giovedì 30 settembre 2010

Ecco un'altra nuova amica. Solito rituale dello scandagliare il suo album fotografico. Ecco le foto in spiaggia. Solito rituale del compulsarle compulsivamente una per una. Bah, pancetta. Bah, linea non eccezionale. Bah, anche lei è “sexy” soltanto perché espone le sue carni alla vista di noialtri maiali. Mi chiedo: perché le sto guardando? Mai vista prima: che urgenza c'è di osservarne la dotazione sessuale? Perché non riesco a fare a meno di eseguire questo rituale? Non sono il solo: a giudicare dai numerosi commenti, sono in tanti ad essere passati e ripassati su quelle foto prima di me. Un rituale a cui non riusciamo a sottrarci. Come se chiedessimo ad una donna appena conosciuta: mostrami il tuo corpo coprendo solo il minimo indispensabile (nel migliore dei casi ne ricaveremmo sganassoni, imprecazioni e la nomea di maniaci sessuali). Nell'ammettere vergognosamente a me stesso che lo faccio solo per inveterata (e apparentemente invincibile) abitudine da maiale, ricomincio a chiedermi perché siano così numerose le donne che lasciano a disposizione del resto del mondo le foto in cui si mostrano in pose provocanti (non solo quelle in costume da bagno). Come se fossero prostitute a caccia di clienti (ah, oggi si chiamano con nomi più eleganti, per esempio “escort”). Oggi il concetto di bellezza femminile è qualcosa di maialesco, è qualcosa di volgare. Quell'esposizione di curve, fatta da donne con ogni probabilità convintissime di non essere né belle né in forma, è il risultato concreto della loro vanità, che non serve ad altro che a far sognare maialoni che non saranno mai una parte della loro vita. La scrofa si mette in mostra, il maiale guarda, fine della storia. Vanità da una parte, maialismo dall'altra: e la solitudine resta uguale a prima.

mercoledì 29 settembre 2010

“Io sono la via, la verità e la vita” recitava lo striscione che il parroco fece affiggere tra due edifici. Tutte le autovetture ci passavano sotto, non potevano ignorarlo. Anch'io, a piedi, ci passavo sotto e pensavo a quanto sia cretino quel parroco. Penso che il parroco sia un cretino perché i miei problemi non vengono risolti da quelle parole. Quelle parole non mi rasserenano: la mia vita sembra essere lontana mille miglia. Subisco mobbing, vivo in una casa da terzo mondo, non trovo una donna adatta a me, la salute scricchiola, i soldi non bastano mai. Quelle parole non mi rasserenano, non mi danno un filo di speranza: mi sembrano parole vuote, come se fossero fatte solo per chi è già “dentro” quella cosa. Lo striscione recitava: “Io sono la via, la verità e la vita”. Tutto qui? Se ci fosse stato scritto “lotta di classe” oppure “frigocongelatore a 299 euro” sarebbe stata la stessa cosa. Lo striscione andava bene negli anni trenta, negli anni quaranta, quando le parole non erano inflazionate come oggi, quando una frase implicava un solo unico preciso significato, quando non c'era un diluvio di parole come oggi. Quelle parole non sono fatte per stare su uno striscione. Lo striscione rappresenta solo la voglia di mettersi in mostra di un parroco ormai ignorato da tutti, un uomo che vive nel suo mini-club di cui è rappresentante locale, con le sue sempre meno numerose vecchiette (che si estinguono per cause naturali e vengono sempre più raramente sostituite da altre vecchiette). Quello striscione è come un grido: “ehi, esisto anch'io! ehi, io sono importante perché ho da dire qualcosa di importante!” e nonostante tutta l'ipotizzabile importanza, nessuno si cura più di lui. Quello striscione recita delle parole a cui nessuno dei cittadini dà importanza, quello striscione rappresenta solo il tentativo di un parroco di dimostrarsi esistente agli occhi del 99% degli automobilisti e dei passanti che lo ignoravano prima e continueranno ad ignorarlo adesso. Quelle parole non dicono più nulla perché sono come gocce d'acqua versate nel mare. Il mondo cattolico è in via di estinzione perché si è ridotto a ripetere slogan, come se determinate sequenze di parole (“la-via-la-verità-la-vita”) fossero formule magiche tali da risvegliare l'interesse di chi ha problemi seri, concreti, reali (come il mobbing, come la salute, come i soldi, come la vita sentimentale). Il mondo cattolico non affonderà travolto dagli scandali; al contrario, affonderà travolto dagli sbadigli.

