venerdì 29 luglio 2011

Si chiama Vincenzo e lo incontro ogni volta che sogno quel luogo dove c'è la piazzetta col bar, l'incrocio, la riunione in quel bugigattolo, il ciclomotore a cui fare il pieno... Ogni volta capita che ho bisogno di lasciare qualcosa in giro. Non volendo lasciar nulla incustodito (più per paura di scherzi che per paura di ladri) mi ritrovo Vincenzo lì, sulla sedia a rotelle, con quel leggero sorriso che è il suo marchio di fabbrica. Sempre vestito con qualcosa che somiglia ad una tuta blu da metalmeccanico, sempre con i capelli molto corti, mostra di avere una trentina d'anni di età (forse più di quanti non ne abbia davvero). Sta lì, davanti al bar, intere giornate a guardare il traffico. Se rubassero le mie cose, lui potrebbe a stento (e non senza pericolo) dare l'allarme. Ma accetta ugualmente il fastidioso incarico, con quel sorriso che tradisce generosità. Non ricordo più il cognome di Vincenzo, eppure me lo avrà detto in almeno due occasioni. L'ultima volta stavo per promettergli qualcosa per ricompensarlo della cortesia che mi usa, ma non avevo idea di cosa potesse essergli talmente gradito da non sentirsi tentato di rifiutare per pura cortesia. Perciò, più che qualcosa da mangiare, stavo quasi per promettergli che gli avrei presentato una donna (nella speranza che si sarebbe innamorata di lui). Ma un attimo prima di parlare mi rendevo conto dell'impossibilità di mantenere la promessa. Le donne che conosco pensano tutte di essere inguaribilmente romantiche ma riescono ad innamorarsi solo di belloni ricconi svitatoni, non sanno apprezzare un uomo semplice, sincero, e per di più non in perfetta condizione fisica. Le donne che conosco sanno innamorarsi solo di uomini che le maltrattano (ecco perché non si innamorano mai di me... e nemmeno di Vincenzo).

giovedì 28 luglio 2011

Lei strinse un po' gli occhi, per meglio mettere a fuoco il soggetto e per valutare il pericolo. No, era solo un immigrato. Clandestino, sicuramente. Ma era fastidioso vedersi guardata così. “Certo, è un abitino sexy, no? Sarò pur libera di vestirmi come voglio, no? Sarò pur libera di esprimermi, no? Chi siete voi bigottoni che volete impormi di vestire in modo decente? Io voglio andare svestita come mi pare! Però voglio anche che mi guardino solo gli uomini belli, ricchi e single. Magari mi sta bene anche che mi guardino con ammirazione (cioè con occhi da pesce lesso) altri soggetti meno interessanti, come eleganti uomini sposati, eleganti uomini divorziati, eleganti uomini belli e ricchi ma già impegnati. Tutti gli altri no, non devono guardarmi. Specialmente a quest'ora della sera, perché mi mettono paura. Che ne sanno, loro, di donne? Tornino nei loro paesi, dove le donne sono oggetti sessuali coperti da rigorosi tendaggi”. Cara signorina isterica, il problema è che tu intendi per “libertà di esprimerti” l'imitazione delle puttanelle televisive. Quando vai in giro vestita in quel modo, tutti gli uomini ti guarderanno pensando certe cose. Tutti. Specialmente quelli che non sono belli, non sono ricchi, non sono single, non vogliono conquistare cuori.

mercoledì 27 luglio 2011

La differenza tra me e te è che quando io dico “la gente” intendo la gente concreta, le persone che vedo tutti i giorni nella metropolitana, le persone che incrocio tra le corsie dell'ipermercato, le persone in fila con me alle Poste... tu invece dici “la gente” pensando a qualcosa che con te non c'entra. Quando dico “la gente soffre”, conto anche me stesso nel novero di quelli che soffrono; quando invece tu dici “la gente soffre”, stai parlando come se tu non soffrissi, come se tu fossi solo spettatore, come se “la gente” fossero solo figure che appaiono in televisione. La mia realtà è quella che fa parte della mia vita, la tua realtà sono le figurette che vedi in TV. Quando la “sofferenza” arriverà, sarai completamente sorpreso quando ti accorgerai che riguarda anche te e le persone che incontri, e non soltanto le figurette che scorrono sul tuo televisore.

