giovedì 30 dicembre 2010

Molto del dolore causato dagli affari di cuore, è dovuto in realtà alla pretesa di essere coerenti con i propri precedenti innamoramenti. “Dato che ho sempre amato lei, mi rifiuto di credere che i sentimenti che provo per quest'altra donna siano sinceri”. Maledetta coerenza. Ma spesso si commette anche l'errore diametralmente opposto: “al cuor non si comanda, e perciò pur avendo sempre amato lei, ora che sono infatuato di quest'altra posso mandare in archivio tutti i miei precedenti sospiri e batticuore”. Maledetta incoerenza. Maledetta coerenza e maledetta incoerenza.
Una storia che è un pugno nello stomaco. Per conquistare il cuore di lei deve imporre la propria presenza, il proprio io, la propria volontà. Come se certe donne fossero libere di scegliere solo quando sono costrette a subire la volontà di un altro. Che assurdità. Sono sicuro che a raccontare una storia del genere è una donna dai mille fallimenti sentimentali, che perciò sogna di essere costretta ad amare qualcuno. La donna che odia se stessa finisce sempre nelle grinfie di qualche barbaro. Sempre. Ed è perfino contenta di essere maltrattata.

mercoledì 29 dicembre 2010

Finisce l'anno dei guai 2010, comincia l'anno dei guai 2011. Mi viene il magone a sentir parlare in modo sibillino ma fin troppo comprensibile le colleghe di lavoro. Obbediscono ad un calendario e a delle “tradizioni” che non hanno inventato loro. Ma il magone che ho è dovuto soltanto al passare altri giorni festivi da solo, tappato in casa, allergico alle visite (poiché in questi momenti non c'è niente di più deprimente dell'accogliere gente che vorrebbe travasarti un po' di allegria preconfezionata).
Sono anni che faccio il finto tonto. Sono anni che so che aspetti un mio sì. Sono anni che la mia presenza ti conforta e ti addolora allo stesso tempo. Sono anni che ho capito che mi desideri accanto ma fino ad oggi non ho mai osato avvicinarmi a te, e sono anzi terrorizzato dalla possibilità che la nostra amicizia vada al di là dell'amicizia. Sono anni che sto tentando di evitare l'occasione per dirti “restiamo amici”. Il tuo amore è sincero e per questo non meriti di soffrire per un altro mio “no”. Ricordi quella volta in cui apristi il tuo cuore alla sofferenza? Sapevi che avrei detto un “no”, eppure con le tue ultime forze sperasti, tentasti, mendicasti. Quel “no” ti ferì. Con quel “no” pensai di aver finalmente risolto la questione. Ma non è andata come prevedevo, poiché non hai mai smesso di amarmi e perciò non hai mai smesso di soffrire. Ma le nostre vite sono separate da qualcosa più grande di noi. Non vale la pena sognare un'ora per pagarla poi con un anno di sofferenze. Non vale la pena sognare un giorno per pagarlo poi con decenni di fatiche e difficoltà. Non si può costruire un grattacielo o un ponte utilizzando solo paglia.

martedì 28 dicembre 2010

Andiamo, non vorrai mica farti martire per una marca sbagliata? Andiamo, non vorrai mica farti martire per un posto macchina più vicino? Andiamo, non vorrai mica farti martire per una telefonata? Andiamo, non vorrai mica farti martire per un quarto d'ora di straordinario non pagato? Andiamo, non vorrai mica farti martire per un'espressione brusca? Andiamo, andiamo... alla fine uno è martire di un milione di piccole ingiustizie quotidiane. La vita sociale è tutta una persecuzione. Tasse e balzelli, pedaggi e ticket, file e burocrazia, adempimenti e obblighi, subiamo giorno per giorni la più terribile delle torture: quella del vedere che lontanissimi sconosciuti pianificano e complicano la nostra vita, allo scopo di migliorare la nostra “sicurezza” (cioè le loro rendite), mentre nel frattempo subiamo piccoli e grandi furti, piccole e grandi truffe, piccoli e grandi crimini, piccoli e grandi soprusi, piccoli e grandi insulti, piccole e grandi violenze. Ogni giorno, ogni giorno.
Il trailer di quel film mostrava il volto di una donna con un sorriso appena accennato, due occhi delicati e l'espressione di una donna innamorata. Quel trailer invitava tutte le donne che vogliono sentirsi innamorate (e anche gli uomini che sognano di avere accanto una donna innamorata di loro). Siamo sempre capaci di innamorarci, ma perché abbiamo continuamente bisogno di vedere figure di dolci donne innamorate? Perché? Perché abbiamo così tanto bisogno di sognare? Se non fosse redditizio, il cinema non produrrebbe tante storie sentimentali, infilate di forza anche nei film di ogni altro genere.
Dopo ogni delusione la tentazione è di alzare sempre più il tiro. Ma questo significa che dopo un certo numero di delusioni si arriverà a sparare ad alzo novanta, aspettando che il proietto ci ricada addosso. Per cui la delusione dovrebbe essere piuttosto di sprono a cambiare campo di battaglia: inutile combattere dove non c'è possibilità di vincere. Il vero stratega sa quale è la differenza tra una battaglia che non si può vincere ed una battaglia persa.
Il nemico degli ignoranti è la persona che ha cultura. Non temono la cultura: temono la persona che ha cultura. Temono il possesso della cultura più che il possesso di un'arma da fuoco con le peggiori intenzioni di utilizzarla. Hanno paura della cultura perché hanno paura di far la figura degli ignoranti: dunque non è un problema contro la cultura e contro le persone acculturate, ma è un problema di vanità. Si sentono superiori, sentono che “devono” essere superiori, e perciò qualsiasi ostacolo reale, qualsiasi cosa sia verificabilmente superiore e fisicamente vicina, è avvertita come un pericolo grave di cui liberarsi al più presto. Come oggi, con quel perfetto ignorante che ha troncato brutalmente la discussione perché ha capito che il suo prestigio (cioè il suo ego smisurato) era in pericolo: pericolo di essere riconosciuto come ignorante.

lunedì 27 dicembre 2010

Questa avvenente signora ha quarantasei anni suonati. Disegnatrice di oggetti per “l'eleganza” della donna. Cioè vive vendendo eleganza. Non sei elegante? Compra l'eleganza. Più paghi e più sei elegante. Che volgarissimo e commercialissimo concetto di eleganza. Una volta l'eleganza era il concentrato di virtù femminili, non limitato all'espressione della bellezza. Oggi l'eleganza è un prodotto da comprare. La signora ha quarantasei anni. “Single” a quarantasei anni, cioè ha consumato tutto il suo periodo fertile cercando di impedire la nascita di figli mentre passava da un letto all'altro. Ora che la menopausa è alle porte, cerca ancora di darsi un tono, di esibire un'eleganza (vendendola anche come prodotto da lei disegnato) che non c'è più. L'eleganza l'hai consumata nelle facili storiette d'amore che potevi permetterti in ogni momento, visto il bel corredo di curve che avevi. Ma è proprio quel corredo di curve ad averti portato ad essere una single di 46 anni. Sapevi di essere bella, sapevi di poter agganciare qualsiasi uomo, non hai mai dovuto mettere a frutto l'intelligenza e l'arte di saper vivere con gli altri. Ti bastava esibire un po' di curve ed il gioco era fatto: dallo scansare la lunga fila per consegnare quel documento allo scegliere come da un menu il maritino che volevi. Col risultato che lui, stufo di dover assecondare una che pensa di vivere di rendita delle sue curve, alla fine non ne ha potuto più e ti ha piantato. Oppure, pensando di essere un playboy capace di trovare donne belle come te, ha pensato bene di piantarti per un'altra che lui ama più col cuore che col pisello. La bellezza fisica (e anche la cosiddetta eleganza) in fin dei conti sono una maledizione. Pensi di vivere di rendita e invece sono solo i capricci a vivere di rendita. Tanti capricci provocano una delusione. Tantissimi capricci provocano in fin dei conti tantissime delusioni. Essere ancora un po' attraente alle soglie della menopausa non è una soddisfazione, ma una disperazione. Ed essere “single” alle soglie della menopausa è la conferma dell'aver bruciato la miglior parte della tua vita subendo le conseguenze di capricci passeggeri, tuoi e altrui.

giovedì 23 dicembre 2010

Lui la guardava sorridendo e pensava per la milionesima volta: “ma come sei attraente”. Lei gli sorrideva e pensava: “non posso compromettermi con te”.
Ci sono persone che non riescono a dormire se non c'è rumore. Non so come ci riescano. Altri, non so come, non riescono a dormire se non c'è luce. Dipende da luce e luce, dipende da rumore e rumore. Mi è molto familiare il frastuono delle sirene delle forze dell'ordine. Non so perché. Forse perché fin da piccolo ho associato quelle immagini a dei benefattori eccitatissimi che gridano allegri: “presto, presto! c'è un problema da risolvere, abbiamo fretta!” Per me è una musica vedere rumorose pattuglie di Carabinieri, per me è un gradevole spettacolo osservare le auto della Polizia a sirene spiegate che sgommano, frenano, ripartono di corsa. Se sono a letto e li sento sfrecciare e sirene spiegate, mi accoccolo tranquillo e beato sul cuscino. “Presto! C'è un problema da risolvere!” È una frase che potrebbero dire anche altri (per esempio pompieri o medici), ma per Polizia e Carabinieri ho una simpatia assai maggiore.

mercoledì 22 dicembre 2010

Alla luce di un fioco lampione, con un'aria così densa e fredda che temevi di far rumore a spostarla nel muoverti, con un mare placido alle spalle punteggiato solo dai colori delle stelle, appoggiata al muretto non smetteva di piangere e di domandare, con voce rotta, “ma perché? perché?” Una spiegazione non le sarebbe bastata. Non chiedeva un “perché”, ma chiedeva che tutto tornasse a mezz'ora prima, quando era contenta di avere un uomo, quando era orgogliosa di aver sempre qualcosa da perdonargli, quando la sua preoccupazione principale era cosa avrebbe indossato per questa sera così speciale, speciale come tutte le altre, speciale perché natalizia e festosa. Ma lui era lì a dirle che non avrebbero più potuto vedersi. Era lì a dirle che tutto era finito, che forse non era mai cominciato. Le era impossibile accettare questo imprevisto assoluto. Non aveva mai preso in considerazione l'ipotesi neppure come lontanissima, neppure come pensieraccio vendicativo nei tanti momenti di litigio e nei non pochi momenti di sconforto. Piantata così su due piedi, senza scuse. Lui non era più bello e desiderabile: i tratti del suo volto sembravano cambiati, erano quelli di un qualsiasi delinquente che stanco della solita donna la scarica da un momento all'altro. “Dai, parliamo un po'” le disse, come se le chiacchiere per distrarsi attutissero un dolore. Le lacrime le rigavano il trucco, il bel vestito sgualcito e spiegazzato da quei cinquanta metri di corsa, le scarpine carine sporche, la borsetta ammaccata e graffiata dall'impatto col muretto conservava le strisce di intonaco: il suo aspetto era quello del dramma più nero e più inaspettato. Con la voce rotta e la gola dolorante, gridava ancora “no, non è giusto! ma perché?” Ma non chiedeva una spiegazione, non chiedeva un perché. Lui sarebbe andato via già da tempo, ma sentiva che i passanti curiosi sarebbero stati pronti a chiamare la polizia e vigliaccamente cercava di contenere la disperazione di quella poveraccia, scopata e sfruttata per due anni e otto mesi e appena gratificata del più funesto regalo di Natale che una donna innamorata possa immaginare. Allontanandomi, ripongo il telefonino nel tascone del cappotto. Sta' tranquillo, vigliacco merdoso, non chiamerò i carabinieri se non sentirò urla più convincenti. Squallido merdoso, la tenevi solo come giocattolo da scopare e proprio oggi che lei aveva cominciato a sospettare dell'esistenza di un altro giocattolo l'hai scaricata. Lei voleva essere rassicurata da te e tu l'hai scaricata; lei voleva veder sparire il piccolo dubbio attraverso le tue scuse, e tu l'hai piantata. Avevi una faccia più fredda di un cadavere, avevi una determinazione da boia di professione. L'avevi inseguita per quelle poche decine di metri perché temevi che lei facesse un gesto insano: non era di lei che ti preoccupavi, ma del tuo buon nome, della tua immagine, della tua tranquillità. Sei solo un vigliacco merdoso.
Mi strazia veder piangere una donna delusa dal suo uomo. Vorrei tanto avvicinarmi a lei e fare qualcosa per consolarla, ma cosa? Come si può consolare un cuore affranto, un cuore deluso di una donna che si è accorta di aver amato un vigliacco merdoso? Quali parole possono diminuirle il dolore, quali gesti?