martedì 28 settembre 2010

“Sono l'unico senza laurea ma almeno sono utile” pensò mentre inseriva su Facebook le foto in cui si vedeva il giardino rigoglioso (cioè l'apparenza di un giardino rigoglioso: dopo neanche due ore di lavoro era sfinito, aveva calcolato male le proprie forze e aveva dimenticato di avere due ore scarse di luce del giorno). Ricordando la stanchezza della sera prima disse tra sè e sè: da domani tutti (e dico tutti!) dovranno dare al giardino due ore alla settimana, istituiremo dei turni, distribuiremo mansioni, darò dei compiti. Il giardino fino a ieri era stato trascurato, ma da domani non sarà più così. Non posso fare sempre io tutta la fatica. E che importa se qualcuno lamenta che il giardino non serve a nessuno? Qui tutto va tenuto in ordine, perché il disordine esterno è sintomo di disordine interno, cioè mancanza di rispetto e mancanza di disciplina: qui nessuno è autorizzato al disordine. E poi un po' di lavoro manuale non fa male a nessuno, men che meno a dei laureati. Meno male che ci sono io a pensare a tutte queste cose: qui nessuno si muove, finisce che devo sempre pensare a tutto io. Ma da oggi si cambia, da domani il giardino sarà degno del suo nome. No, questa foto non la metto perché sulla destra si vede che non ho completato...
“Sono cicciona ma almeno sono utile” pensò mentre inseriva su Facebook le foto in cui si vedeva bene che lei è sempre “impegnata nel sociale”. Non accettando di avere quella manciata di “chili di troppo” (“troppo” rispetto al dogma televisivo di Velina) tenta perciò di compensare con una “utilità”. Tenta di riempire la vita di significato. Anzi, tenta solo di ottenere l'etichetta di riempimento; non vuole riempire di significato, vuole solo che si sappia in giro che lei, con i suoi ottantasei chili di peso, è “impegnata nel sociale”. Sotto sotto vuole che si pensi di lei: “non sarà snella come una velina ma è impegnata nel sociale, ed il sociale oggi è importante, guardala come è impegnata, sì, nel sociale, è impegnata nel sociale, guardala, è proprio impegnata nel sociale, lei sì che è impegnata, è giusto che qualcuno di buona volontà e di grandi virtù si impegni nel sociale...” Il sociale deve ringraziare Madre Natura perché esistono delle persone tragicomicamente convinte che la bellezza sia solo quella delle veline e che la mancanza di bellezza significhi mancanza di utilità.