martedì 26 luglio 2011

La chiamano “sindrome di Stoccolma”. Quando i sequestratori prendono ostaggi, al più si preoccupano che siano ancora vivi (altrimenti li avrebbero fatti fuori subito). Dunque ogni gesto che va al di là di questo (come per esempio il permettere l'uso della toilette o il concedere un po' d'acqua e cibo) è da considerare secondario. Agli ostaggi, però, per quella che è stata chiamata “sindrome di Stoccolma”, quei gesti secondari ispirano spesso complicità con i criminali rapitori: “dopotutto non sono così cattivi”. Anche nella guerra del mobbing succede la stessa cosa: dopo un lungo periodo di gravi pressioni, un banale bigliettino di buon compleanno può istupidire la vittima del mobbing e in fin dei conti prolungare inutilmente la sofferenza.

lunedì 25 luglio 2011

La memoria di certe persone è come quella degli uccelli: breve, di poche settimane. Dopo poche settimane vanno in amnesia totale. Dimenticano perfino di aver litigato con te. Per la terza volta mi mordo la lingua dopo avergli detto: “ma tu allora quella volta non...?” Mi mordo la lingua perché gli sto ricordando una cosa che lui aveva probabilmente dimenticato: i dissapori che c'erano tra noi due. Lui, sorpreso: “no, cosa? quale volta?” Mi affretto a cambiare discorso: “no, ho confuso con un'altra persona”. Mi mordo nuovamente la lingua: la mia scappatoia è troppo banale, se ne accorgerà, mi schiferà, mi odierà. Invece, lui: “sei sempre così, dimentichi troppe cose”. Resto sorpreso e muto: sta recitando? Mi prende in giro? Dopo qualche secondo di silenzio capisco che fa sul serio. Sono stato fortunato. Non ricorda più “quella volta”, o almeno non la ricorda adesso: è il momento di entrare in azione, di andare avanti come se nulla fosse avvenuto, cogliere la palla al balzo: tutta la fatica che mi sarebbe servita per ricomporre questi dissapori è stata risparmiata dalla sua memoria corta.


Molti bambini, per tornare in ogni momento al centro dell'attenzione degli adulti, hanno comportamenti ai limiti dell'autolesionismo. Molti adulti, purtroppo, superano di gran lunga tali bambini. Come ad esempio quella donna che pur di farsi notare dall'uomo di turno, distrugge la propria reputazione nella speranza di vedersi compatire. Crede che tra tutti i sentimenti solo il compatire possa essere sincero. E crede ciecamente che soltanto autodistruggendosi potrà ispirare compassione.
Le due sorelle avevano la stessa maglia, larga quanto basta per accogliere l'ampia cellulite, la stessa acconciatura, la stessa montatura degli occhiali, la stessa voce aggressiva-difensiva, quella che dopo due sillabe già ti fa capire che sono entrambe zitelle, furiose zitelle che si sono rintanate nel gruppetto religioso parrocchiale per avere di fronte al mondo l'alibi del non aver trovato ancora marito (se sono zitelle di parrocchia allora il resto del mondo dovrà pensare che accetteranno solo candidati al fidanzamento rigorosamente casti e puri fin nel più remoto dei pensieri... e dato che tali uomini sono merce decisamente rara sulla faccia della Terra, allora con enorme probabilità resteranno zitelle per sempre).