martedì 21 dicembre 2010

In una qualsiasi azienda o istituzione, ai vertici dovrebbero esserci persone che conoscono talmente bene il mestiere da fare le scelte giuste al modo giusto. Invece ci sono degli emeriti ignoranti. Considerano le persone come pedine su una scacchiera, intercambiabili, sacrificabili, rimpiazzabili. Considerano gli oggetti come mattoni elementari, sicuri, certificati, componibili. Bisogna andare lì? Si prenda un treno. Non sanno che c'è lo sciopero dei treni. Non sanno che i treni ritardano. Non sanno che l'ora di viaggio in treno è da sommare, oltre che ai ritardi, anche al tempo materiale necessario per andare in stazione, uscire dalla stazione, trovare il binario giusto, trovare l'uscita giusta. Il treno arriva alle 15 in punto? Ci vogliono almeno cinque o sei minuti per arrivare al punto dove ci sono i taxi. Anzi, ce ne vogliono dodici, perché la tua vettura era una delle ultime e quindi hai dovuto camminare per qualche centinaio di metri in più. C'è una corsa di metropolitana ogni due minuti? Loro dicono “ogni trenta secondi”. Poi ci metti sette minuti solo per scendere dal livello strada al binario, e lì trovi un'attesa “prevista” di quattro minuti. Trovi il treno pieno fino all'inverosimile perché non passavano da alcuni minuti (e perciò si è formato l'effetto fisarmonica). Sei costretto a prendere il treno successivo. Il viaggio non dura i dieci minuti che il capo aveva preventivato, ma dura ventotto. All'uscita è un problema perché c'è una folla mai vista (proprio quel giorno? o è così tutti i giorni?) Non ditemi che avevate calcolato il treno alle 15 e l'appuntamento alle 15:10. Non ditemelo. Lo so già. Quel viaggio di un'ora di treno è durato due ore abbondanti. Quei dieci minuti di metropolitana, sommati i tempi intermedi e i piccoli inconvenienti, è durato un'ora abbondante. Se il vostro dipendente arriva lì alle cinque passate, non è colpa sua ma è colpa delle vostre stime ossessivamente ottimiste: “treno? poh, un'ora e sei lì... metro? bah, dieci minuti e sei là”. Considerate le persone come pedine su una scacchiera e perciò considerate anche gli oggetti (treni, computer, autovetture) come pezzi che in un “poh” e in un “bah” risolvono i vostri problemi anziché crearvene. “La prossima volta noleggeremo un'auto” dice con fare nervoso un altro dei capi. E allora il traffico? I tempi morti dal distributore? I tempi morti per ricevere e per riconsegnare l'auto? E se l'auto si dovesse guastare? E se succede un incidentucolo come un tamponamento in pieno centro? No, niente. I capi ragionano per figure mitologiche: il “poh” e il “bah”. Tutto è risolvibile. “Ma lì basta tenerci un computer che faccia questo”. Sì, il computer che ragiona da solo come vogliono i capi. Ci vuole una persona che faccia funzionare il computer. “Poh, trecento euro, lo si compra al supermercato”. Già: quanto tempo ci vuole per comprare un computer e metterlo in condizioni di operatività? Non meno di un giorno di lavoro. E se poi il computer vien fuori difettoso? E se poi qualche pezzo non si riesce a collegare alla rete aziendale? E se poi prende un virus? No, per i capi tutto è facile: “bah, che ci vuole? basta comprare uno di quei computer economici, duecento euro scarsi”. Facile essere ottimisti: basta dire “poh” e “bah”. Poi vai al supermercato e scopri che il più economico costa cinquecento euro. Telefoni al capo (a tue spese!) e lui ti sgrida perché “non può essere, guarda bene!” Capo, l'offerta speciale è di 499 euro, e l'unico al di sotto di questo prezzo non ha la memoria che avevate stabilito nella riunione. Altre sgridate (sempre a mie spese!) Ok, provo nel negozio di informatica dopo l'incrocio. Un'ora già persa (eppure “poh, che ci vuole? dieci minuti, vai lì, lo compri, lo porti qui”). Negoziante: “abbiamo questo da 399 euro in offerta speciale”. Altra telefonata, altra sgridata, stavolta con l'ordine di prenderlo. Già immagino nella riunione successiva, quando si accorgeranno di aver sforato su tutti i “poh” e su tutti i “bah”. Si accorgeranno che tutto è costato il doppio (sia in termini economici che di tempo che di persone da utilizzare), ma non saranno capaci di far tesoro della lezione. Non saranno capaci perché non lo sono mai stati. È tutto un “poh” e un “bah”. Saranno capaci solo di dire: “riduciamo il gruppo di lavoro da così a così”. Prima sprecano in mille rivoli e poi tentano di rifarsi sul punto più debole, cioè su noialtri che compiamo materialmente il lavoro e che veniamo utilizzati perfino come galoppini da supermarket.
La scorsa notte mi sono svegliato senza motivo. Saranno state le due. Incurante del freddo mi sono affacciato a guardare le luci della notte. Qualche rumore di ciclomotore, automobili, camion. Un paesaggio “metropolitano” che però ti fa desiderare di vivere in qualche sperduta campagna, dove anziché i cilindri dei motori senti il rumore di qualche timida bestia, anziché le luci delle case (e qualche televisore acceso) vedi solo le stelle e qualche lontano lampione. La notte è fatta per dormire ma quando ti svegli alle due del mattino e non riesci a riprendere sonno, significa che hai nostalgia di un mondo più tranquillo.
“Un altro racconto. Devo comporre qualcosa su un ragazzino che tiene su una banda di barbari distruttori. No, la banda più grande della città. Una città enorme e cupa, un desiderio di emergere e di vincere. Vincere la noia della vita. Devo scrivere un racconto violento solo per rappresentare il mal di vivere? Deve essere per forza un ragazzino solo perché il lettore lo identifichi con sè stesso a causa della propria sete di ringiovanire? Un racconto che non serva a sognare: deve essere un racconto che istighi a ricreare la realtà, come se fosse la rappresentazione simbolica della realtà da ricostruire. La banda ai suoi ordini sono le virtù che non riconosci. La città è il mal di vivere. Gli amici sono la nostalgia della purezza mentre ci divincoliamo nella malizia. Gli scontri sono un modo per dimostrare di esistere. Sarà un bel racconto. Sarà quel che una volta erano per i nostri nonni i racconti di pirati, tesori e avventure. Sarà. Chissà se sarà”.

lunedì 20 dicembre 2010

Dopo la Grande Delusione cominciai a fumare. La Grande Delusione mi aveva lasciato con una strana posizione delle labbra. Innaturale, tesa. Ferma. Un'espressione di perplessità stampata con chiarezza nel mio volto, particolarmente nella bocca e negli occhi. Con le labbra così, leggermente scostate, era naturale metterci una sigaretta. Non ero mai stato attratto dal tabacco, prima. Ma adesso, come per vendicarmi della Grande Delusione, piazzavo una sigaretta. Ero lì dal tabaccaio per un motivo che non ricordo più. Indicai l'ultimo pacchetto di sigarette di uno degli scomparti alle spalle dell'anziana donna vestita di un rosso cupo senza proferir parola. Lei lo aggiunse alle altre cose e disse il prezzo. Pagai ed uscii silenzioso, senza batter ciglio. Non so perché ma avevo con me dei fiammiferi. Una persona normale che non fuma non porta i fiammiferi con sè. Io in quel momento li avevo. Aprii lentamente il pacchetto di sigarette e ne tirai fuori una. La posi tra le mie labbra, come sigillo per la paresi dovuta alla Grande Delusione. Passeggiai per un po' prima di accenderla, come se tra me e me fossi stato curioso di vedere se l'urlo sordo che avevo dentro me l'avesse fatta gettar via all'improvviso. Invece, come obbedendo a un ordine scritto, l'accesi. Un saporaccio orrendo invase la bocca e fu l'ultima volta che fui tentato di gettar via una sigaretta. Sono passati sei anni, ventidue giorni, sei ore e trentaquattro minuti dalla Grande Delusione. La bocca, da qualche tempo, è tornata alla normalità. Ma l'urlo che mi porto dentro per l'ingiustizia che mi toccò subire è ancora grande, è grande come quel giorno. L'enorme tributo di sigarette mi ha forse raddrizzato la bocca ma non mi ha mai sanato neppure di un millesimo.
Si accarezzava la pancia mentre attraversava il corridoio sorridendo. Una pioggerella confortante, il pigiama pulito, il letto caldo che lo aspettava. Avrebbe dormito tutto il pomeriggio; la pioggia si faceva più intensa, il letto si faceva più caldo. Si sistemò per bene, preparandosi accuratamente al letargo. Socchiuse gli occhi un'ultima volta, per assicurarsi di essersi tappato in casa per bene, mentre fuori diluviava. Dieci minuti più tardi squillò il telefono che aveva dimenticato di spegnere: era una notizia di morte. Non poteva più rimanere lì. La pioggia non poteva valere come alibi. Fu il week-end più straziante e defatigante della sua vita.
Nel miglior anno della mia adolescenza ero innamorato perso di quella ragazza. Ce l'avevo in pugno, come si suol dire. Avrei dovuto solo farle capire che ci stavo. Gita scolastica, cena al ristorantino ungherese. Con un'abile mossa riesco ad ottenere uno dei rarissimi tavoli da due persone e a sedere di fronte a lei, solo io e lei, mentre gli altri (voglio sperare) non facevano troppo caso a quel che ci dicevamo. Lei, quasi tremante, mi chiese: “allora, cos'è che volevi dirmi?” Ci servirono un brodino grigio. Il cameriere si allontanò e lei, con l'ultimo brandello di coraggio e di speranza che aveva, tornò per un'ultima volta all'attacco: “dai, volevi dirmi qualcosa?” Forse sarebbe bastato uno sguardo. Non riuscii neppure a guardarla. Fino alla fine della cena. Non so quante parole pronunciai nella mezz'ora successiva. Forse due, forse tre in tutto. Qualcosa mi bloccava, non so più cosa. Non era quel brodino malefico. Forse non erano nemmeno le occhiatine interessate da parte del resto della classe. Nel ripensarci mi vengono quasi le lacrime perché a distanza di anni ho capito tantissime cose della mia vita, ma quell'impossibile silenzio non l'ho mai capito. Non so perché restai così, di sasso. Non so perché evitai di servirmi di quell'occasione fornitami su un piatto d'argento. Non so. So solo che non so. Oggi, dopo tanti anni, poteva essere mia moglie. Oggi sono single, così come sono sempre stato da quella sera. Lei era lì ed aspettava un mio monosillabo. Avrebbe abbassato lo sguardo e trattenuto sorrisi e lacrime. Lei ci teneva tanto, forse ci teneva ancor più di me. È terribilmente poetico, doloroso e grandioso allo stesso tempo, gradevole e pericoloso nello stesso momento, innamorarsi di una compagna di classe mentre nessuno fa il tifo per te e per lei. Ero lì, bloccato, bloccato nel corpo e nella mente e nel cuore. Era la donna che avrebbe cambiato la mia vita. Tre mesi prima della maturità, il tempo di lasciarci invidiare dai compagni di classe e cominciare un'estate insieme e una vita insieme. Niente. Silenzio. Un blocco improvviso. Lei non me lo ha mai perdonato. Dopo quella cena mi evitò con sempre maggior durezza. Dopo la maturità trovai una scusa per incontrarla, lei fu formale come con uno che non avesse mai visto prima. Poi è scomparsa completamente. Un paio d'anni fa ebbi notizie di lei, vaghe e frammentarie. Non ho idea di quanto dolore io possa averle provocato. Non lo so, non ho idea, ho paura perfino di scoprirlo. Anche lei probabilmente è ancora single (non so se sono io che lo spero, o forse lo temo, oppure fu solo una mia approssimata deduzione da quel che mi riferirono un paio d'anni fa). Poteva bastare un solo sguardo, poteva bastare una sola parola, saremmo stati insieme per tutta la vita. Poteva, poteva. Poteva.

venerdì 17 dicembre 2010

Non ne posso più di quest'aria natalizia. Tutto è così fastidiosamente natalizio.
Quella volta Babbo Natale mi gratificò un giocattolo stupendo. Non era esattamente il modello che avevo chiesto: il budget di Babbo Natale doveva essere inferiore a quel che avevo previsto. Oppure Babbo Natale non aveva saputo imbroccare la vetrina giusta del negozio giusto, che pure mi ero affannato a segnalare. Accettai comunque di buon grado l'aggeggio e mi immaginai pilota provetto mentre venivo lasciato solo in compagnia del mio giocattolo, ebbro di contentezza come un giovane sposo che arriva casto alla prima notte di nozze. Poco meno di tre giorni dopo il giocattolo era rotto. Piansi più per rabbia (non potevo accusare altri che la mia distrazione e la nota fragilità di quell'arnese) che per dolore. Avrei a lungo fantasticato ancora di essere un pilota provetto, ma stavolta senza il giocattolo adatto. Avrei fantasticato e basta. Avrei sognato senza lo strumento adatto per quel tipo di sogno. Ancora molte settimane dopo speravo in cuor mio che si trovasse qualcuno (un negoziante? un laboratorio specialistico?) capace di aggiustare quell'aggeggio. Sognavo ad occhi aperti che mi dicessero: non si può aggiustare per cui ti diamo il modello più avanzato (che era esattamente quello che avevo domandato a Babbo Natale): quella sì che sarebbe stata giustizia, seppure a prezzo di tanti giorni di dolore. Ma non ci fu niente da fare. Per mesi conservai quel cadavere di plastica, per poterlo ancora guardare e sognare (quel poco che si poteva ancora sognare con un giocattolo inutilizzabile), finché per un po' di tempo smisi di tornare nello sgabuzzino a coccolarlo. Mi accorsi per caso, molto tempo dopo, che non era più lì. I miei avevano fatto sparire quel pezzo di spazzatura costato a me tanto dolore e a loro la sensazione di aver fatto bene a comprarne uno economico vista la rapida morte. Ma lo ricordo ancora oggi, ricordo il colore, la forma, lo ricordo come se lo avessi visto un minuto fa, ricordo la sensazione al tatto, la gustosa sensazione che mi dava sfiorandone la plastica (che non era di qualità ma era comunque del giocattolo e quindi per me aveva decisamente valore). Non era il migliore per sognare di essere piloti, ma era il mio, era di mia proprietà, totalmente e unicamente mio. A volte mi domando se l'esperienza di veder nascere un proprio figlio desse ad un padre altrettanto movimento del cuore.

