemporaneamente di neo-bigotteria e di sesso tanto sfrenato quanto idiota. Un capoluogo pugliese detiene oggi il record nazionale delle gravidanze abortite: una ogni tre. Nel migliore dei casi (cioè non volendo considerare le “recidive”) abbiamo che una donna su tre è una stupida facilona che si fa mettere incinta non volendolo. Questo la dice lunga sulle scelte equilibrate e mature, sulla cosiddetta “salute riproduttiva”, sull'attitudine degli uomini ad essere velocissimi solo quando si tratta di fuggire dalle proprie responsabilità, sono bravissimi solo quando si tratta di mentire per salvare la propria reputazione a danno di quella della donna che hanno ingravidato solo per quei pochi minuti di “piacere”. Quei film non hanno sortito effetto né in USA né in Italia.

lunedì 6 dicembre 2010

“Ti conviene licenziarlo subito”, mi disse. “Altrimenti dovremo pagare, pagare e strapagare: ci conviene?” Avevo sempre considerato i miei dipendenti come poco più che numeretti su una tabella. Stavolta, misteriosamente, non riuscivo a cancellare un numeretto. Mi sarebbe costato solo una recita, una delle tante recite della mia vita, quelle in cui facevo la parte del “non posso fare altrimenti”, quella condita dal “dopotutto è meglio per te e per me”, quella che si conclude con l'inoppugnabile “sarebbe ingiusto se non lo facessi”. Non ero fatto per esitare. Tutte le volte che avevo esitato mi era costato caro. “Stai esitando”, mi disse, come leggendomi nel pensiero. “Le persone non sono numeri”, ribattei. “Stai esitando: ci costerà assai caro questo tuo improvviso attacco di bontà da film per ragazzi”. Sbuffai più per esalare le emozioni che il fiato. Poi, mentre ancora mi osservava silenzioso, gli dissi con quanta maggior gravità potevo: “mi faccia trovare tutte le carte pronte”. Assunse un'espressione che voleva essere un sorriso ma pareva invece il solito ghigno dello squalo davanti alla preda bloccata in un vicolo cieco. Voltandomi verso la tabella dei numeretti sul computer mi resi conto che quella era la mia matricola, quel numeretto da cancellare ero io. E quello squillo sempre più fastidioso era la mia sveglia. Nell'aprire gli occhi, mi dissi: “ma perché?” Per fortuna era domenica mattina: non so se ce l'avrei fatta ad andare a lavorare. Fu quello il giorno in cui smisi di fare jogging.


Rivedi la vecchia fiamma della tua adolescenza. Dopo tutti questi anni ha conservato quella bellezza. Le circostanze sono avverse: lei ed un altra vecchia conoscenza sono qui per lavoro, si può parlare solo di lavoro, si può a stento accennare qualche parola sommessa sui cari vecchi tempi. All'epoca ti considerava un appestato da cui stare alla larga, ora invece puoi stringerle le mani come un bambino e perfino salutarla affettuosamente quando ci si congeda. Ma poi pensi: a che pro tutta questa messinscena? Non siete fatti per stare insieme: lei non ne vuole sapere di te, tu non ne vuoi sapere di lei. Quest'attrazione che provi è solo un moto degli istinti e dei ricordi. Istinti e ricordi. Dopo uno sterile scambio di paroloni tecnici e di frasi di circostanza (era pur sempre lavoro), dopo che vi siete congedati, conservi un po' di magone anche mentre ti dici la pura e sacrosanta verità: “non pensarci: domattina l'avrai già dimenticata di nuovo, la prossima donna che vedrai ti distrarrà a sufficienza da dimenticarla”.

venerdì 3 dicembre 2010

Il dramma di un uomo assai ricco è che può scegliere tra tutte le donne che vuole, per cui quando ne sceglie una gli vengono sempre in mente altre che hanno un valore simile se non superiore. Il dramma di un uomo assai poco ricco è che non può scegliere perché viene tenuto a distanza da tutte e quando pure riesce ad essere scelto, è una col complesso da crocerossina che ha deciso di farlo cambiare da così a così. Il dramma di un uomo assai ricco è che la possibilità di scegliere comodamente lo mette in imbarazzo. Il dramma di un uomo assai povero è che l'assenza di possibilità lo mette in imbarazzo. Come insegna la favola di Cenerentola, le donne preferiscono l'agiatezza, in fondo in fondo perché sanno bene che quanto ai sentimenti l'uomo è tipicamente tutto chiacchiere e distintivo. L'uomo straricco è invidiato dagli uomini normali solo per pigrizia: preferirebbero scegliere comodamente la donna da usare e da dimenticare quando non serve più e invece la vita li costringe (non sempre con successo) a mantenere un ragionevole livello di fedeltà e di serietà.
Si parla di un santone capace di leggerti nell'anima, di scrutare nei tuoi pensieri e rivoltarti come un calzino. Quando sento parlare di queste cose mi scappa sempre da ridere. Un santone qualsiasi è solo uno che ha dimestichezza con la psicologia: i venditori di magico unguento di serpente sono sempre esistiti e non ci vuole grande “scrutamento” per capire che i problemi che affliggono la maggioranza assoluta delle persone che vanno da loro sono affari di cuore e, in misura minore, affari di soldi. Quando poi un santone compare quasi all'improvviso, già pieno di notorietà e di seguaci, diventa ancora più facile pensare alla truffa. Il volgo vuole essere ingannato, ergo c'è sempre qualcuno che lo inganna. Nel calderone gli ingredienti sono sempre gli stessi: un po' di religiosità, un po' di effetti speciali, un po' di superstizione (anzi, abbondante) e soprattutto quel tanto di psicologia e di savoir-faire utile per ingannare anche i laureati in psicologia.
Il format degli spettacoli televisivi è così prevedibile che ti sembra sempre di averli visti tutti. Gli applausi degli spettatori sono così prevedibili che ti sembrano un inutile rumore di fondo. Non c'è niente di più noioso e plastificato di un presentatore. Per farci ridere, i comici devono sempre ricorrere alla volgarità perché non sono mai veramente comici.
Ho notato anch'io che i cani somigliano ai loro padroni ogni volta che ne osservi la bruttezza, la stupidità, la cafonaggine, lo snobismo. L'accoppiata cane-padrone raggiunge livelli di somiglianza reciproca tali da far considerare praticamente umani i cani (almeno finché non c'è bisogno di abbandonarli in autostrada per andare più comodi in vacanza).