venerdì 22 luglio 2011

Ci sono delle persone che hanno delle fissazioni che durano anni, o forse addirittura una vita intera. Voglio dire: quelle fissazioni stupide, piccine, micragnose, insignificanti, assurde. Come il tener ossessivamente ordinata la propria camera e trascurare tutto il resto. Come il curare ossessivamente i propri capelli (o le proprie unghie, o i propri piedi) ma trascurare l'igiene del resto del corpo. Vedo uno che ha ordinato i suoi stupidi documenti e file musicali con pignoleria e metodo, lo vedo sorridere mentre guarda lo schermo del computer, con quel sorriso che dura un attimo ma lo percepisci per sempre, e su tutto il resto della sua vita è disordinato. Ci si concentra su un minuscolo aspetto della realtà, del tutto secondario, magari insignificante, e gli si dedicano impegno, fatica e risorse senza fare economia. Fissazioni. Fissazioni da cui magari dopo qualche tempo (settimane, mesi, anni) si guarisce perché quando in quel minuscolo punto è tutto ordinato e non c'è niente da fare, allora si pensa ad altro (ed a furia di pensare ad altro si finisce per dimenticare e guarire). Ma è stupefacente come la gente dedichi alle proprie fissazioni tanta energia e tante risorse.

giovedì 21 luglio 2011

Fu quella volta che andai a far loro visita portando un po' di gelato, che scoprii il suo punto debole. Si avventò sul gelato quasi ancor prima di salutarmi. Fingevo di non notare che lei si sforzava di non mostrarsi sorridente mentre carezzava con gli occhi e col cuore la confezione di gelato. Ognuno di noi può comprare quanto gelato vuole, ma il gelato ricevuto in dono in modo inatteso è sempre più buono (al punto di avventarvisi quasi dimenticando il mondo circostante). “Il punto debole”, pensavo, “su cui si potrebbe far leva in futuro”. Basta poco per cedere alle piccinerie.

mercoledì 20 luglio 2011

“Abbiamo guastato l'apparecchio”, mi dice depresso il collega. “No, forse è solo come quella volta ad aprile”, gli rispondo io. “Non è la stessa cosa di aprile”. Restiamo in silenzio alcuni secondi. Lui ha verificato, io no. Lui parlava dopo aver verificato, io parlavo basandomi solo sulle mie speranze. Lui aveva osservato, ragionato, espresso un risultato; io non avevo osservato, non tentavo di ragionare, parlavo non per dare un risultato ma per esprimere una speranza, come se lo avessi voluto convincere a sperare, come se fosse più importante il convincerlo che il rimediare al danno. Abbiamo tutti questo stesso maledetto vizio: di fronte alle difficoltà ci rifugiamo nei sogni e li chiamiamo speranze. Chiamiamo “speranza” quello che è il nostro sogno di magica risoluzione dei problemi. Chiamiamo “speranza” il nostro tentativo di convincere altri a credere al nostro sogno, perché di fronte ad una brutta notizia il primo tentativo che facciamo è quello di schiacciare sulla realtà i nostri sogni, pretendere che il problema non esista solo perché ci piace sognare che non esiste. Quei secondi di silenzio sono stati la mia onestà, il mio prendere atto della brutta situazione. Ma non era una virtù mia. Qualche settimana fa si era presentata una situazione simile, ma le parti erano invertite. Lui tentava di convincermi a credere al suo sogno, mentre io freddamente gli ricordavo la dura realtà. Sono stato silenzioso in questi attimi proprio ricordando quell'episodio. Chiamare “speranze” i propri sogni è un modo cinico di illudere se stessi e gli altri.