lunedì 27 settembre 2010

Quando mi vieni in mente, ancor oggi prorompo istintivamente in una smorfia di dolore. Dovevi amarmi, mi hai trattato freddamente. Ti amavo, mi trattavi come un estraneo. Di fronte a persone a noi care, mi guardavi come uno scarafaggio sulla torta. Perfino quando dicevi di amarmi avevi la freddezza di una previsione meteo. Tutti sapevano che non mi amavi e perciò mi escludevano da ogni “giro” che contemplasse anche la solo ipotetica tua presenza: invitavano te e lasciavano fuori me, perché tu mi isolavi. Quel tuo non amarmi mi costava un assurdo isolamento. A poco a poco i rapporti con gli altri divennero puramente formali: non per volontà mia, ma perché nessuno voleva perdere il tuo favore. Ogni giorno, ogni santo giorno ho tentato di porre rimedio. Non potevo farti regali perché li avresti accettati ritenendoli un tentativo di comprare il tuo favore. Non potevo dirti dolci parole perché le ritenevi melensaggini inutili. Non potevo parlarti delle piccole cose della vita perché eri capace di estrarre secondi significati e secondi fini da ogni piega del mio discorso e riversarmeli addosso come accuse infamanti. Per tanto tempo mi sono ostinato ad amarti e rispettarti. Ho cambiato le mie abitudini per te, il mio modo di parlare, i miei orari, ho straziato la mia vita per esserti il meno fastidioso possibile: facevo solo ciò che sembravi accettare. Ma la tua ostilità non è mai venuta meno. Solo su un punto fui irremovibile: volli a tutti i costi che tu parlassi chiaro. Non mi mandavi via e perciò non me ne andavo via. Ogni santo giorno, nell'aprire gli occhi appena svegliato, avevo paura che tu mi dessi il benservito. Ogni giorno nasceva col timore che tu interpretassi male qualche mio gesto passato, qualche mia parola, qualcosa di cui avevo dimenticato da tempo ogni dettaglio. Mi ostinavo ad amarti, un amore cieco e ostinato. Diventasti fiscale e di una freddezza incomprensibile: ingoiavo ogni rospo, sopportavo ogni dolorosa puntualizzazione su questioni ridicole. Ma fui irremovibile. Cominciando da quel giorno in cui sbottai e ti chiesi: se mi dici tutto questo, vuol forse significare che mi stai mandando via? Non avesti il coraggio di rispondere. Fu quella la conferma che non mi avevi mai amato. Fui irremovibile: ogni volta che mi parlavi non resistevi alla tentazione di contestare qualcosa della mia vita (io che avevo cambiato tutta la mia vita per piacerti almeno un po'!), ogni volta che mi frustavi con quelle tue gelide parole, avevo preso a chiederti: ma con questo cosa vuoi dire? Alla fine decidesti che non ne potevi più di quell'imbarazzante domanda e mi rispondesti: sì, non possiamo più stare insieme. Piansi come un bambino per interi minuti. Ti amavo davvero, e quella fu la prova definitiva: ti chiesi scusa del fatto che piangevo, convinto che i miei singhiozzi disturbassero la tua quiete. Mi lasciasti piangere a lungo, con la stessa indifferenza di chi aspetta un treno in ritardo. Ti salutai ringraziandoti con sincerità per il tempo passato insieme (tra le lacrime trovavo ancora il modo di usarti tanta delicatezza) ed uscii. Sulle scale asciugai quanto possibile delle lacrime. Inforcai gli occhiali da sole perché nessuno vedesse quei miei occhi rigati di lacrime. Una volta fuori dal portone presi la strada in salita. C'era il sole: camminai per qualche chilometro in periferia, deciso a tornare a casa solo nel momento in cui i canali lacrimali fossero abbastanza asciutti. Smisi di piangere dopo tre giorni, ma per interi mesi (mesi interi!) il mio volto, nella posizione di riposo, manteneva senza mia volontà quella strana espressione di chi sta per dire: “ma possibile?” Anche quando non ci pensavo, i muscoli ai lati della bocca e del collo erano in tensione come se stessi per dire: “ma possibile?” Il ricordo di quanto ho amato è diventato poi dolore, dolore che provo ancora oggi. “Ma possibile?” Una smorfia di dolore, come un tic silenzioso, nei momenti in cui riappaiono davanti ai miei occhi i tantissimi piccoli gesti e le infinite piccole parole che usavo per mostrare il mio amore per te nel modo che a te piaceva. Ma non mi hai mai amato. Dal primo giorno all'ultimo giorno, non mi hai mai amato. Non ho mai avuto il coraggio di maledirti, nemmeno quelle volte (succede ancora, seppur più raramente) in cui mi svegliavo nel pieno dela notte con un nodo alla gola ed alzando le braccia gridavo in silenzio, muovendo solo le labbra, quella domanda piena di angoscia: “ma ti amo! non vedi che ti amo? cosa posso fare per mostrarti che ti amo?” Non mi hai mai amato, ma quel che è peggio è che non hai mai avuto il coraggio di dirmelo. Un giorno uno dei miracoli in cui non crediamo ci farà nuovamente incontrare. Ti amo ancora e sarò pronto a riabbracciarti in lacrime avendo già dimenticato tutto, anche se sarai di nuovo diffidente, sospettosa, profondamente (e ingiustamente) convinta che la mia sarebbe solo una messinscena per poter vendicare almeno qualcosa di ciò che mi hai fatto passare.