giovedì 16 dicembre 2010

Quanto più sono incravattati tanto più sono inutili. Hanno fatto studi, corsi, master, detengono lauree, diplomi, specializzazioni, ma in fin dei conti sono dei cafoni. Tutta la scienza che hanno acquisito è uno sterile nozionismo. Il loro mestiere è prendere decisioni insindacabili. Vengono strapagati (minimo il triplo di quanto viene faticosamente elargito a me) solo per manifestare, di tanto in tanto, un atto di volontà. Sapendo che la loro vita lavorativa è vuota, la imbottiscono di inutilissime riunioni, defatiganti riunioni, noiosissime riunioni, riunioni su riunioni. Tempo non solo perso, ma vissuto malissimo. Per loro, ed ancor più per noialtri che siamo chiamati a parteciparvi. Interminabili discorsi riassumibili nelle solite tre o quattro frasi: “siamo in ritardo”, “dovete risolvere tutti i problemi”, “bisogna accelerare i tempi”, “oh no c'è di nuovo qualcosa che non va”. La mia non è neppure invidia: è solo un senso di impotenza totale di fronte ad un'ingiustizia totale. Obbedendo alle loro decisioni vedi affondare la barca, e non puoi permetterti di disobbedire. Il mestiere dei decisionisti, posti lì a comandarci per chissà quale magia, incapaci di comprendere il nostro lavoro, divenuti arroganti (coloro che non lo erano già) perché non si può vivere di impunità per anni ed anni senza che il vizio prima o poi non esploda. Decisionisti senza responsabilità: anche se sbagliassero, la colpa è nostra e del resto del mondo. Parassiti veri, strapagati per ostacolarci.

mercoledì 15 dicembre 2010

C'è una cosa che non capisco. Perché quando si parla di licenziamenti, siamo sempre minacciati noi che materialmente lavoriamo? Perché non rischiano mai il posto quegli inutili dirigenti e quegli inutilissimi commerciali? I primi non fanno altro che “prendere decisioni”. Ci vogliono così tante persone (e chissà quanto ben pagate) per “decidere” cose all'altezza di un adolescente? I secondi non sono altro che degli inutili passacarte. Ci vogliono così tante persone (e chissà quanto ben pagate) per passare carte? Questi ultimi lavoreranno (si fa per dire) un'ora al giorno in totale (quando c'è veramente parecchio da fare). Quelli che “prendono decisioni” sforzeranno le meningi per tre minuti al giorno (quando c'è veramente tantissimo da fare). E allora? Quando l'azienda deve snellirsi, vuole snellire sempre partendo da chi materialmente produce qualcosa di concreto? Perché? Abbiamo torto a pensare che la lobby dei passacarte e dei pensatori decisionisti sia fatta di bestie feroci che si proteggono a vicenda contro noialtri che materialmente produciamo? Come fanno quei nullafacenti a non rendersi conto che il loro ricco stipendio è garantito proprio dalla fatica di noi che produciamo? Togliendo di mezzo noi, è come uccidere (per fame) la gallina dalle uova d'oro. Se l'azienda licenziasse uno di loro, risparmierebbe l'equivalente di almeno due o tre di noi, senza ridurre assolutamente la “produzione”. Un passacarte in meno non è un dramma. Figurarsi un pensatore decisionista pensoso e incravattato, parassita per eccellenza, capace solo di indire riunioni per farvi comizi interminabili, prolungarle fino allo svenimento per noia, esporre quelle orrende cravatte cinesi pagate come se fossero italiane, e decidere della nostra buona e cattiva sorte come se noi fossimo delle stupide pedine su una stupida scacchiera.
No, ora me lo devi spiegare, me lo devi spiegare subito. Chi è stronzo? Hai gridato “questo stronzo!” e qui dentro ci siamo solo noi due. A chi ti riferivi? Chi è lo stronzo, tu o io? Come sarebbe a dire che hai detto “così per dire”? Per chi mi hai preso? Prima ti lasci sfuggire ciò che veramente hai in cuore e poi cerchi miseramente di rimediare alla figuraccia che hai fatto, invitandomi con quelle parole ad essere ipocrita quanto te?

martedì 14 dicembre 2010

“Sono una di quelle! Sono una di quelle!” le scrisse la donna. “Vado con tutti! Lo faccio con tutti! Con te e con Enzo e con gli sconosciuti!” Era furiosa: voleva che lui si rimangiasse la parola, a costo di pronunciare anche il dolorosissimo nome di Enzo. Voleva fare “con tutti” e di testa sua, ma senza essere etichettata “una di quelle”. Si illudeva che “spassarsela” fosse non solo diritto inalienabile di ogni donna, ma fosse anche esatto sinonimo di quelle certe cose che si vedono in quei certi film. Così, quando uno innamorato di lei tentò di dirle di non comportarsi come “una di quelle” (lo aveva detto più per gelosia che per buon senso), lei si era scatenata come un cane idrofobo. E lui, che aveva chiuso in tempo la telefonata perché addolorato e stanco, cominciò silenziosamente a piangere qualche attimo dopo perché gli era appena arrivato il violentissimo messaggino: “Sono una di quelle!”
La mia vita è costellata di mancati pagamenti. Nel senso che prima mi è stata promessa una ricompensa e poi non mi è stata data per intero, oppure non mi è stata data per niente. (E magari il lavoro richiesto, nel frattempo, si era ingigantito rispetto alle richieste iniziali). Questo mi è successo fin da piccolo, cioè fin dalla scuola. Ognuno dei professori aveva sempre i suoi alunni preferiti che meritavano un voto alto anche se avessero soltanto starnutito. Io non ero tra i preferiti di nessuno, mai nessun professore mi ha preferito, neppure i supplenti. Metà della classe era nelle mie stesse condizioni, ognuno di noi si sentiva un brutto anatroccolo in attesa del momento del riscatto, momento che non è mai arrivato per nessuno. Era inutile studiare perché oltre la sufficienza era impossibile andare. Ricordo in più di una occasione l'aver studiato tantissimo, imbottendomi di stupide nozioni per presentarle esattamente come voleva l'insegnante, subire un'interrogatorio più che un'interrogazione, e infine vedere quella zitella isterica darmi una sufficienza stentata. Due minuti dopo uno stronzetto al primo banco fa una osservazione intelligente (“intelligente” nel senso che pareva tale alla vecchia megera) e prende un voto più alto del mio. Non so come, restai impassibile di fronte alla scena. Ma in cuor mio giuravo che non avrei mai più studiato letteratura italiana. Mi sono spaccato per giorni, settimane, a studiare quelle noiosissime pagine. Le avevo studiate per bene, per prepararmi a quella interrogazione di fuoco come tu comandi, utilizzando il tuo gergo e assecondando tutte le tue manie. Ho studiato pregustando il momento in cui avrei detto ai compagni della “metà dei mal pagati”: vedete? costa un grosso sforzo, ma si può sfondare il maledetto muro della sufficienza e andare più in alto, invadendo anche per un solo giorno il territorio dei nobili aristocratici che prendono voti alti senza studiare. Invece no. Nessuna soddisfazione. Solo un misero elogio di incoraggiamento che fu tanto più umiliante in quanto detto con distaccata formalità.

lunedì 13 dicembre 2010

Poche cose ritemprano lo spirito come una lunga passeggiata serale, per le strade poco illuminate di periferia, sotto una pioggia che fiaccamente picchietta l'ombrello. Le automobili dei benestanti che sfrecciano, le lontane luci delle case che tradiscono la luce dei televisori e i preparativi della cena, quella gradevole solitudine che ti avvolge e ti accompagna, solitudine stavolta morbida e desiderata, silenziosa e soffice, quella solitudine che per una volta tanto non è la tenaglia che stringe il cuore ma è la boccata di aria pura dopo una settimana di velenose battaglie. E a casa non ti aspetta altro che un letto caldo ed un pezzetto di qualcosa da scaldare nel microonde. Una sensazione unica. Ci vorrebbe una pioggia del genere ogni venerdì sera.

venerdì 10 dicembre 2010

Ricordo di quando da piccolo ebbi come regalo di Natale un gatto. Uno dei ricordi più belli della mia vita (il momento in cui l'ho ricevuto) e due anni dopo uno dei ricordi più tristi della mia vita (il momento in cui scomparve nel nulla, presumibilmente ammazzato). Oggi ancora mi vien nostalgia di quei momenti in cui mi limitavo solo ad osservarlo mentre esplorava, andava a caccia, si lavava, mangiava, dormiva... Eppure era una bestia pelosa, niente di particolare. Tanto affetto per una bestia, tanto affetto che ci riesce così difficile esprimere a persone reali. Forse perché le persone sono talvolta più bestie delle bestie stesse. O forse perché siamo troppo spesso incapaci di amare sinceramente qualcosa che non sia meccanicamente prevedibile.
Se fosse per me abolirei il Natale. Quanto odio quest'ipocrita aria natalizia, tutta festoni babbonatale e falsa allegria. Una noia mortale, il Natale. Non sono uno Scrooge che odia il Natale perché si sente solo. Non mi sentirò solo: troverò, volente o nolente, compagnia per “far passare” la giornata di Natale. Ma è proprio questo noioso obbligo babbonatalesco che mi dà sui nervi. Nei giorni di feste comandate (comandatissime dalla TV) il mio unico desiderio è una passeggiata solitaria in qualche luogo disabitato (sì, a Natale si possono trovare luoghi disabitati perché tutti sono impegnatissimi nel “festeggiare” una casellina rossa del calendario).
Conosco un ragazzo “molto bravo col computer”. Sa organizzarsi video e canzoni e film e fotografie come nessun altro sa fare. Spende un numero impressionante di ore per organizzarsi, archiviare, installare... Ma un film, una volta che lo hai visto, ti serve ancora? Quanti sono i film che vale la pena rivedere? Quel ragazzo comincia a guardare il film ancor prima di averlo, ancor prima di aver finito di scaricare. Una volta scaricato e visto tutto, lo masterizza. Ma poi? Quella pila di vecchi e stupidi film, a che serve? Ha bisogno di computer sempre più grandi e potenti per non perdere nulla del suo enorme archivio di film e di video. Ma poi? Quand'è che ti verrà voglia di rivedere quel tal film dove c'era quella tale scena interessante? (e tutto il resto del film era da buttare). Poi, “rivedere” cosa? Non ricordi più neppure i titoli dei film che hai visto quattro o cinque mesi fa, figurarsi quelli che tieni archiviati ormai da sei o sette anni. Molte persone vivono come se lo scopo della propria vita fosse il perder tempo a organizzare il proprio divertimento e per un'ora di divertimento spendono una settimana di organizzazione. Anche quando il novantanove per cento dei film, ancor prima che cominci, ti annoia perché non ti ispira niente di veramente nuovo.

giovedì 9 dicembre 2010

Mi intristisce vedere certe persone raccogliere una quantità notevole di registrazioni video della propria vita. Ogni ora di registrazione ti costerà un'ora, in futuro, per rivederla tutta almeno una volta. Allora perché registri? Sarà bello sapere che tieni conservati tanti ricordi. Ma quante volte hai riaperto in vita tua, spontaneamente, l'album delle foto delle tue nozze? Escludendo il momento fastidiosissimo in cui lo mostravi ad amici e parenti (che erano lì per il rito del vedere le fotografie solo per gentilezza, solo perché è una tradizione ancora non soppressa). Quando apriamo un album di ricordi, anche se sono dei bellissimi ricordi ci viene sempre un magone. Quando sono dei brutti ricordi ci ispirano rabbia, quando sono dei bei ricordi sembra sempre che ci manchi qualcosa, vien sempre il desiderio di tornare a quegli anni per riviverli di nuovo senza commettere gli stupidi errori che caratterizzano la vita di ognuno di noi. Raccogliere ricordi è triste.
Ho capito cosa sono i veramente i capricci quella volta che una donna, incapricciatasi di una stupidaggine, preferì perdere in un sol colpo tanti amici pur di non rinunciare al suo capriccio. Quelle che chiamiamo “questioni di principio” spesso sono in realtà soltanto dei capricci travestiti con eleganza. Anzi, dirò di più: le questioni di principio probabilmente non esistono. Ogni principio, essendo un concetto astratto, può essere messo da parte per un minuto. La realtà vale più di tutti i discorsi e vale più di tutti i concetti astratti. Di fronte ad un pericolo (e ancor più di fronte a qualcosa che ci piace tanto) siamo fin troppo disposti a mettere il resto del mondo da parte. L'uomo è composto per il 70% di acqua e per il 99% di capricci.