martedì 19 luglio 2011

La scena tipica nelle chat internet (così come nella vita) è quella di una donna che disperatamente corteggia tutti gli uomini che incontra tranne l'unico che la supplica di ascoltarlo e che la ama veramente.
Il nonno finalmente rientrò in cucina. “Se ne sono andati”, disse la nonna senza neanche guardarlo. Il nonno avrebbe voluto bofonchiare qualcosa, ma non riuscì a trattenersi dal chiedere a mezza voce: “ce ne sono ancora di patatine?” La nonna si girò lentamente e gli porse la scodellina con gli ultimi avanzi e tornò a dargli le spalle. Il nonno divorò le ultime briciole rimaste cercando di non far notare l'avidità. Da piccolo le aveva sempre desiderate, ma erano una cosa da ricchi. Per una vita intera aveva dovuto accontentarsi. Ed ora la figlia viziava -sì, viziava- quei due imbecilli di nipoti. Cenavano con gelato e patatine, due lussi che ai suoi tempi -sì, ai suoi tempi- erano solo per i figli dei ricchi, e solo per la domenica. Le due piccole pesti invece ne godevano tutti i giorni, sospendendo solo in caso di cibi di altrettanto livello di lusso. Il nonno si accorse di essere ancora in piedi. Ricordò quante volte, da giovane, aveva pranzato in piedi, cenato in piedi, fatto colazione (quelle rare volte in vita sua che aveva potuto far colazione) in piedi. Ai bambini avevano invece riservato il migliore dei cuscini e la migliore delle tovaglie per... farli giocare sul pavimento, farli riposare a terra! Quello che all'epoca era un'umiliazione, quello che poi verrà ricordato come segno di onore, oggi per loro è un gioco. Un cuscino perché i signorini non riescono a sedersi sul pavimento! Briciole di patatine dappertutto, il cuscino mogliore a raccoglierne ed a sporcarsi di polvere e di impronte di scarpe, e il nonno che in vita sua aveva dovuto dormire tante volte sulle sedie, a volte addirittura seduto, il nonno che si era sentito finalmente ricco quella prima volta che dormì nel camion ringraziando che non piovesse né nevicasse. I due pestiferi bimbi erano tanto stupidi quanto viziati, e si godevano i lussi che lui in vita sua aveva solo potuto sognare. Ancora un anno fa questo gli avrebbe messo tristezza. Ora era davvero vecchio, e non ce la faceva più neppure ad arrabbiarsi. Si vergognava anzi della sua avidità, del consumare le briciole e gli avanzi proprio come ai vecchi tempi. Una generazione se ne va, un'altra comincia ad invadere il mondo. La generazione di coloro che ebbero da sacrificarsi mangia residui di patatine sprezzando la cartella clinica, la generazione di coloro che come massima sofferenza hanno conosciuto talvolta i lussuosi salatini piuttosto che le lussuose patatine viene ora invadendo il mondo. I nonni avevano imparato a soffrire, i loro figli hanno beneficiato della sofferenza, i figli dei loro figli non sanno più cos'è il sacrificio, cos'è la sofferenza, cos'è il dover mendicare, cos'è il lusso conosciuto solo per sentito dire. Le generazioni che hanno sofferto hanno anche costruito (l'Italia del dopoguerra è stata rifatta da coloro che avevano dovuto subire gli effetti e le miserie della guerra), le generazioni che non hanno mai avuto da soffrire e da sacrificarsi non sanno far altro che consumare, pretendere, esigere, piagnucolare perché giovedì scorso a merenda accanto al gelato anziché le patatine c'erano i salatini. Il nonno avrebbe voluto ripetere per la millesima volta tutte queste cose alla nonna, ma si rendeva conto che non era quello l'uditorio che avrebbe dovuto ascoltarlo. Tornò in camera da letto sulla vecchia poltroncina che non lo aveva mai tradito, l'unico grande lusso della sua vita, comprata per un pugno di pane da dei ricconi che avevano visto distrutta la loro casa da una bomba degli americani. Si sedette come sempre, come prendendo possesso del suo trono, stendendosi sui braccioli e reclinando leggermente il capo. Chiuse gli occhi, e per qualche attimo immaginò di stare in piedi sulle macerie fumanti, con gli abiti anneriti e strappati qua e là, con il cappello unto e bisunto e calcato sulla fronte, urlare a degli scansafatiche qualsiasi che anche se la guerra era finita da tanto tempo c'era da rimboccarsi immediatamente le maniche e dar su di olio di gomito, perché gli uomini veri sanno di essere fatti per costruire, gli uomini stupidi pensano di essere fatti solo per distruggere. Gli sembrò di vedere un bambino di otto anni fermarsi davanti a lui. Avrà avuto l'età dei nipotastri viziati, ma aveva un'aria di chi desidera ascoltare ancora, di chi ha sete di parole sagge. Si figurò di saltar giù dal muro squarciato continuando a lodare le virtù degli uomini capaci di costruire, capaci di sacrificarsi, capaci di riconoscere che la fatica è una dimostrazione di un lavoro ben fatto e che il dolore è la conferma della stupidità di certuni che... Sentì nelle orecche come un frusciare di foglie, sentì di aver voglia di piangere, lui che non piangeva da quando aveva nove anni, sentì come se le lacrime gli stessero per bagnare il volto. Il suo unico ascoltatore, sorridendogli, cercava di trascinarlo qualche metro più in là, al centro della strada o di ciò che ne rimaneva e lui, senza sapere perché, oppose ancora un po' di resistenza, almeno finché non lo guardò negli occhi.