venerdì 24 settembre 2010

Ecco un'altra “richiesta di amicizia” da parte di una donna che non conosco. Il successo di Facebook, come di quasi qualsiasi altro strumento, dipende all'uso improprio che se ne può fare: Facebook nasceva per trovare gli amici di sc uola ed è diventato tutt'altro. Con la donna che mi fa questa “richiesta di amicizia” vedo che ci sono “12 amici in comune”, ma io questa signora non la conosco. Nel cliccare per accettare l'amicizia, il primo pensiero è di uscire con lei. Un secondo dopo (sì, proprio un secondo dopo) scopro che ha una figlia adolescente. Dunque è stata sposata (forse lo è ancora) ed è tuttora mamma: due ottimi motivi per non corteggiarla. Potrei già azzerare questa cosa che il Facebook chiama “amicizia”, perché tra me e lei non c'è niente. Ma non lo faccio perché sono pigro ed ancor più perché mi piace vedere il numeretto del conteggio amicizie aumentare ancora. Più aumenta quel numeretto e più mi rendo conto che gli amici che conosco di persona sono una percentuale sempre più piccola. Più aumenta quel numeretto e più le amicizie normali (non dico le rare “amicizie vere”) sembrano diminuire. Tutta questa tecnologia, nel momento in cui sembra spazzar via la solitudine, ottiene invece l'effetto opposto. Ci fanno compagnia i numeretti. Ci sentiamo soli e ci coccoliamo i numeretti. Un collega di lavoro festeggiava il traguardo delle quattrocento amicizie ed io temevo che lui ripetesse quello stesso rituale festivo per ogni successiva cifra tonda.

giovedì 23 settembre 2010

Lavorare in più persone nello stesso spazio significa che ognuno può ergersi a poliziotto-controllore di tutti gli altri, specialmente quando pensa che il denunciare qualche difetto altrui significa riuscire a coprire i propri.

mercoledì 22 settembre 2010

Una volta mi innamorai a prima vista di una donna che avevo visto solo in una immagine porno. Dopo un po' di tempo riuscii a scovare il suo presunto nome. Dopo ulteriori ricerche, anche la presunta città in cui viveva. Quando avevo già deciso di percorrere migliaia di chilometri per stare qualche giorno a passeggiare in quella città (sperando di vederla), scoprii che era protagonista di film porno. Solo in quel momento mi resi conto di essermi innamorato di un pezzo di carne che era normalmente utilizzato con cinismo da loschi bruti. Una donna è molto più della sua carne e della sua bellezza. E quando quella carne viene violentata e quella bellezza sfruttata, ti viene un magone che non finisce più. Le pornostar sono donne infelici. Falsi sorrisi, falsi godimenti, tutto falso.