martedì 7 dicembre 2010

Hanno scoperto che fumo anch'io. Sigari. Eppure erano sigari sottili e anemici, sembravano sigarette. Ma mi hanno scoperto mentre maldestramente lasciavo cadere la cenere. Quindi non posso più inveire contro il fumo. Non posso più ruggire contro le sigarette, contro i danni del tabacco, contro l'assurdo vizio del fumo. Specialmente nei confronti di quella donna, che fuma così tanto solo per capriccio, solo per apparire emancipata, come se fossimo ancora fermi a cinquant'anni fa. Le avevo sempre contestato il fatto che fumasse, con modi sempre gentili ma purtroppo mai abbastanza convincenti, e qualche volta con modi un po' meno gentili perché fumava non lontano da me e la puzza del fumo mi arrivava proprio addosso. Ora che mi hanno scoperto fumare un sigaro (l'unica volta che ne fumavo uno, l'unica volta che ho ceduto alla tentazione, l'unica da quando ero ragazzino!) ho perso tutta la mia autorità perché aprono ogni discorso con “parli proprio tu che”. Parli proprio tu. “Parli proprio tu che”. Come se il vizio del fumo fosse criticabile solo da chi non ha mai fumato in vita sua. Che ipocriti.
C'è una scena che credo di aver visto in più di un film: una giovane si accorge, imbarazzatissima, di essere incinta; cerca di contattare quello che può essere il “padre” sperando che questi si prenda le sue responsabilità. Tipicamente il “padre” si limita ad umiliarla e respingerla per sempre, talvolta impreca contro il fallimento o l'assenza degli anticoncezionali. La giovane incinta teme il cambiamento di vita che comporta l'accettare il figlio, teme di essere pubblicamente svergognata come ragazza facile, distratta, ingenua (cioè teme la verità), teme le conseguenze e le fatiche necessarie a “sbarazzarsi” del problema (cioè il figlio che porta in grembo a causa della faciloneria, della distrazione, dell'ingenuità, del funzionamento naturale degli organi “genitali”, che cioè servono esattamente a “generare” figli). L'uomo, passato il momento di svago con la donna, non ne vuole più sapere: lo prenderanno per ingenuo se accetta di prendersi le sue responsabilità. Lo prenderanno per distratto e facilone se risulta costretto ad un matrimonio “riparatore” (cioè prima eseguono la sequenza di azioni per avere figli, e poi dopo si sposano in fretta e furia per dare una famiglia ai figli). Per cui l'uomo, nella sua natura di forte e coraggioso, scappa come un vigliacco: scappa sempre, fugge mentendo, addirittura se ne ride del “guaio” della facilona distrattona ingenua. Questo genere di scene l'ho visto in più di un film, tipicamente film americani del periodo degli anni '70-'80. Quel tipo di moralismo forse era diretto alle ragazze, forse era un messaggio per convincerle a non essere “distratte” e ad utilizzare tutti gli strumenti che la scienza vende (vende!) alle persone che vogliono tentare di far figli senza riuscirci. Non sono sicuro che ci siano riusciti. La società sempre più “sessuomane” ha raggiunto livelli assurdi, contemporaneamente di neo-bigotteria e di sesso tanto sfrenato quanto idiota. Un capoluogo pugliese detiene oggi il record nazionale delle gravidanze abortite: una ogni tre. Nel migliore dei casi (cioè non volendo considerare le “recidive”) abbiamo che una donna su tre è una stupida facilona che si fa mettere incinta non volendolo. Questo la dice lunga sulle scelte equilibrate e mature, sulla cosiddetta “salute riproduttiva”, sull'attitudine degli uomini ad essere velocissimi solo quando si tratta di fuggire dalle proprie responsabilità, sono bravissimi solo quando si tratta di mentire per salvare la propria reputazione a danno di quella della donna che hanno ingravidato solo per quei pochi minuti di “piacere”. Quei film non hanno sortito effetto né in USA né in Italia.

lunedì 6 dicembre 2010

“Ti conviene licenziarlo subito”, mi disse. “Altrimenti dovremo pagare, pagare e strapagare: ci conviene?” Avevo sempre considerato i miei dipendenti come poco più che numeretti su una tabella. Stavolta, misteriosamente, non riuscivo a cancellare un numeretto. Mi sarebbe costato solo una recita, una delle tante recite della mia vita, quelle in cui facevo la parte del “non posso fare altrimenti”, quella condita dal “dopotutto è meglio per te e per me”, quella che si conclude con l'inoppugnabile “sarebbe ingiusto se non lo facessi”. Non ero fatto per esitare. Tutte le volte che avevo esitato mi era costato caro. “Stai esitando”, mi disse, come leggendomi nel pensiero. “Le persone non sono numeri”, ribattei. “Stai esitando: ci costerà assai caro questo tuo improvviso attacco di bontà da film per ragazzi”. Sbuffai più per esalare le emozioni che il fiato. Poi, mentre ancora mi osservava silenzioso, gli dissi con quanta maggior gravità potevo: “mi faccia trovare tutte le carte pronte”. Assunse un'espressione che voleva essere un sorriso ma pareva invece il solito ghigno dello squalo davanti alla preda bloccata in un vicolo cieco. Voltandomi verso la tabella dei numeretti sul computer mi resi conto che quella era la mia matricola, quel numeretto da cancellare ero io. E quello squillo sempre più fastidioso era la mia sveglia. Nell'aprire gli occhi, mi dissi: “ma perché?” Per fortuna era domenica mattina: non so se ce l'avrei fatta ad andare a lavorare. Fu quello il giorno in cui smisi di fare jogging.


Rivedi la vecchia fiamma della tua adolescenza. Dopo tutti questi anni ha conservato quella bellezza. Le circostanze sono avverse: lei ed un altra vecchia conoscenza sono qui per lavoro, si può parlare solo di lavoro, si può a stento accennare qualche parola sommessa sui cari vecchi tempi. All'epoca ti considerava un appestato da cui stare alla larga, ora invece puoi stringerle le mani come un bambino e perfino salutarla affettuosamente quando ci si congeda. Ma poi pensi: a che pro tutta questa messinscena? Non siete fatti per stare insieme: lei non ne vuole sapere di te, tu non ne vuoi sapere di lei. Quest'attrazione che provi è solo un moto degli istinti e dei ricordi. Istinti e ricordi. Dopo uno sterile scambio di paroloni tecnici e di frasi di circostanza (era pur sempre lavoro), dopo che vi siete congedati, conservi un po' di magone anche mentre ti dici la pura e sacrosanta verità: “non pensarci: domattina l'avrai già dimenticata di nuovo, la prossima donna che vedrai ti distrarrà a sufficienza da dimenticarla”.

venerdì 3 dicembre 2010

Il dramma di un uomo assai ricco è che può scegliere tra tutte le donne che vuole, per cui quando ne sceglie una gli vengono sempre in mente altre che hanno un valore simile se non superiore. Il dramma di un uomo assai poco ricco è che non può scegliere perché viene tenuto a distanza da tutte e quando pure riesce ad essere scelto, è una col complesso da crocerossina che ha deciso di farlo cambiare da così a così. Il dramma di un uomo assai ricco è che la possibilità di scegliere comodamente lo mette in imbarazzo. Il dramma di un uomo assai povero è che l'assenza di possibilità lo mette in imbarazzo. Come insegna la favola di Cenerentola, le donne preferiscono l'agiatezza, in fondo in fondo perché sanno bene che quanto ai sentimenti l'uomo è tipicamente tutto chiacchiere e distintivo. L'uomo straricco è invidiato dagli uomini normali solo per pigrizia: preferirebbero scegliere comodamente la donna da usare e da dimenticare quando non serve più e invece la vita li costringe (non sempre con successo) a mantenere un ragionevole livello di fedeltà e di serietà.
Si parla di un santone capace di leggerti nell'anima, di scrutare nei tuoi pensieri e rivoltarti come un calzino. Quando sento parlare di queste cose mi scappa sempre da ridere. Un santone qualsiasi è solo uno che ha dimestichezza con la psicologia: i venditori di magico unguento di serpente sono sempre esistiti e non ci vuole grande “scrutamento” per capire che i problemi che affliggono la maggioranza assoluta delle persone che vanno da loro sono affari di cuore e, in misura minore, affari di soldi. Quando poi un santone compare quasi all'improvviso, già pieno di notorietà e di seguaci, diventa ancora più facile pensare alla truffa. Il volgo vuole essere ingannato, ergo c'è sempre qualcuno che lo inganna. Nel calderone gli ingredienti sono sempre gli stessi: un po' di religiosità, un po' di effetti speciali, un po' di superstizione (anzi, abbondante) e soprattutto quel tanto di psicologia e di savoir-faire utile per ingannare anche i laureati in psicologia.
Il format degli spettacoli televisivi è così prevedibile che ti sembra sempre di averli visti tutti. Gli applausi degli spettatori sono così prevedibili che ti sembrano un inutile rumore di fondo. Non c'è niente di più noioso e plastificato di un presentatore. Per farci ridere, i comici devono sempre ricorrere alla volgarità perché non sono mai veramente comici.
Ho notato anch'io che i cani somigliano ai loro padroni ogni volta che ne osservi la bruttezza, la stupidità, la cafonaggine, lo snobismo. L'accoppiata cane-padrone raggiunge livelli di somiglianza reciproca tali da far considerare praticamente umani i cani (almeno finché non c'è bisogno di abbandonarli in autostrada per andare più comodi in vacanza).

giovedì 2 dicembre 2010

So che da anni cerchi di ottenerlo. So che hai investito un sacco di soldi per ottenerlo. So che hai sputato lacrime e sangue per ottenerlo. Anche se non mi piace, ho deciso di darti una mano: ho saputo che un amico di un amico può fartelo avere. Perciò ti ho telefonato per dirti che esiste questo amico-di-un-amico che può metterti in contatto con... Ma tu non mi hai ascoltato. Sei talmente calamitato dalla tua idea che mentre ancora parlavo hai già tentato di fare il corto circuito: chi? Dove? Non ti interessa il contatto-dell'amico-dell'amico. Vuoi già sapere dove ottenerlo, per scavalcare le persone e arrivare da solo al traguardo. Non vuoi avere nessuno da ringraziare. Sei talmente avido da non riconoscere che io ti sto facendo un favore, a costo di mettere in moto un mio amico per far mettere in moto un amico di quest'ultimo in modo da arrivare al possibile contatto che potrà presentarti e... No, tu vuoi tutto e subito, mentre ancora stai parlando con me al telefono vuoi tutto e subito e senza intermediari, vuoi fare da solo, parli come se tu fossi capace di ottenere da solo ciò che non sei riuscito ad ottenere in tanti anni. Non chiudo la telefonata solo perché voglio darti una lezione di galateo. Ma non avrai più nessun favore da me (oggi lo dico, e domani invece so già che rischierò di commuovermi nel vederti di nuovo in difficoltà, ma le persone come me sono fatte così).
Quanto mi delizia vedere sui mezzi pubblici il solito cafone (di qualsiasi età, sesso e condizione sociale, ma buzzurro fino al midollo) a cui squilla il telefonino con suoneria cafona al 100% per un interminabile minuto: venti secondi per accorgersi che è il suo, altri venti per trovare la borsa che lo contiene, altri venti per rintracciarlo nella borsa e guardare il numero del chiamante e infine urlare: “pronto?” Gli stranieri si guardano perplessi, non sanno se ridere o se far finta di niente.