giovedì 2 dicembre 2010

So che da anni cerchi di ottenerlo. So che hai investito un sacco di soldi per ottenerlo. So che hai sputato lacrime e sangue per ottenerlo. Anche se non mi piace, ho deciso di darti una mano: ho saputo che un amico di un amico può fartelo avere. Perciò ti ho telefonato per dirti che esiste questo amico-di-un-amico che può metterti in contatto con... Ma tu non mi hai ascoltato. Sei talmente calamitato dalla tua idea che mentre ancora parlavo hai già tentato di fare il corto circuito: chi? Dove? Non ti interessa il contatto-dell'amico-dell'amico. Vuoi già sapere dove ottenerlo, per scavalcare le persone e arrivare da solo al traguardo. Non vuoi avere nessuno da ringraziare. Sei talmente avido da non riconoscere che io ti sto facendo un favore, a costo di mettere in moto un mio amico per far mettere in moto un amico di quest'ultimo in modo da arrivare al possibile contatto che potrà presentarti e... No, tu vuoi tutto e subito, mentre ancora stai parlando con me al telefono vuoi tutto e subito e senza intermediari, vuoi fare da solo, parli come se tu fossi capace di ottenere da solo ciò che non sei riuscito ad ottenere in tanti anni. Non chiudo la telefonata solo perché voglio darti una lezione di galateo. Ma non avrai più nessun favore da me (oggi lo dico, e domani invece so già che rischierò di commuovermi nel vederti di nuovo in difficoltà, ma le persone come me sono fatte così).
Quanto mi delizia vedere sui mezzi pubblici il solito cafone (di qualsiasi età, sesso e condizione sociale, ma buzzurro fino al midollo) a cui squilla il telefonino con suoneria cafona al 100% per un interminabile minuto: venti secondi per accorgersi che è il suo, altri venti per trovare la borsa che lo contiene, altri venti per rintracciarlo nella borsa e guardare il numero del chiamante e infine urlare: “pronto?” Gli stranieri si guardano perplessi, non sanno se ridere o se far finta di niente.

mercoledì 1 dicembre 2010

Salvo poche eccezioni gli atei sono divisibili in due categorie: quelli che ce l'hanno a morte con la chiesa (anche quando vogliono usare termini gentili e apparentemente “scientifici”) e quelli che fanno di tutto per dire che se ne infischiano. Io sono una delle eccezioni. Non ce l'ho a morte con la chiesa poiché vedo che si sta spegnendo da sola: andare a messa è ormai un hobby di anziani perditempo, i preti e la gerarchia sono noiosi da morire, i giovani si vedono solo nei megaraduni (uh, quanti preti hanno il grave cruccio di non saper più cosa inventarsi per “attrarre i giovani”). Mi è antipatica solo quella parte di chiesa che commette “falso ideologico”: se sei prete allora fa' il prete, non fare il disk-jockey politicante professore attivista gay eccetera. Però non posso dire di essere indifferente alla chiesa (e nemmeno posso ostentare un'indifferenza che non c'è). Le vetrate di una cattedrale gotica non ci sarebbero state se non ci fossero stati i cristiani. Gaudì e Michelangelo non avrebbero eretto quelle opere d'arte se non fossero stati cattolici. L'arte moderna, non più cristiana, è una bruttura totale. Quelli che ci paiono indifferenti, spesso è solo perché si sforzano di apparire tali. L'altra categoria è fatta di persone che sputano sulla chiesa cercando (quasi sempre) di apparire equilibrati e giusti. Entrambe le categorie sono allarmate dall'esistenza stessa della chiesa, nonostante la chiesa sia in lento ed inesorabile declino e quindi tra pochi decenni il problema non si porrà più.
Ogni tanto sento il bisogno di gridare a tutto il mondo (o ad una specifica parte) un giudizio sentito e sincero: “siete delle merde”.