martedì 21 settembre 2010

Una volta, forse, esisteva una società in cui il lavoro aveva a che fare con la dignità della persona. Una società in cui non importava cosa facevi, ma importava che lo facevi bene. Una società di gente semplice, di poveri, di poveracci e di straccioni che costruiva cattedrali, pur abitando in catapecchie, incuranti del fatto che solo i loro nipoti avrebbero vista completata l'opera. Una società in cui non contavano le date di consegna, dove nessun capo urlava “entro il mese”, “entro la settimana”, “entro domattina”. Una società dove i dirigenti erano grati e rispettosi dei loro sottoposti, specialmente i più umili. Una società dove le paghe e il vitto, dai livelli più alti ai livelli più bassi, differivano poco. Lavoratori che edificavano cattedrali senza utilizzare altro che martelli, assi di legno, carriole improvvisate. Senza elettricità, senza motori, senza chimica né tecnologia. Terremoti e calamità non hanno intaccato Santa Maria del Fiore a Firenze, non hanno rovinato il Duomo di Milano, non hanno distrutto la Basilica di San Pietro. Dal progetto alla realizzazione, tutti avevano lavorato orgogliosi del loro lavoro, perfezionisti nel realizzarlo, senza barare, senza approssimare, senza affrettarsi, senza fingere di aver completato il lavoro della giornata, senza combattere la lentezza nelle consegne, senza rubare i materiali e gli strumenti, senza aver bisogno di mettersi in mostra con la dirigenza. I loro nomi, a noi illeggibili, sono scritti in ogni pietruzza. Una vita intera in un lavoro manuale, faticoso, meccanico, ma soddisfacente, ben fatto, umano, senza inseguire scadenze, senza sottostare a date impossibili e requisiti irrealizzabili, senza dover mai ricorrere a sotterfugi e trucchetti per evitare sgridate e rappresaglie. Una vita intera a lavorare per qualcosa di maestoso e senza l'incubo del capo con le sue scadenze, le sue manie, le sue fissazioni, le sue odiose esigenze, i suoi fastidiosi ed ipocriti ragionamenti sul tempo e sul denaro.
Nelle galere romane eri incatenato al tuo lavoro e passava l'aguzzino con la frusta a risvegliarti quando necessario. Ora non ci sono più catene. Ci sono le malattie professionali, quelle vere, non quelle certificabili dalla ASL. Cioè il mobbing, lo stress, la riduzione a larve obbedienti che lavorano meccanicamente, la trasformazione in bestie permalose e terrorizzate da qualsiasi cosa e che scaricano sugli altri il lavoro perché hanno (legittimamente) paura di incredibili complicazioni. La prima malattia professionale è la sfiducia nei propri colleghi e nei propri dirigenti. La grande malattia non riconosciuta è il capo che ti guarda con fastidio anziché esserti grato per ciò che hai fatto e che lui ancora non ha saputo riconoscere. La più terribile malattia professionale è dover realizzare cose impossibili in tempi brevissimi per un capo che sa solo minacciare velatamente. Il lavoro, oggi, può toglierti la salute più di quanto non potesse la galera romana con le sue fruste, le sue catene e i suoi remi.
Qualsiasi discorso sul lavoro deve partire necessariamente dal rapporto di fiducia tra persone. Mi viene chiesto un sacrificio (sì, ancora un sacrificio, un altro sacrificio, ed ancora un altro ed un altro ancora): ma possibile che debba sempre essere io a sacrificarmi? La società di oggi è una società di schiavisti. Ci definiamo liberi perché nessuno ci chiama schiavi, ma il mondo del lavoro è fondamentalmente schiavista, essenzialmente schiavista. Non c'è un rapporto di fiducia, ma una sudditanza. Non c'è una fiducia ma un ricatto. E' un mondo dove è diventato necessario il sindacato: ma in poco tempo anche il sindacato ha tradito il suo compito, cercando il proprio vantaggio sotto la misera scusa del vantaggio dei lavoratori. Bisogna essere giovani o stupidi per credere ancora nel sindacato. La fiducia tra lavoratori e datori di lavoro è un relitto del passato. La stessa istituzione sindacato è un relitto del passato sopravvissuta alla sua funzione originaria, alla sua utilità, al suo significato. Come tutte le burocrazie. L'unica istituzione rimasta è lo schiavismo: non ha più quel nome ma è più furioso di prima.
Non è il mondo che è ostile. Sono le persone a rendere apparentemente cattivo il mondo. Sono alcune persone. In fondo siamo tutti egoisti, ma ci sono alcuni che sono più egoisti degli altri. Non so perché, ma questi ultimi mi sembra che finiscano sempre ai posti di comando. Prendere decisioni sulla pelle degli altri è una grandissima responsabilità. Un generale vero dovrebbe soffrire per ogni graffio di anche uno solo dei suoi soldati. Invece quei generali trattavano le loro truppe come pedine. Così i dirigenti dell'azienda. Ai loro occhi noi non siamo persone: siamo “risorse”. Pedine spostabili a piacere. Pedoni sacrificabili a piacere, tanto per aprire un varco per un alfiere o una torre.
Passi la vita ad aspettare. Aspetti anche più di quanto ti sia chiesto. Ti dicono che l'attesa non basta, ti gridano che non è ancora il momento. Ti urlano che hai troppa fretta. Loro sono incapaci di aspettare cinque minuti e comandano te di aspettare cinque mesi. Che poi diventano venticinque, e non gli basta ancora. Il mondo è pieno di mezzi uomini incapaci di decidere per un sì o per un no e dichiararlo subito. Sono mezzi uomini che fanno pagare a te la loro indecisione. Fanno pagare a te la loro incapacità. Fanno aspettare te perché non hanno voglia di impegnarsi. Lo fanno perché stanno al comando, hanno il potere di decidere, comandano senza aver mai obbedito, impongono senza aver mai subito imposizioni. E ti guardano beffardi dicendoti: tanto per te sarà la stessa cosa, uno più, uno meno.
Il mio disincanto non basta. Il mio scetticismo non basta. Il mio cinismo non basta. Pronta, ghiacciata, plateale, arriva la delusione. Ti prepari psicologicamente ad un “sì, ma forse no” ed ottieni un “no” gridato, urlato, amplificato, con l'eco, con la polifonia, da far tremare i palazzi.
Mi accorgo di essere un essere umano quando mi chiedo: ma perché parlo troppo? Ho perso l'ennesima buona occasione per star zitto. Il silenzio è d'oro.