mercoledì 1 dicembre 2010

Salvo poche eccezioni gli atei sono divisibili in due categorie: quelli che ce l'hanno a morte con la chiesa (anche quando vogliono usare termini gentili e apparentemente “scientifici”) e quelli che fanno di tutto per dire che se ne infischiano. Io sono una delle eccezioni. Non ce l'ho a morte con la chiesa poiché vedo che si sta spegnendo da sola: andare a messa è ormai un hobby di anziani perditempo, i preti e la gerarchia sono noiosi da morire, i giovani si vedono solo nei megaraduni (uh, quanti preti hanno il grave cruccio di non saper più cosa inventarsi per “attrarre i giovani”). Mi è antipatica solo quella parte di chiesa che commette “falso ideologico”: se sei prete allora fa' il prete, non fare il disk-jockey politicante professore attivista gay eccetera. Però non posso dire di essere indifferente alla chiesa (e nemmeno posso ostentare un'indifferenza che non c'è). Le vetrate di una cattedrale gotica non ci sarebbero state se non ci fossero stati i cristiani. Gaudì e Michelangelo non avrebbero eretto quelle opere d'arte se non fossero stati cattolici. L'arte moderna, non più cristiana, è una bruttura totale. Quelli che ci paiono indifferenti, spesso è solo perché si sforzano di apparire tali. L'altra categoria è fatta di persone che sputano sulla chiesa cercando (quasi sempre) di apparire equilibrati e giusti. Entrambe le categorie sono allarmate dall'esistenza stessa della chiesa, nonostante la chiesa sia in lento ed inesorabile declino e quindi tra pochi decenni il problema non si porrà più.
Ogni tanto sento il bisogno di gridare a tutto il mondo (o ad una specifica parte) un giudizio sentito e sincero: “siete delle merde”.

martedì 30 novembre 2010

Nella metropolitana stamattina ho udito una conversazione tra due donne, di età apparente sui 25-30 anni (mi correva l'occhio perché erano entrambe molto carine, e quindi ha finito per correre anche l'orecchio). Una delle due raccontava all'altra (che mostrava un certo interesse) una settimana passata in un convento di monache. Senza telefonino, senza TV, senza internet. I primi due giorni “da impazzire”, e il resto della settimana di pace e quiete, tra pranzi poveri ma gustosi e un giardino bellissimo. Ne parlava come se fosse una vacanza alternativa. Ha parlato di tutto tranne della vita delle monache. In monastero si prega o no? Non l'ha detto. Si alzava come loro alle quattro del mattino o no? Le monache hanno orari diversissimi da quelli di un villaggio vacanze. Il nuovo trend del perbenismo borghese è la vacanza in monastero. Lì finalmente non si sente più il trillo del cellulare ad ogni momento, finalmente si sta in un posto senza il rumore di fondo della televisione, e c'è tanto da fare che non c'è tempo per inviare scemenze alla propria pagina su Facebook. Da come parlavano avevo però l'impressione che la preghiera non c'entrasse per niente. Da come parlavano pareva che le monache fossero solo delle gentili albergatrici e deliziose ristoratrici. Sembrava che la settimana di monastero servisse solo a spezzare il caotico rumore quotidiano di trilli-telequiz-facebook. A me non importa niente delle questioni religiose, però mi dà un principio di nausea l'utilizzo improprio delle cose. Una volta la vacanza era per riposarsi: oggi si torna dalle vacanze più stanchi di quando si era partiti. Una volta il monastero era per farsi monaca: oggi si va al monastero per avere un albergo silenzioso e senza TV internet telefonini. Ma niente paura: dura solo una settimana.
I livelli di stupidità sono infiniti, ma c'è sempre la gara a chi ne raggiunge uno ancora più alto. Oggi in cima alla classifica c'è il tizio che ho visto nella metropolitana: si è fatto tatuare un codice a barre sul collo. La gente usa i simboli senza conoscerne il significato. Questo stupido, che lo sappia o no, si vuole far qualificare come oggetto comprabile. Che razza di stima di sè deve avere una persona per voler apparire come un oggetto. No, non può trattarsi di ironia o di autoironia. I simboli sono simboli. Se al posto del codice a barre avesse avuto una svastica, cosa avremmo pensato di lui? Cosa si può dunque pensare di lui quando si vede quel codice a barre?
La nonnetta tira fuori un bastone che aveva portato con sé e lo agita minacciosa verso l'impiegato alla scrivania. “Ho famiglia”, dice quello tradendo la paura, “e poi le regole erano tutte nel contratto!” “Ma a me era stato detto che avrei guadagnato e invece ora mi tocca pagare? Voglio subito il responsabile, rivoglio indietro i miei soldi!” “Ma io sono solo un impiegato”, piagnucola tremante, “io devo solo far andare le pratiche così come scritto nei regolamenti, io non ne ho colpa!” dice cercando con la mente un trucco per scaricare la responsabilità su qualche persona inesistente. “Sì, ma chi è il responsabile?” In quel momento finalmente entrarono le forze dell'ordine e bloccarono la donna. “Vacca lardosa, mucca pazza! Sì, mucca pazza!” disse l'impiegato quasi gridando, una volta che tutti furono via; “te lo meriti, non leggi il contratto, te lo meriti!” Il contratto, quello con scritte tutte le clausole in una lingua fumosa e farraginosa che somigliava all'italiano. “Una misera provvigione per pagarmi il mutuo, e poi devo rischiare anche la bastonatura? te lo meriti, cicciona inutile, scarto della società, te lo meriti”. Una misera provvigione, mi danno, per vendere questo Prodotto proprio alla gente come te, che conserva i soldi per imprecisati utilizzi futuri e poi si fa circuire dal primo mago che promette l'affarone per diventar ricchi senza fatica. Una misera provvigione per estrarre i vostri soldi, una misera provvigione per pagare finché vivo la casa in cui ho sempre abitato.

lunedì 29 novembre 2010

Essere figlio unico è un problema serio. Vivi in una gabbia dorata: ti viziano e coccolano ma contemporaneamente ti controllano e ti esaminano. Ogni tuo piccolo dilemma diventa un dramma, ogni tuo piccolo successo diventa un fastidioso trionfo. Se ti capita qualcosa, è tragedia. Un grave problema di salute (forse ancor più che la morte) del figlio unico, specialmente se maschio, è vista come l'apocalisse. Ai tempi delle famiglie “numerose” (cioè con più di due figli) non c'era né l'oppressione delle coccole né il gran dramma al minimo dilemma, non c'era né né l'obbligatorio trionfo ad ogni minimo passo avanti né la tragedia in caso di problemi di salute. Eri parte di una famiglia, i tuoi genitori non ti consideravano il loro unico e grandioso “prodotto” da far fruttare nella società con qualche successo da telefiaba. Non eri schiavo della vanità dei tuoi genitori; nessuno avrebbe sentito gridare con isteria e tono grave: “per Mio Figlio voglio Solo il Meglio!” (quanti “Mio Figlio”, in realtà, si contenterebbero anche di molto meno, pur di non essere testimoni di una pagliacciata come quella?)
Ora si sente nonna. Finalmente, quale onore! Commenta con precisione ed entusiasmo i capricci e le stupidate del nipotino: sapete, lei è la nonna. Nel vedere queste sceneggiate, che dimostrano solo la soffocante vanità della “nonna”, mi vien voglia di elucubrare pomposamente sulla forma delle nuvole o sui gorgoglii d'acqua nel lavello. I capricci del bambino sono solo dei capricci. Se contengono una minima traccia di intelligenza è solo perché il bambino comincia a capire che con determinati comportamenti (pianto ininterrotto, simulazioni di intelligenza) può ottenere tutto ciò che vuole. Il contrappasso è che la nonna (e molto più spesso anche i genitori) sono una presenza soffocante. Specialmente quando si tratta di figlio unico sul quale, per definizione, sono concentrate tutte le sempre più opprimenti attenzioni.
Credimi, ho cinquantadue anni. Sono single per un mio imperdonabile errore di gioventù. Sono single perché più di venticinque anni fa avevo non una ma due opzioni. Una donna dolce e affidabile, ed una imprevedibile con delle curve da far girare la testa. Entrambe sembravano aspettare un mio sì, mi sentivo come un re perché potevo scegliere comodamente. Il giorno prima di dichiararmi alla seconda andai dalla prima a dirle che eravamo ottimi amici e che saremmo restati tali per sempre. Non sapevo che la seconda dopo avermi tanto lusingato stava per dirmi pressappoco la stessa frase. Come io ferii la prima, così mi inguaiò la seconda. Commisi tutti gli errori che possono commettere quelli come me: ricominciare lentamente a corteggiare la seconda, lasciar perdere e poi ricominciare di nuovo, lasciar perdere e poi ricominciare ancora, inalberarmi alla notizia che era già fidanzata... Commisi tutti gli errori che può commettere un single sui trent'anni. Che lo portano a commettere tutti gli errori che può commettere un single a quarant'anni. Ad un certo punto, una decina di anni fa, vedendo tutti i miei amici accasati e con prole, lasciato praticamente solo come il cane del medico dopo la sala d'attesa, non ne potei più e tentai con un'ucraina. Mi sforzavo di inventare qualsiasi cosa che potesse far sembrare amore quel rapporto di reciproco utilizzo. Pur conoscendo il rischio, ugualmente caddi nel tranello e fui piantato non appena smisi di esserle utile. Fu un sollievo sentirmi sgridare dai rari amici rimasti: ti sei fatto piantare perfino da quella vecchia strega? Credimi, a cinquantadue anni e con una vita sentimentale catastrofica, il lavoro che scompare come nebbia al sole, le amicizie sfuggenti, le occhiatacce che mi colpevolizzano, secondo te posso essere davvero uno che viene qui da te a cercare solo parole di conforto?
Da giovane mi meravigliavo di quanta saggezza, intelligenza e scaltrezza potessero provenire da personaggi di telefilm che in teoria avevano un'età inferiore alla mia. Ragionavano e parlavano da veri adulti. Avevano un cuore tutto puro (i buoni) o tutto impuro (i malvagi), daccordo: ma questa è necessità narrativa. Era necessità narrativa anche il dare tante capacità intellettuali a degli adolescenti? La scena più frequente tra quelli della mia età era un composto di piccinerie, vanità, dispetti, meschinità. Di tanto in tanto emergeva un briciolo di serietà e capacità di guardare al di là del proprio naso, ma era l'eccezione. Non credo di aver avuto come compagni di scuola dei barbari: dopotutto erano nella media, ed anche cambiando città e cambiando scuola l'osservazione rimaneva pertinente. L'adolescenza, dopotutto, è un periodo psicologicamente tormentatissimo per tutti. Nei telefilm invece erano saggi e intelligenti (anche se ingenui esattamente quanto richiesto dalla trama), sempre e comunque. Dovevano darci il buon esempio, ma per assecondare i nostri sogni erano non solo “realistici” dal punti di vista del carattere, ma erano anche agiati e fortunati, puliti e ben vestiti, senza altri problemi di vita che non fossero strettamente attinenti alla trama (mi sembrava semplicemente impossibile che avessero tutto quel tempo libero per uscire, flirtare, socializzare, nonostante la scuola e la famiglia).

venerdì 26 novembre 2010

Certi profili Facebook sono riducibili ad una sola frase: “ecco il mio fidanzato”. Decine, centinaia di fotografie in cui lei e lui sono al centro dell'attenzione e sono solitamente gli unici due soggetti di ogni foto. Una donna fiera di avere finalmente un fidanzato stabile desidera naturalmente gridarlo a tutto il mondo, senza accorgersi di essere terribilmente noiosa oltre che alquanto repellente per chiunque voglia intrecciare la più semplice delle amicizie. In genere, dopo pochi anni (talvolta anche prima del matrimonio), questi fidanzamenti così ufficiali, così stabili, così indistruttibili, si sfasciano come un uovo fresco caduto dal balcone del diciannovesimo piano.
Leggo che in Giappone il venti per cento dei giovani ha una tendenza a rinchiudersi in casa e a non avere altra vita sociale che l'internet. Il fenomeno è preoccupante ma quegli auto-reclusi, a parte l'allergia alla vita sociale, sono generalmente persone normali e creative. I giovani italiani hanno la tendenza a fare solo ed esclusivamente vita sociale. Vanno a scuola perché devono far vita sociale coi compagni. Escono di casa per fare vita sociale. Lavorano per fare vita sociale e per prendere uno stipendio (ma del lavoro non gliene importa quasi niente). Tutta vita sociale e niente creatività, assolutamente niente creatività, niente arte, niente cultura, se non la Settimana Enigmistica e qualche annoiata visita a qualche monumento o museo. Gli italiani sono molto più vicini alla barbarie di quel che immaginiamo.

giovedì 25 novembre 2010

Una delle scene che nei film trovo più insopportabili è la violenza sulle donne. Vengono inserite scene di violenza solo per dimostrare che il personaggio malvagio è particolarmente malvagio, il che giustificherà l'utilizzo della peggior violenza possibile e della peggior sequenza mortale finale senza possibilità di sopravvivenza. Nei film degli anni settanta questo ingrediente cinematografico è utilizzato con compiacimento in diversi generi, a cominciare dal western. Per questo è meglio non andare al cinema; i film vanno visti a casa, con comodo e soprattutto col tasto “avanti veloce” per saltare le scene di riempitivo e di violenza gratuita.
Ogni tanto, navigando in internet, mi imbatto in community assurde di gente con manie incredibili. Scopro questa comunità di disegnatori bravissimi. Disegnano per il solo piacere di disegnare: sono degli artisti veri. Molto più bravi di disegnatori di professione. Si radunano lì a parlare dei loro disegni e delle loro manie. Litigano, si riappacificano, si dividono in fazioni... La loro bravura resterà sepolta nel caos di internet. Da piccolo vidi un bambino che aveva inciso su un muretto una scena campestre (molto piccola, una quindicina di centimetri di larghezza). Sapevo che quel muretto doveva essere abbattuto di lì a pochi giorni e per un po' cercai di immaginare in che modo si potesse salvare quel disegno o farne una copia. Poi, non so come, dimenticai la cosa. Anni dopo, passando per quella stessa strada di periferia, vidi che il muretto non c'era più e mi ricordai di quel disegno, pentito di non averlo almeno fotografato. Temo per quella community la stessa fine: i loro disegni spariranno nel nulla e le loro vite prenderanno tante direzioni diverse e la loro passione diventerà uno sbiadito ricordo.