lunedì 18 luglio 2011

Quel bastardo mi minacciò: “dirò tutto a chi so io”. Ma poi ha commesso un'imprudenza: qualche ora dopo ha ripetuto la minaccia. E poco dopo l'ha ripetuta ancora. Il giorno dopo l'ha ulteriormente ripetuta. Più la ripete, e più mi fa capire che è lui ad essere all'angolo del ring, è lui ad essere in posizione difensiva. Più mi minaccia e più mi fa capire che non ha abbastanza coraggio per andare a fondo, non ha abbastanza sangue freddo per “dire tutto” restando credibile a quel “chi so io”. Si è innescato così un circolo vizioso: io resto freddo come il ghiaccio di fronte alle sue minacce e lui, vedendomi freddo, tenta di nuovo di rinnovare le minacce.

venerdì 15 luglio 2011

La psicologia dell'uomo moderno è fondamentalmente riducibile ad una sola categoria: fissazione distratta. Fissazione sì, ma con distrazioni. Fissazione, con tutte le sue varianti (dalla mania all'ossessione): solo in rari casi riesce a produrre qualcosa di grande (in senso di arte, di lavoro, di umanità vissuta).
Ma che razza di deficiente! Sei il controllore preposto a controllare, e li lasci andare? Sei il controllore che dovrebbe far andare avanti gli onesti e bloccare i disonesti, e invece li lasci andare perché “sono giovani”? Non mi interessa di che colore siano, non mi interessa a quale religione appartengano, non mi interessa che età abbiano: io ho pagato il mio biglietto e loro devono pagare il loro! “Sono giovani”, tsè! Come se l'essere giovani giustifichi qualsiasi cosa.

giovedì 14 luglio 2011

C'era anche quell'amico fanatico della salute. Jogging, erborista, dietologo, palestra... Un incidente sul lavoro e tutta la salute svanì in un colpo solo. Come di chi vede una casa fatta di carta velina distrutta da un breve incendio. Oppure l'amica maniacalmente fissata col proprio peso, per decenni a dieta ferrea pur di rimanere sotto la fatidica soglia dei sessanta chili. Ma se il tuo corpo si stabilizza solo sui settantacinque, perché devi lottare disperatamente per rientrare sotto i sessanta? Perché lottare per una vita intera? Ho perso il conto dei conoscenti ossessionati dalla salute.

mercoledì 13 luglio 2011

Nel medioevo c'erano malattie sconosciute e incurabili, alle quali qualche credulone tentava di dar rimedio fisico e i soliti preti tentavano di dar rimedio consolatorio all'anima. Oggi è la stessa cosa. Abbiamo tanta scienza ma ci ammaliamo ancora di raffreddore e ci viene rifilato come rimedio consolatorio la TV. Malattie diffuse e difficili, come l'AIDS o la sclerosi multipla, ancora non hanno vera cura. Oltre centomila maghi e fattucchiere registrati in Italia (più del triplo dei preti): nell'Italia spretata abbondano i creduloni. La TV vende rimedi per malattie inesistenti (dentifrici, antirughe, pomate dimagranti, pastiglie del benessere) oppure dall'assai dubbia efficacia (omeopatie, agopunturisti, dietologi). Un'amica va dalla dietologa e spende un centinaio di euro per... per cosa? La dietologa, dietro lauto compenso, le dice che deve mangiare più carne e formaggi perché è sottopeso. Ma ci volevano cento e rotti euro per sentirselo dire? La dietologa non è nel novero dei maghi e fattucchiere, ma si è dimostrata della loro stessa pasta. L'amica mi mostra la dieta che le è stata prescritta: sembra presa dal menu di un ristorantino casereccio di estrema campagna o dalle pagine di una rivista femminile. Nel campo della salute la banalità si paga a caro prezzo, le vere cure per le vere malattie semplicemente non esistono, la vita si è allungata ma a prezzo di una continua e ossessiva dipendenza dai farmaci (talvolta fin dalla gioventù: antidolorifici, sedativi, vitaminizzanti, anticellulite...) e il maggior segno dei tempi è che le farmacie sono diventate raffinati supermarket specializzati anzitutto in cosmetici. Il medioevo di oggi è peggiore del medioevo del passato: abbiamo allungato la durata della vita (e a che prezzo!) ma la qualità della vita è calata. Nel medioevo nessuno si suicidava.