lunedì 20 settembre 2010

Il modo migliore per tener lontana una donna è dare l'impressione, a coloro che le stanno intorno, che ti sei invaghito di lei. Così il suo orgoglio farà il resto e la terrà alla larga da te. Le donne vogliono essere desiderate ma non vogliono essere chiacchierate senza avere il controllo della discussione. Vogliono mettersi in mostra ma vogliono avere il controllo del palcoscenico. Vogliono poter dire: si è innamorato di me ma io lo respingo, vedete? Lo respingo, non mi interessa, alzo la posta in gioco, deve compromettersi in maniera tale da sbalordirvi. Meccanismo talmente collaudato, che per tenere lontana una donna basta agire leggermente su quella leva.

venerdì 17 settembre 2010

Ogni uomo cerca la sua principessa, la sua donna ideale. Il peggior risultato lo ottengono quelli che con la fissazione dell'aspetto fisico. Se proprio troveranno quella ideale, è matematicamente certo che verranno coperti di corna. Avranno un magone infinito quando la vedranno sfiorire. Sopporteranno ogni giorno pene da girone dantesco, che tenteranno di aggirare col cinismo, con l'ipocrisia, con la stupidità. Quanto più una donna è sexy tanto più la sua psiche ne risente. Abituata ad ottenere più degli altri, ad essere perdonata più spesso degli altri, a ricevere più attenzioni di quante non ne meriti, finirà inevitabilmente per “monetizzare”. Cioè per prostituirsi. Sarà incapace di soffrire e di sudarsi ogni più piccolo traguardo. Nel pretendere ciò che non le è dovuto si sentirà addirittura innocente. Scarterà i pretendenti così come si scartano col rastrello le foglie secche in autunno, finché un mattino si dirà senza apparente ragione che è ora di accasarsi. Qualche stupido penserà di averla conquistata (senza sapere che è stata sempre lei a guidare il gioco) e conscio della bellezza di lei si sentirà sempre costretto a mostrarsi “adeguato” (e soprattutto costretto a non farlo notare). Il girone dantesco prende forma. Mi viene in mente uno che ha passato molti anni con una donna bellissima. Era invidiato da tanti, e cercava di farsi invidiare (anche lui intendeva “monetizzare” la presenza di quella donna: sia per soddisfare il proprio ego sia per dimostrare al resto del mondo che era legittimo ammazzarsi così di sacrifici per assecondarla... circolo vizioso). Oggi lui è in carcere. Che fine misera. Era quello che a letto aveva a disposizione quella donna lì (che essendo stata “di tanti” era come se non fosse sua, nonostante il matrimonio) e il cammino a spirale nel girone dantesco lo ha portato al carcere. Se avesse scelto una donna vera, cioè quella non definita quasi totalmente dal proprio corpo, la vita sarebbe stata diversa (e quasi certamente senza carcere).

giovedì 16 settembre 2010

Figuracce. Figuracce che mettono tensione. Agitano una serie di emozioni. Aumentano lo stress. Si diventa ansiosi. Anche chi non è ansioso finisce per diventarlo. Tempi di consegna. Qualità da rispettare. Situazioni imprevedibili da prevedere, gestire, correggere. Chi compie materialmente il lavoro dovrebbe avere la sfera di cristallo. Chi pianifica un lavoro si illude sempre che coloro ai quali lo assegnerà sono già dotati di infallibile sfera di cristallo, nervi saldi, salute d'acciaio, voglia incontenibile di far guadagnare milionate al padrone contentandosi delle briciole che costui elargisce con sempre più rara frequenza. La frase mai detta è la frase che più spesso andrebbe detta: se vuoi questo risultato a queste condizioni, dimostrami tu che è possibile. Lavora tu al posto mio. Dopo la millesima figuraccia capirai che sei tu a porre condizioni impossibili. Capirai che non siamo noi ad essere incapaci di eseguire, ma sei tu incapace a comandare.
Figuraccia dal cliente anche oggi. Figuraccia multipla. Non va bene niente. Ho fatto quel che potevo, compatibilmente col tempo a mia disposizione. Sapevo che sarebbe finita così. Il capo, tutto speranzoso, sognava ingenuamente di accontentare il cliente con tante parole gentili. Ma le parole gentili non risolvono i problemi creati dall'incapacità di compiere il proprio dovere. Ed io il mio dovere l'ho compiuto, compatibilmente con gli ostacoli che mi sono stati posti da chi non sa compiere il suo dovere. Per comandare bisogna saper obbedire. Per comandare un lavoro bisogna saperlo fare bene e bisogna saper conoscere bene chi lo dovrà eseguire. Ecco perché finisce sempre così: figuracce col cliente. Il cliente non ha neppure tutti i torti. Figuracce.