mercoledì 24 novembre 2010

Siamo nel 2010 e ancora si vede nei film la scena di uno che paga un ricattatore per ottenere la restituzione delle foto compromettenti. Che idiozia. Chi ha delle foto compromettenti può passarle al computer e distribuirle all'universo mondo di internet in pochissimi minuti: a che pro pagare per le originali? Chi ha delle foto compromettenti può conservarne copia in cassaforte o presso una dozzina di diversi notai, per poter ripetere il ricatto ogni volta che gli aggrada. Tutte le immagini e tutte le registrazioni audio e video sono duplicabili a costo zero e diffondibili a costo quasi zero. Ormai chiunque abbia un telefonino può scattare foto e conservarle e inviarne copia ovunque.
Ho scoperto una community di persone che si definiscono asessuate. Cioè non desiderano assolutamente rapporti sessuali, nemmeno nell'immaginazione; non è dovuto a problemi morali (e naturalmente non si tratta di persone che detestano ciò che non sono riuscite a raggiungere). Dicono che c'è una notevole percentuale di persone così; dicono di non sentirsi diversi dagli altri ma di avere in orrore i rapporti sessuali. Alcuni di loro sopportano con pazienza la vita matrimoniale. Altri semplicemente vivono senza sposarsi e senza rimpiangere il matrimonio. Molti anni fa, quando l'Italia pullulava di conventi e quando il farsi suora o farsi frate era addirittura motivo di elogio, potevano darsi alla vita di castità vivendo sereni. Oggi invece vengono sottilmente presi in giro sul web e sui giornali, come se fossero dei malati che non vogliono guarire.

martedì 23 novembre 2010

Il gioco del calcio mi è sempre stato odioso. In una squadra i giocatori sono divisi così: quelli che sono incaricati di fare goal e quelli che sono incaricati di proteggere la squadra dai goal avversari. I primi possono solo guadagnare elogi, i secondi devono tentare almeno di non far figuracce. Sembra proprio uno spaccato della società attuale, con i “ricchi” che non hanno nulla da temere (se non la multa per aver parcheggiato lo yacht troppo vicino alla Costa Azzurra) ed i “poveri” che vivono del loro lavoro e devono stare attenti anche alla più stupida delle multe per divieto di sosta. Nel gioco del calcio tutti i miei compagni di scuola ambivano ad essere gli attaccanti pronti a realizzare il sacro goal. Nella vita tutti si sogna di essere ricchi, famosi e senza problemi. Tutti si sogna di essere attaccanti e goleador. Tutti si comportano come se l'umile ma preziosissimo lavoro del difensore fosse una vergogna, fosse un insulto alla dignità.


Quell'orrido film francese, tolta la scena di nudo, è la solita noiosa storia dei carcerieri che simpatizzano per qualche carcerato. Un film da dimenticare, come tutti i film francesi. Un film imbottito di quella che io chiamo bigotteria moderna: i carcerieri sono i cattivi ed i carcerati sono i buoni. Proprio il contrario preciso ed esatto della bigotteria antica. In quest'ultima, il carcerato era sempre “giustamente” carcerato, ed il carceriere era sempre indiscutibilmente sorvegliante ed educatore (su, siamo onesti: il sistema penitenziario, in teoria, dovrebbe essere così). La modernità ha portato un cambiamento di direzione, ma non ha corretto le esagerazioni. Nell'immaginario collettivo i carcerati sono sempre “ingiustamente” carcerati, ed i carcerieri che non simpatizzano con loro sono necessariamente dei cattivissimi da disprezzare (e che solitamente fanno una brutta fine). L'errore nacque nell'Unione Sovietica di Stalin: i carcerati per delitti politici (cioè, nel peggiore dei casi, reati di opinione) erano trattati molto peggio dei detenuti comuni (malviventi, ladri, assassini). Questi ultimi erano etichettati “socialmente vicini”, senza nessuna ironia. Nella cinematografia occidentale dei nostri anni, i “socialmente vicini” godono di uno status privilegiato. Nella cinematografia e spesso anche nei carceri veri. È incredibile il fatto che reati amministrativi vengano puniti più e peggio di assassini e violenze. Quel film francese è un po' uno specchio della bigotteria vera della nostra epoca.

lunedì 22 novembre 2010

C'è gente che disegna fumetti solo per rappresentare i propri sogni. Scrivono storie solo per aiutarsi a sognare meglio. Anch'io ho scritto racconti, ma l'ho fatto per descrivere immagini e situazioni che non volevo dimenticare. Quando li ho scritti, non infilavo eventi e discorsi per far “andare avanti” la trama. Non spingevo io la trama, ma cercavo di seguire i personaggi che mi ero inventato, nella maniera più realistica possibile, come se io avessi davvero creato una vita e la guardassi fiorire. Questa è la virtù degli artisti veri, degli scrittori veri (ma io sono semplicemente troppo misero e ingenuo per poter pensare di vivere da scrittore). I sognatori raccontano i propri sogni. Gli scrittori veri raccontano storie che parlano, storie reali, vissute, vivibili. Per questo i sognatori sono noiosi e gli scrittori veri provocano vere emozioni. Il vero dramma di certi filoni letterari, per esempio il fantasy o la fantascienza, è che togliendo l'elemento di fantasia (come i motori intergalattici o le streghe-lupo della foresta) si ottengono storiette di cronaca, raccontini contenenti misere scene di vita quotidiana, solite gelosie, soliti amori, solite infatuazioni, soliti lieto fine (oppure stupida fine). Sono scritti da sognatori, non da scrittori veri.
Nello sfogliare blog altrui mi meraviglio sempre di quanta gente abbia modo di inserire pagine alle tre del mattino. Cosa faranno mai nella vita, visto che gran parte della notte la passano sempre svegli?

sabato 20 novembre 2010

Una delle cose che odio di più: quando viene sistematicamente messa in dubbio la tua buona fede.

venerdì 19 novembre 2010

Mi sorprendo sempre quando vedo che una donna tira fuori la risposta acida preconfezionata. Fanno di tutto per passare per ingenue sognatrici e poi appena si trovano di fronte ad una qualsiasi banale realtà subito sfoderano parole pungentissime e velenosissime. Lo fanno con tanta dimestichezza che da sempre sono convinto che abbiano un frasario già pronto, a mo' di formule magiche (o esorcistiche, a seconda dei casi). La frase di oggi è: “decido io a chi devo piacere”. Brava! Clap, clap! Così si risponde ad un uomo! Prima fai di tutto per far notare all'universo mondo le tue curve e poi, accorgendoti che il candidato che si avanza verso di te non era nella tua lista, sputi fuori tanto veleno in poche parole. Sorprendente. Le dirette interessate non ci fanno caso, ma assai raramente la bellezza fisica si accompagna ad un basso livello di acidità nel carattere.
Il cosiddetto erotismo è una noia mortale. Nudità stupide e ripetitive condite da un parolame idiota che farebbe sbadigliare perfino coloro che scrivono le frasette dei Baci Perugina. La differenza tra pornografia ed erotismo è che quest'ultimo è assai più noioso.

giovedì 18 novembre 2010

Ogni tanto ripenso a quei cioccolatini che le regalai e mi viene il magone. Mi viene il magone perché mi accorgo di essere colpevole. E' come se l'avessi ingannata: quei gesti hanno un significato, e io il significato lo conoscevo bene (pregustavo infatti l'invidia delle sue amiche mentre le avrebbero detto: “dunque anche tu sei capace di far colpo su un uomo, ancorché misero come quello”). Un regalo dolce e amaro: dolce perché era un riconoscimento della sua femminilità (quanto dev'essere bello per una donna ricevere un regalo che potrebbe essere il primo passo verso lo stare insieme), ma amaro perché lei già intuiva che non avrebbe avuto seguito (quanto dev'essere amaro per una donna vedere che dopo il primo passo verso lo stare insieme vengono cancellate tutte le possibilità di passi successivi). La mia vita sarebbe stata diversa, se in quei cioccolatini ci avessi messo almeno l'ipotesi di essere il suo uomo. Invece tutto finì lì. Mi vien proprio un magone, nel ricordarmelo.
Piangeva a telefono, poveretta, cercando di dirmi quanto fosse disperata. “Ci ho anche fatto l'amore, ma poi se ne è andato lo stesso”. Mi disse questa cosa e io stringevo i denti per non imprecare (per la rabbia, e forse un po' anche per invidia). Lei si era follemente innamorata di quello straniero, che la allontanava bruscamente. Lei era talmente infatuata di lui che ci andò a letto, forse addirittura faticando per convincerlo. Ma lo straniero, dopo essersi divertito ad utilizzarla come giocattolo sessuale, la piantò e se ne tornò in patria. E lei disperata a piangere: alla sua veneranda età, il più grande amore della sua vita spariva. Lei ci aveva “perfino fatto l'amore”: prostituzione non per soldi ma per sentimenti. Avrei voluto dirle che quella brutta lezione se l'era meritata e che doveva anche dirsi fortunata, poiché lui poteva benissimo essere uno di quelli che ne approfittano fino ad annoiarsi e piantarla ugualmente. Lei piangeva ed io lì ad ascoltarla vergognandomi tra me e me di pensare “ma a che aspetta a dirmi che vuole consolarsi con me?” Sfruttatore anch'io. La donna più debole è quella talmente schiava delle proprie infatuazioni da confonderle col sesso (anche se questo è un errore tipicamente maschile). Dopo qualche mese i contatti telefonici con lei si erano fatti talmente sporadici da mettermi a riflettere sull'eventualità di averle detto qualche parola involontariamente offensiva. Oppure sull'eventualità che lei avesse capito dove volevo arrivare (fidanzamento e sesso, o almeno solo un po' di sesso). “Ci ho anche fatto l'amore”, come se il sentimento dell'amore fosse una cosa da “fare”, una cosa da “scopare”. “Ci ho anche fatto l'amore”: questa frase mi torna in mente spesso, specialmente quando qualche uomo afferma di avere le sue “esigenze”, parlando solo per autocompiacersi e autogiustificarsi per il voler utilizzare una donna come proprio giocattolo sessuale. Lo straniero era “straniero” solo per il municipio, ma per il resto era solo un uomo annoiato da una donna che non lo attrae, e che però se la porta a letto dicendosi: “io ho le mie esigenze”.

mercoledì 17 novembre 2010

Mi infastidisce la dimestichezza maliziosa con cui certe giovani parlano di sesso. Dopo un milione di volte che hai parlato di sesso, finisci per diventare un oggetto sessuale a disposizione dei furbi che incontrerai.
Una donna poco attraente che riceve un regalo che solitamente significa ammirazione, un po' si sorprende e lusinga, ma poi soffre. Soffre perché sa che quel pacchetto di cioccolatini non avrà seguito, e perciò sarà prezioso ogni momento in cui ne mangerà uno. Soffre perché sa che le amiche parleranno e sparleranno di lei a lungo, fingendo curiosità per nascondere una strana forma di invidia (che se fossero sincere esprimerebbero così: “non li meriti, solo io li merito, per cui una cosa buona donata a te significa che in qualche modo danneggia me”). Soffre perché sa che quei cioccolatini avrebbero un significato diverso se fossero stati donati ad un'altra donna. Soffre perché sa che se anche ci fosse un seguito, il cammino verso il fidanzamento sarà ugualmente lungo, ripido e doloroso.

martedì 16 novembre 2010

Quella volta che quasi senza motivo le portai dei cioccolatini, lei divenne argomento fisso di conversazione per diversi giorni: le sue amiche morivano dalla curiosità di sapere come aveva fatto una come lei (dall'aspetto fisico tutt'altro che invidiabile) a conquistare il cuore di un uomo (sebbene io fossi un uomo tutt'altro che attraente ai loro occhi). A distanza di anni lo ammetto senza vergogna: quei cioccolatini li meritava. Portandoglieli, sentivo di rimediare (sia pure in minima parte) alle odiose parole che avrà incassato fin da bambina. E poi provavo un piacere smodato nel pensare a quanto avrebbero ricamato e rosicato le amiche chiacchierone.
Ho l'impressione che in ogni fiction debba essere presente una donna amabile che interviene a favore dei protagonisti (destinati immancabilmente al matrimonio) e poi togliersi dai piedi. Sembra che queste fiction suggeriscano che le persone altruiste volontariamente si fanno utilizzare e volontariamente spariscano non appena compiuta la missione. Talvolta alla fine del film vengono maritate a qualche altro personaggio secondario, ma solo per far risaltare ancor di più il matrimonio dei due protagonisti (come a dire: vedete? noi ci sposiamo, e si sposano anche le comparse). Ci vorrebbe un sindacato di queste donne amabili. Le ho chiamate “amabili” perché sebbene la protagonista sia sempre perfetta e virtuosa da tutti i punti di vista, la comparsa che dà un aiuto al momento giusto è semplicemente impagabile. Tutte le virtù della protagonista bellona non valgono una cippa a confronto del gesto semplice e spontaneo della comparsa amabile che compare al momento giusto e al posto giusto. Per questo dico che è “amabile” e che me la sposerei.
Quanto sono simili ai loro escrementi gli uomini che parlano compiaciuti dei loro escrementi!

lunedì 15 novembre 2010

I discorsi “tra uomini” sono un pozzo nero profondo e putrido e sempre più allargato. Mi ci hanno trascinato anche stavolta. Quando sono finalmente rimasto da solo, ho ripensato alle tante cose che ho sentito e alle poche cose che ho detto. Me ne vergogno. Per mostrarsi uomini (socialmente uomini) quando si è tra uomini (animalescamente uomini) si finisce certe volte per accettare di partecipare a quel rito da tribù di barbari. Ma la cosa che più mi infastidisce è quando qualche donna chiede con aria compiaciuta quali fossero gli argomenti di quella conversazione tappezzata di grasse risate. La malizia femminile consolida il tribalismo maschile. La chiave dell'imbarbarimento dell'uomo è tutta nella manifesta malizia della donna.