martedì 12 luglio 2011

Quei jingle pubblicitari alla radio... sembrano la brutta copia degli equivalenti americani. I quali a loro volta sono un patetico tentativo di abbellire e pacchettizzare canzonette popolari. Le quali a loro volta sono un ridicolo tentativo di far musica sulla scia di una tradizione che già a suo tempo non c'era più, soppiantata dall'anticlericalismo. Nel risalire alle origini di ogni produzione musicale, si finisce invariabilmente alle sontuose musiche delle chiese, quelle dove cori di monaci si applicavano per dare la perfezione e la maestosità, convinti di dover piacere al loro Dio prima che agli uomini stessi. Oggi quei monaci non esistono più, quella ostinata ricerca della bellezza e della perfezione non esiste più. La massima espressione architetturale non è più la cattedrale ma la filiale della banca. La massima espressione musicale non è più il requiem di Mozart ma la canzonetta in playback della puttanella di stagione. La massima espressione artistica non è più una cappella Sistina ma la vera merda d'autore inscatolata ed esposta al museo. La massima espressione letteraria non è più la Divina Commedia ma le gag volgari del cabarettista stagionale o le clausole in piccolo dei contratti telefonici. Nei tempi della miseria e dell'oscurantismo nascevano l'architettura, la scultura, la musica, l'arte. Nei tempi della falsa abbondanza abbiamo invece solo merda, virtuale e reale. A volte, a sentire quei jingle pubblicitari alla radio, vien tanta voglia di scappare, di tornare nel medioevo.

lunedì 11 luglio 2011

L'arma del bambino è piangere. È un'arma: si riconosce dal fatto che viene attivata da un momento all'altro utilizzando subito la massima potenza: waaaah! Il bambino sa di avere un'arma temibile perché dopo i primi innocui pianti ha capito che agli adulti quel suono è odioso. Per questo, non appena ha il minimo sentore di trarne vantaggio, scatena immediatamente l'arma: waaaah! waaaah! Ricattati da quell'interminabile frastuono gli adulti si fanno in quattro per compiacerlo, se non addirittura per assecondarlo. La scarsa fatica di piangere è sempre ben ripagata. A volte i bambini piangono per motivi più sinceri: quando avvertono solitudine, quando avvertono dolore, quando avvertono fame. Sono ancora troppo piccoli per capire che solitudine, fame e dolore non passano urlando: waaaah! Genitori seri (purtroppo merce rara) sanno quando il pianto è sincero e quando non lo è. Piangi per un capriccio? Allora te le suono, così almeno piangi per il dolore. In quel caso il bambino comincia a poco a poco a capire che il pianto non deve essere usato come arma di ricatto ma solo come strumento di segnalazione. Non c'è da stupirsi che i bambini trattati in tal modo (punendo il pianto-ricatto e premiando il pianto-segnalazione) diventano più seri, più affidabili, più maturi. Si avviano cioè verso l'età adulta. Non come questi bambinoni che sono adulti per l'anagrafe ma sono capricciosi e prepotenti finché vivono, avendo da tempo sostituito il waaaah con altri sistemi di ricatto morale e di vile persuasione.
Uomini e donne hanno un tratto in comune: accumulano ira, delusioni, disillusioni, come in un enorme serbatoio. Ogni persona ha un serbatoio di una precisa (ma sconosciuta) capienza. Quando il serbatoio è pieno e gli eventi tendono a riempirlo ancora di più, il serbatoio naturalmente esplode, sparando in tutte le direzioni e in maniera disordinata le più assurde e infantili reazioni, quelle che il senso di civiltà (e soprattutto il dolore) avevano messo da parte.