mercoledì 15 settembre 2010

Quando parliamo, vogliamo essere ascoltati e capiti: è ovvio. Ma spesso non ci rendiamo conto che per essere capiti occorre esprimersi in una maniera adeguata alle capacità, conoscenze, pregiudizi dell'interlocutore (per esempio non si può parlare di signoraggio ad una che lavora in banca). Mi stupisce che le donne (non tutte, ma molte) vogliono essere capite anche quando parlano in modo criptico. Un amico mi diceva che parlano per “sillogismi senza la premessa maggiore”. Il sillogismo è composto da una premessa maggiore e una premessa minore, da cui si trae la conclusione. Quando si tratta di affari di cuore, succede spesso che le donne spesso ti parlano (parlano, parlano, parlano) dandoti solo la premessa minore, come se la maggiore (cioè la più importante) fosse sottintesa e immediatamente comprensibile a chiunque, e si aspettano che tu dia la risposta, la soluzione, conforme a ciò che loro stanno pensando in quel momento. Si tratta di un atteggiamento fastidiosissimo per le persone come me che non sono capaci di dedurre immediatamente ogni “segnale”, ogni “sottinteso”, ogni “ovvietà” (le donne pensano che i loro “segnali” siano sempre chiari e immediatamente comprensibili, pensano che ciò che hanno già in testa sia “sottintendibile” in ogni momento e da chiunque, pensano che ogni cosa che vedono come “ovvia” debba necessariamente essere tale anche per te che le stai ascoltando). Non te lo dicono: devi capire... e se non capisci sei uno stupido, un intollerante, uno che non è capace di ascoltare, uno sporco maschio sciovinista (senza che nessuno sappia cosa significhi “sciovinista”).

martedì 14 settembre 2010

Mi chiedo come si facesse a socializzare quando non esisteva il computer. Venticinque anni fa non esistevano chat. La generazione precedente a questa poteva socializzare solo in maniera direttissima, personale, umana. Credo che ci sia poco da gioire per le “conquiste” informatiche di oggi (che ti permettono pressoché ogni giorno di chiacchierare con pressoché tutte le donne interessanti che hai conosciuto), perché i rapporti sono diventati anche più complicati di quanto non lo fossero una volta. Allora come oggi ti trovi davanti la donna dei tuoi sogni e ti accorgi che è sfuggente, che ti dice qualche “sì” ma non è mai presente quando chiedi un “sì” più concreto, ti accorgi che è un'impresa faticosissima riuscire ad uscire con lei (anche accettando condizioni fastidiose come la presenza di fratellini o amici). La tecnologia è cambiata ed è cambiato anche il cuore: dato che col MSN “posso bloccarti quando voglio” allora posso permettermi il lusso di stuzzicarti di tanto in tanto e di toglierti dai miei contatti quando oltrepassi quella linea invisibile oltre la quale le ambiguità cominciano a svanire. Forti della tecnologia, le donne sono diventate tutte svampite, tutte più vanitose di prima, tutte più sfuggenti di prima. Questo non le ha rese più forti o più desiderabili, perché oggi rimediano molte più delusioni di prima. E' come se MSN, Facebook e tutto il resto avessero ammorbidito gli effetti delle scelte sbagliate. Col risultato che ora si sbaglia molto più spesso e quasi non si prendono più quelle forti delusioni che diventavano poi un insegnamento serio e valido per tutta la vita. Oggi si prendono solo minuscole delusioni. Cosa vuoi che sia il vedere su Facebook la scritta “impegnata ufficialmente” rispetto al vedere un'amica che ti viene a confidare che quella tizia che “nessuno” dovrebbe sapere che è il tuo sogno segreto è già fidanzata da due mesi? Cosa vuoi che sia una scritta sullo schermo rispetto al dolore del confronto umano diretto di trent'anni fa? L'amica che premurosamente vuole evitarti figuracce e ti viene a confidare che tizia è già impegnata, e tu, voltato dall'altra parte per evitare che la confidante possa accorgersi delle lacrime che gridano per uscir fuori dai tuoi occhi, cerchi di rispondere nella maniera più asettica e indifferente possibile perché hai ragionevole terrore che tra cinque minuti si dica in giro “Tizio ha pianto nel sapere che Tizia è fidanzata”. Quando capitavano, erano lezioni di vita. Oggi non è più così. Trovi sulla tua bacheca che la bellina è “fidanzata ufficialmente”. Vuoi rosicare, ma dura poco: un click del mouse e passi alla prossima bellina. Le delusioni una volta insegnavano. Ora sono solo piccoli fastidi passeggeri che non insegnano niente. Il computer ha facilitato non i rapporti umani ma le ambiguità, la volubilità, l'insignificanza. Ieri il corteggiare era un'arte, che “pagava” in proporzione all'impegno e all'onestà: oggi è diventato contemporaneamente banale ed impossibile (banale cominciare, impossibile avere la certezza di essere stati accettati e compresi) e spesso inutile (perché ci vuole molto tempo prima di capire se la donna che afferma di amarti ti ama veramente). Benvenuti nel mondo delle chat.