Talvolta le donne commettono l'errore tipico degli uomini: confondere i confini di sentimenti e sesso. Come uno scommettitore disperato, talvolta perseverano nell'errore per lunghissimo tempo.
Quando in un film c'è la competizione tra la donna bella, intelligente, sensuale, protagonista, e la donna semplice ma amabile, io faccio sempre il tifo per quest'ultima. Certe comparse valgono più degli attori principali. Quando la storia fa “rassegnare” la comparsa tutto sommato amabile (posta lì solo per non dare ad intendere che l'amore tra il protagonista e la protagonista sia automatico), darei un calcione negli stinchi dello sceneggiatore e uno a quelli del regista.
Nel mio lavoro può capitare che il venerdì sera, dopo la fine della giornata lavorativa, nel momento in cui in teoria dovresti già essere a casa e invece sei ancora in azienda, può capitare qualche problema grave ed urgente per il quale dovresti lavorare come un forsennato fino al lunedì mattina. In questi casi divento anch'io un vigliacco (se non altro per legittima difesa, perché anche tutti gli altri scappano il prima possibile). Quando non sono stato vigliacco, ho dovuto subire un week-end di umiliazioni; anche se solo limitate al venerdì sera, succede che tutto il sabato e la domenica sei nel terrore di ricevere telefonate in cui ti dicono che è inevitabile dover correre in azienda a dare una mano (l'umiliazione sta anzitutto nel modo in cui te lo dicono, come se tutti i problemi del mondo fossero stati causati da te).

domenica 14 novembre 2010

Sarei un bugiardo se negassi che la prima cosa che mi colpisce di una donna è il suo aspetto fisico. Ma sarei un bugiardo anche se dicessi che mi interessa solo quello (qualche volta l'ho detto solo per spegnere sul nascere quei soliti “discorsi da uomini”). Questo succede perché non riesco a non domandarmi: “sì, dopo averla portata a letto, cosa resta?” Non resta niente. Resta il ricordo di una sensazione fisica, ma non resta un sentimento (molti uomini vivono come se sentimento e sensazione fisica coincidessero).
Da piccolo scrivevo poesie. Era solo un esperimento: a scuola ci avevano parlato in modo tanto pomposo dei poeti. Carducci, che noia mortale. Scrivevano paroloni, mettevano (e soprattutto omettevano) rime... e poi? Cosa ha di speciale, di artistico, di intelligente, una poesia? Montale è qualcosa che fa cagare, ma proprio cagare duro. Pascoli? Un orrore. La poesia è l'arte più imbecille che esista. L'elogio della poesia è opera di annoiati e malinconici insegnanti di lettere. Da piccolo ho scritto poesie, a mo' di esperimento. Esperimento riuscito: annoiavano anche me.
Quello stupido ha dichiarato sul suo blog che avrebbe sedotto e abbandonato la collega di lavoro al solo scopo di darle una lezione di vita. Quanto vorrei imbottirlo di calci e sprangate. Dove sono quelli che condannano lo stupro? Dove sono quelli che si sdegnano per la violenza sulle donne? Lui e i suoi amici che lo elogiano (e perfino le amiche che commentano favorevolmente la possibile “lezione” per la smorfiosa) non si rendono conto che quello stupido ha manifestato intenzioni prossime allo stupro. Anzi, peggio dello stupro, perché nello stupro c'è solo violenza, nel suo caso invece c'è l'inganno. Il paradosso, in queste situazioni, è che quando si era tutti “bigotti” le donne non rischiavano umiliazioni come quella. Tradimenti e umiliazioni esistevano, ma non avevano la frequenza che hanno oggi.

sabato 13 novembre 2010

Le donne sono come i gatti. Puoi avvicinarle, ma fino ad un certo punto: poi scappano da te. Ogni volta che scappano da te, diventano ancora più sospettose. Infine scopri che si concedono ad uno spostasedie qualsiasi.
Sono un eterno precario. Non soltanto col lavoro ma anche con la vita. Sono nelle condizioni di chi non fa più fatica ad ammettere le proprie sconfitte e si rende conto che anche ammettendole non cambia niente. Mi sento vecchio non per l'età o per la salute, ma per il numero di promesse a cui ho creduto e che non sono state mantenute. Mi sento vecchio perché le donne da cui sono attratto sono tutte già impegnate, oppure mi vedono come fumo negli occhi, oppure si ostinano a vedermi come amico. Mi sento vecchio e precario perché il mio lavoro consiste anzitutto nel convincere i capi che ho lavorato davvero e che sto lavorando davvero. Precario, vecchio e precario: così ho passato i migliori anni della mia vita.
Il sabato e la domenica e nei giorni di festa dormo tantissimo. Dormire serve a ritemprarsi non solo nel corpo ma anche nella mente. Dormire è come fuggire dalla realtà e trovar pace. Una dose settimanale di due giorni di pace, in cui sto in casa disteso sul letto, appollaiato in poltrona, spalmato sul divano. Il massimo del riposo è quando sai che ci sono cento cose da fare, c'è da pulire il lavello, c'è da pulire il frigo, c'è da rimettere il chiodo nel tinello... e, pensando a tutte queste cose, ti dici: “sì, dopo vedrò, stasera, domattina magari, non è urgente, più tardi magari trovo cinque minuti oppure dieci minuti, ma sì, prima di cena”... Mentre pensi a queste cose le palpebre ridiventano pesanti, socchiudi gli occhi, senti già che il sonno ti sta prendendo. Ti copri con qualcosa e ti rilassi, sapendo che la suoneria del cellulare è azzerata e che nelle prossime due ore il mondo non cambierà. Sogni d'oro!

venerdì 12 novembre 2010

Quella di Stanlio e Ollio appoggiati su un baule tenendosi ciascuno la testa con una mano è un'icona del cinema. L'ho vista un attimo fa ed istintivamente ho sorriso. Poi mi sono chiesto: ma perché ho voluto sorridere? Quei due volti ci “comandano” di sorridere. Tutti abbiamo gustato le loro avventure almeno una volta nella vita; tutti abbiamo sorriso per i loro goffi e maldestri tentativi. Nell'immaginario collettivo, quei due “fanno ridere”, cioè “devono” farci ridere. Vedo quella foto e istintivamente sorrido. Sorridere non è ridere: sono due cose profondamente diverse. Ecco il punto su cui rifletto: lo scoprirsi a sorridere e domandarsi il perché. Perché ho sorriso? E' stato un sorridere istintivo. Ho inconsciamente obbedito al comando di sorridere, generato da quei due volti. Eppure, nelle loro avventure e disavventure, c'è oggettivamente poco da ridere. Umiliazioni e fallimenti: cosa c'è da ridere? Ridiamo perché ci sentiamo estranei a quei fallimenti. Ridiamo perché è bello sapere che un determinato guaio, di cui veniamo a conoscenza, riguarda persone tutto sommato lontane dalla nostra vita. Talmente lontane che si può ridere delle loro disgrazie. Stanlio e Ollio, il ragionier Fantozzi, Wyle E. Coyote e tutti gli altri personaggi “comici” catastrofici, ci fanno ridere perché calamitano disgrazie che (evviva evviva) non ci riguardano. Ci fanno ridere perché godiamo delle loro disavventure senza senza doverci accusare di essere sadici.
L'imbarbarimento di una società è un meccanismo lento e inesorabile. Figli maleducati si metteranno insieme per procreare altri figli ancor più maleducati (ed in quantità inferiore), i quali a loro volta si metteranno insieme per eventualmente procreare altri figli incivili (ed in quantità inferiore). Negli anni Cinquanta c'erano ancora le famiglie numerose. Si lavorava generalmente tutti, c'era generalmente assai poco sfascio. Negli anni Sessanta c'erano ancora famiglie ampie. Negli anni Settanta la media calò a due-tre figli. Negli anni Ottanta a uno-due figli. Negli anni Novanta ad un figlio. Negli ultimi anni il figlio, se proprio arriva, è generalmente artificiale: o per fabbricazione in struttura sanitaria, oppure perché utilizzato strumentalmente per ravvivare la coppia. La popolazione diminuisce e nel frattempo viene imbarbarita da un'educazione sempre più inesistente. I nuovi barbari, anzi, i nuovi “africani” (non importa di quale regione d'Italia), vivono solo di telefonini e discoteche, vivono solo di parassitismo e di rendita, vanno a scuola non per imparare ma per socializzare (e vogliono essere promossi senza studiare), vanno a lavorare non per produrre ma per socializzare (e vogliono lo stipendio senza faticare). Le ricchezze messe insieme dai loro nonni (che hanno lavorato sodo per una vita intera) vengono dilapidate e bruciate in poche stupidissime azioni barbariche. Tutto questo mentre una gravidanza su tre viene “interrotta” uccidendo il nascituro.

giovedì 11 novembre 2010

Ci risiamo: la solita ragazza che scrive la solita frase che contiene la solita espressione “fare l'amore”. Ma l'amore si “fa”? Dovrebbe dire “fare sesso” e invece, ipocritamente, dice “fare l'amore”. Inoltre: con centinaia di amici su Facebook che vedono ciò che scrivi, perché mai usi l'espressione “fare l'amore”? Stai insinuando qualcosa? Stai suggerendo che se qualcuno ti si propone per “fare l'amore”, c'è una possibilità che accetti? Visto che scrivi così, o sei una baldracca, o sei un'ingenua. O sei una baldracca perché insinui, oppure sei un'ingenua che non conosce il significato delle parole che usa. Eppure il termine “fare l'amore” è fin troppo conosciuto e usato, nella lingua italiana. Dunque sei solo una baldracca, che ama farsi riconoscere come tale (scrivendo sul “fare l'amore” nel tuo status, stai già provocando e insinuando), che pensa “io non sono una baldracca” solo perché hai deciso di dar poco peso alle critiche come questa che sto esprimendo adesso.
Eccole, le brave ragazze che vanno al mare con gli amici e mettono su Facebook le loro foto in costume da bagno in pose obbligatoriamente allegre e sexy. Al mattino al mare, al pomeriggio su Facebook. Donne dalla doppia morale: tutte pudiche e bigotte quando guardi quella scollatura, tutte sexy e provocanti quando vanno al mare. Ora che ho capito il trucco, non perdo più tempo a guardarle le gambe: vado a sfogliare il suo profilo Facebook. Mi divertirei tantissimo a commentare quelle foto come sul blog (evidenziando il vero bigottismo del nostro tempo, cioè quella “doppia morale” ipocrita e borghesotta), ma non posso permettermi di perdere gli amici. In quest'epoca di cafoni ipocriti, è vietato dire la pura e semplice verità.