venerdì 8 luglio 2011

Forse sarà l'estate. Le donne deboli hanno la tendenza ad innamorarsi di uomini già impegnati. È perché vogliono sentirsi scelte: “se lui la lascia per me, vuol dire che mi ama”. Che teoria mostruosamente idiota. Dovresti piuttosto pensare: “se lui la lascia per me, allora prima o poi lascerà me per qualche altra”. No, forse non è l'estate. Le donne deboli sono fatte così. Cara mia, tutti desideriamo sentirci scelti. Ma non dobbiamo essere così stupidi da farne una fissazione deleteria come la tua.

giovedì 7 luglio 2011

Tre giorni senza internet. Assurdo. Ti accorgi di quanto sia preziosa una risorsa (internet, il telefonino, la salute) solo nel momento in cui la perdi.

lunedì 4 luglio 2011

Ogni tanto sento qualcuno che teorizza, come punizione per una donna, il sedurla e portarla a letto. Talvolta sono discorsi fatti più con serietà che con goliardia. Ma somigliano terribilmente a quei discorsi tra ragazzini: sai, se vinco al superenalotto mi compro una Ferrari e poi vado subito sotto casa della Francy a strombazzare e do di gas fino a che non si affaccia anche la sorella, poi svolto all'incrocio e vado a farmi vedere dalla Marietta... Questi ragazzini, trent'anni dopo, parlano durante la pausa pranzo di quegli stessi sogni, aggiornando l'invidia della Ferrari con la punizione del sedurre e abbandonare una donna a loro antipatica allo scopo di ferirla nell'orgoglio. In certi casi ci riescono: avviene con le donne più ingenue. Come sempre, le persone più deboli pagano per le vendette che si attirano quelle più forti.

venerdì 1 luglio 2011

A volte ripenso a quel personaggio di quella serie, che gli sceneggiatori hanno fatto morire tanto per creare un po' di dramma in più e rinviare il finale di qualche altro episodio. Mi viene una gran tristezza. Potevano dargli un carattere migliore, lo hanno fatto più testardo del necessario. Potevano dargli una sorte migliore, allungando la serie con un altro espediente. Invece lo hanno fatto stupidamente morire. E la donna che si stava innamorando di lui si ritrova completamente spaesata. Il personaggio principale va ugualmente per la sua strada: e la donna che si stava innamorando di lui (collega inseparabile della precedentemente citata) pure rimane spaesata. Alla fine della serie, le due donne si ritrovano private dei loro amori, costrette a ricominciare una nuova vita (ognuna per la sua strada, presumibilmente), e tutte le cose belle che erano accadute fino a quel momento finiscono nel triste serbatoio dei ricordi. Mi vengono le lacrime a pensare alla sorte di quei quattro. In particolare per quello che è stato fatto stupidamente morire, perché pensavo che mi somigliasse, perché mi aspettavo che scoprisse di avere una donna innamorata di lui e perciò si coronasse un amore grandioso. Ma non è andata così. La serie non ha avuto seguito, sarà stata dimenticata dagli stessi sceneggiatori, di tanto in tanto affiora da qualche parte, ma con tutta la produzione cinema e TV vuoi che tirino fuori un sequel di una serie che quasi non interessa più a nessuno? Che i soli interessati vorrebbero vedere un seguito coerente e senza quelle puntate conclusive in cui si fa morire uno e si disperdono gli altri tre protagonisti? Il mondo è crudele e la stupidità degli sceneggiatori rende distrattamente e vigliaccamente crudele una bella storia.