mercoledì 10 novembre 2010

“Ma in soldoni?” Quante volte ho dovuto ripetere queste tre parole. Quante volte mi si parla per sottintesi. Quante volte si presume che io intuisca ciò che non si ha il coraggio di dirmi. “Comunque, è un no”. Sì, ma cosa significa materialmente questo? “La risposta definitiva è no”. Risposta a cosa? In soldoni, cosa mi stai dicendo? “Sei licenziato. L'azienda ha deciso che non può più sostenerti”. Azienda? Perché attribuisci all'azienda una decisione tua? Sostenermi? Perché parli come se fosse l'azienda (cioè tu) ad aver fatto fino ad oggi un favore a me, piuttosto che il contrario?
Mentre coprivi furiosamente la scollatura (che ho adocchiato per una frazione di secondo) ero tentato di dirti: ehi, miss spogliarello, sappi che posso benissimo guardare le tue foto su Facebook, dove sei molto più spogliata che adesso. Siamo “amici” su Facebook: hai accettato la mia “amicizia” senza controllare, tanto, con duemila “amicizie” Facebook, non puoi mica perdere tempo a domandarti se conosci già ogni nuovo Nome-Cognome-Foto che ti si presenta come “amico”. Comunque, grazie per le foto in cui sei così svestita. Con gli altri duemila tuoi “amici”, posso guardarti quando mi pare, comodamente, via internet. Quando qualcuno guarda la tua scollatura, come per un tic ti affretti subito a coprirla. Ma tanto c'è Facebook, dove si vede ben più della tua scollatura. Che tristezza queste donne ipocrite dalla “doppia morale”. Puritane e bigotte quando è inutile, baldracche quando è dannoso. Povere sceme.
Nella vita di tutti i giorni provano un fastidio terribile quando qualcuno guarda le parti del corpo che mettono in mostra. Cara miss spogliarello, se hai scelto di mostrare in pubblico quella scollatura, perché tenti di coprirla (più istericamente che pudicamente) quando cogli qualcuno che per una frazione di secondo la guarda? Ma non c'è problema: basta guardare le tue foto su Facebook. Lì sei in bikini, e si vede assai più che da questa scollatura che frettolosamente e furiosamente tenti di coprire. Che c'è? La tua morale ipocrita è essere bigotta in strada e libertina sulla spiaggia? La tua morale borghese è essere pudica in strada e baldracca su Facebook?
Uno dei miei sogni proibiti: passare una notte in albergo con una donna. Non per fare quel che pensate voi (ma sì, diciamo pure “non tanto”), ma per gustare il ronzio delle voci degli amici e dei colleghi il mattino dopo in ufficio. Le dicerie volano velocissime: basta fare di tutto per non farsi notare, che si viene immancabilmente notati. In questo misero mondo di sessualismo sfrenato, orgoglioso, esasperato, c'è una bigotteria sessistica che è l'opposto speculare (dunque uguale) della bigotteria puritana ipocrita borghese.
Una volta si diventava adulti senza vedere invecchiare i propri genitori. Oggi si nasce con genitori già vecchi.

martedì 9 novembre 2010

La tua strategia è brillante. Ma proprio per questo è prevedibile.
Il nonno prende la cassetta degli attrezzi e la porta sulle scale. Deve, deve assolutamente mostrare la sua utilità. Anche se tutte le altre volte è sempre finita nei guai. Non se la sente di star lì a “fare il vecchietto”: avverte l'urgenza di dimostrare che è utile, che fa qualcosa di buono per tutti. Deve. Prende le pinze e comincia a forzare lentamente il gancio. Lui sì che ha la saggezza necessaria per questo tipo di lavoro: chiunque avrebbe agito subito con forza. Ma lui no, lui forza delicatamente, perché non vuole che si spezzi. Solo lui poteva fare un lavoro del genere: anzi, solo lui “doveva” farlo, perché sapeva che doveva farlo per mostrarsi utile. Un attimo dopo il gancio si spezza. La ruggine ha ceduto. I cardini sono inclinati, l'anta resterà sempre aperta. Mette un po' di nastro isolante verde (è l'unico che aveva! pazienza se stona col colore del muro!) che si stacca quasi subito per il peso dell'anta. Mette nastro e nastro con abbondanza, fino a sudare per lo sforzo. Finisce il rotolo del nastro. L'anta sembra reggere. Un attimo per rompere il gancio, un quarto d'ora di preparazione, un quarto d'ora per rimediare al danno fatto, tentando di non pensare a cosa farà l'umidità a quel nastro. Torna in casa, imprecando. La figlia non intuisce al volo e gli domanda, pensando di far cosa gradita: “allora, hai sistemato quel gancio?” Il nonnetto impreca qualcosa sull'utilità delle persone e si allontana, cercando di non pensare ai tempi in cui era giovane e gli anziani non avvertivano la necessità impellente di produrre qualcosa di elogiabile dalla società.

lunedì 8 novembre 2010

In maniera inversamente proporzionale alla propria tendenza ad assimilarsi alle bestie, gli uomini utilizzano gran parte del loro tempo per pensare ai gesti e alle parole necessari per recuperare punti agli occhi delle donne che gli interessano. Questo succede perché una delle più terribili armi di una donna è il considerarti antipatico. Per un nonnulla ti tolgono dieci, venti, cento punti-simpatia. Certe volte sembrano perdonarti e restituirti buona parte (mai tutti) i punti-simpatia che ti avevano decurtato sull'onda di qualche momentanea emozione che cinque minuti dopo non ricordano più. Ma anche quando ti perdonano per crimini che sono tali solo nei più remoti anfratti delle loro isterie, sei sempre a rischio di un nuovo e più grande salasso. Lo sto notando in particolare in un'amica che sebbene innamorata folle del suo fidanzato, non perde occasione per decurtargli punti in modo sottile e continuo. E' innamorata follemente di lui, ma non lo ama.
Una delle cose che più odio è dare il cattivo esempio. Non è una forma di perbenismo, ma di autodifesa. Non è un castrarsi, ma è un investimento. Da adolescente ebbi l'occasione per approfittare di una compagna di classe. Quando ero pronto a partire riflettei per una frazione di secondo: “se fa questo con me, poi si sentirà abilitata a farlo con chiunque”. Vidi scorrere davanti ai miei occhi i miei compagni di classe, animali dalle sembianze umane, bestie incapaci di cercare altro che sesso, partite di calcio, videogiochi. Mi parve di vedere anche tante altre bestie di tante altre classi, e di tante altre scuole. Da questo esercito di bestie mai sazie emerse uno dei più lerci proprio nel momento in cui la mia compagna di classe si sentiva più sola (o più in vena, o più annoiata, o con qualsiasi altra scusa buona per farle abbassare un po' le difese). Vidi come davanti ai miei occhi la scena in cui lei diceva tra sè e sè: “perché no? dopotutto l'ho già fatto una volta. Anzi, stavolta potrei provare qualcos'altro”. Un cattivo esempio vale spesso più di cento crimini concreti. Lasciai perdere e andai via, dispiaciuto di aver sprecato un'occasione per soddisfare il mio egoismo e anche con un senso di amarezza pensando al prossimo approfittatore, meno scrupoloso e più animale di me. Quest'ultima fobia, però, non riusciva a cancellare quello strano retrogusto di serenità che avvertivo dal profondo del cuore.

domenica 7 novembre 2010

Oggi è peggio che nel “1984” di Orwell. In quel romanzo si ipotizzavano macchine che capaci di fabbricare romanzi e canzoni. Oggi i cliché della narrativa e del cinema sono talmente standard e talmente prevedibili che è come se ci fossero davvero dei macchinari in funzione per creare le storie da propinare ai lettori e telespettatori. Nel romanzo di Orwell l'idea che le macchine fabbricavano romanzi e canzoni serviva a mostrare la disumanità della società. Oggi è peggio che in quel “1984”, anche senza quelle macchine (per adesso!) perché la società è disumanizzata anche più di allora. “Ma come, non guardi le partite della nazionale?” mi chiedeva un collega con espressione attonita. “Davvero non hai mai letto un libro di questi autori?” mi chiedeva basita la collega che aveva appena sciorinato un elenco di nomi che non avevo mai sentito prima (o forse avevo sentito e dimenticato un attimo dopo). “Ma allora che razza di musica ti piace?” mi sgridava un collega a cui incautamente avevo detto che nel campo musicale da troppo tempo regna la desolazione (è la pura verità, l'indicibile verità). Siamo messi peggio che nel “1984” di Orwell perché ciò che comandano le mode è legge, ciò che comanda quella legge viene accolto di cuore e con entusiasmo: in “1984”, almeno, erano imposizioni subite con rassegnazione, era entusiasmo ipocrita; oggi invece è entusiasmo convinto, scelgono dal menu preconfezionato per loro e con ciò sono convinti di essere liberi. Il peggior schiavo è quello che mentre vive come uno schiavo crede di non essere schiavo. Oggi è peggio che in “1984” di Orwell.
Anche stavolta mi sono innamorato di un personaggio di una serie televisiva. Da qualche anno a questa parte mi capita sempre più di rado perché ciò che viene trasmesso in TV è di una banalità sempre crescente, banalità che viene forgiata anche attraverso una pessima traduzione e recita dei dialoghi. Oggi, al più, ci si affeziona ad una serie. Oggi l'enigma è: “come andrà a finire”. Oggi il cruccio è: “faranno morire questo personaggio o faranno uscire uno che prenderà il suo posto per fare giustizia?” Oggi ci si interroga sulla trama, non sui personaggi. Ieri era possibile innamorarsi di un personaggio e di seguire la serie sceneggiata pensando ogni volta: come mi sarei comportato al suo posto? Cosa avrei fatto se fossi stato il suo uomo? Oggi non è più possibile affezionarsi o innamorarsi, perché è tutto un cliché di banalità, è tutto un cliché di immancabili baci, immancabili scene di sesso, immancabili lieto fine (o triste fine) che si possono prevedere fin dai primi minuti. Più è banale una trasmissione, più gente gonfierà il proprio ego pensando “ah, ho capito tutto”, e quindi più spettatori collezioneranno. Una volta si raccontavano storie, si raccontavano emozioni, si raccontava vita vissuta o storie realisticamente possibili. Oggi si raccontano banalità: oggi diventa sempre più raro potersi innamorare di un personaggio.

sabato 6 novembre 2010

Ecco un'altra donna troppo suscettibile e... capace di perdonarti solo quando vede regali. Anche questa è una sottile forma di prostituzione. Sottile e ipocrita: lei non si sente una baldracca perché non ha mai commerciato con quelle cose, però il suo rapporto con gli uomini è una continua compravendita di sentimenti. “Mi sento offesa: con che regalo intendi perdonarmi?” Un uomo come me non ha molto margine per contrattare il prezzo: o paga o perde l'amicizia. Donne del genere sono talvolta così ferrate in questo commercio di sentimenti che sono disposte a perdere tutte le amicizie pur di mantenere fisso il listino prezzi. Non voglio nemmeno aprire il discorso del saper perdonare di cuore: voglio solo biasimare quella suscettibilità artificiale su cui è fondato quel commercio di sentimenti che non è molto distante dal commercio del proprio corpo.

venerdì 5 novembre 2010

Quando un uomo si sente stanco, seccato, affaticato, frustrato, la prima idea che gli passa per la testa è il sesso. In realtà cerca la compagnia di una donna, cerca una donna che lo consoli (poiché un amico, anche grande amico, non basta), cerca una compagnia femminile che lo “completi”. Ma inevitabilmente, prima che alla delicatezza femminile (la vera delicatezza, quella che sa capire quale è il cruccio del suo uomo e sa rispondere in modo adeguato), l'uomo pensa al sesso. Sono convinto che storicamente non è mai stato così. Solo con la rivoluzione sessuale degli ultimi cinquant'anni l'uomo si è trasformato in bestia ordinariamente assetata di sesso: tant'è che si contenta del sesso virtuale, si contenta di parlare di sesso per ore intere senza annoiarsene mai, si sente importante e maschio solo se “dimostra” (più con parole e insinuazioni che con gesti concreti) di essere pronto a far sesso. Si sente solo e triste, e cerca il sesso: è lo stesso meccanismo per cui certe persone, quando avvertono malinconia, cominciano ad ingozzarsi. Mangiare (e ancor più il mangiar troppo) non è un rimedio alla malinconia, così come il sesso non è un rimedio alla solitudine, così come la droga non è il rimedio al mal di vivere. I mali dell'animo umano non si curano strapazzando il corpo con medicine, cibo, droghe, sesso.

giovedì 4 novembre 2010

La mia donna ideale? Difficile definirla. Quelli che in una considero difetti, in un'altra donna considero pregi. Il carattere è più importante del corpo, perché la donna non è solo un giocattolo sessuale. Voglio una donna anticonformista. Oggi il conformismo impone che le donne debbano essere un po' baldracche? Voglio una donna pulita, che non sia inquinata dal moralismo borghese ma non sia nemmeno inquinata dal libertinismo idiota donatoci dall'ultimo mezzo secolo di rivoluzione sessuale. Oggi la moda impone una figura di donna che è contemporaneamente preda e cacciatrice, che vuole apparire dolce (ed eventualmente pura) ma è maliziosa e vendicativa (ed eventualmente egocentrica). Desidero una donna normale, che sia capace di amarmi perché è già capace di non odiare se stessa. Nella misura in cui una donna odia se stessa, è incapace di amare un uomo. Le donne che odiano se stesse dovrebbero restare tutte zitelle (e infatti normalmente finiscono zitelle, anche se sono passate attraverso molti letti maschili).

mercoledì 3 novembre 2010

I fuochi d'artificio sono una delle manifestazioni più imbecilli della nostra epoca. Rumori ed eventualmente colori, ad un costo tutt'altro che irrisorio. Tutto qui: rumori e qualche luce, fracasso e qualche colore. Tutto qui.