lunedì 13 settembre 2010

Riecco quella vecchia amica. Amica per modo di dire: io sarei un po' interessato a lei e lei sarebbe un po' interessata a me. Ma ad entrambi manca sempre il coraggio di fare un primo passo perché entrambi siamo sicuri di ricevere una risposta negativa del tipo: non roviniamo quest'amicizia, non siamo fatti l'uno per l'altra, non funzionerebbe. Così, come il fuoco sotto la brace: non si vede ma resta ancora acceso, a lungo acceso, fino a quando si spegnerà senza che nessuno se ne accorga, senza rumore, continuando ad essere calda per tanto tempo, intiepidendosi lentamente, mentre nessuno se ne accorge. Rivedendo il suo nome sullo schermo del computer mi viene da pensare: rieccola, ci starei bene con lei, anche se... Quelle due parole, “anche se”, sono la chiave di tutto. Dopo aver effettuato tutte le procedure sessuali, resterebbe ben poco. C'è l'attrazione fisica, ma è un fatto automatico. C'è un po' di sentimento, perché a tutti piace coccolare ed essere coccolati, ed il solo pensare ai momenti di coccole già tiene svegli. Ma (ecco il “ma”) c'è la vita reale, quella vera, quella fatta di soldi e stipendio, quella fatta di familiari fastidiosi, quella fatta di problemi dal medico e dall'avvocato... No, tra noi due non può funzionare. Mi piace il tuo corpo (cioè, più onestamente, sono fisicamente attratto da ogni donna che mi sia grosso modo coetanea), mi piacerebbe scambiare coccole, ma non mi piacerebbe per niente vivere legato a te, anche se legato solo psicologicamente. Per dieci minuti di dolci parole dovrei sorbirmi dieci settimane di discussioni sulle rate da pagare, su tua sorella che ti trascura, su tua madre e tuo padre sull'orlo della bancarotta, sui problemi legali con quell'idiota... E' meglio che rimaniamo amici. Stare insieme a te significa sposare un intero mondo di problemi: e questo lo può fare solo chi ti ama alla follia ed è cosciente che gli costerà una terribile fatica seguirti anche quando è stanco e demoralizzato. Stare insieme ad una donna significa condividere le poche e brevi gioie e gli interminabili ed immensi dolori. Il matrimonio, quello vero, quello che dura per tutta una vita, è solo per gli eroi: coloro che lo sanno (come me e quest'amica) non si lanciano in avventure che sanno già che finiranno. I conigli ipocriti si rifugiano nelle avventurette già convinti di scappare non appena il “sogno” termina e la “realtà” comincia ad affiorare. I conigli ipocriti sanno dare solo delusioni alle conigliette ipocrite, e viceversa.
Da ieri sera ho un fastidioso dolore ai denti. Sono qui a lavorare ma vorrei scappare altrove, in un posto dove questo dolore non possa raggiungermi.
Ad un certo punto, durante l'ultimo pomeriggio di lavoro prima di chiudere con un cliente, succedeva il solito guaio. Come sempre, rinviavamo il guaio al lunedì successivo. Come sempre, il lunedì avevamo tutti dimenticato l'esistenza di quel guaio, che pertanto “guaio” non era mai stato.

venerdì 10 settembre 2010

Una misteriosa malattia epidemica devasta il buon senso della gente. Assassinare bambini è non solo legale, ma addirittura pagato dallo Stato. Maltrattare le bestie, invece, è non solo perseguibile penalmente ma addirittura ritenuto vergognoso. Negli anni cinquanta si era indifferenti al maltrattamento delle bestie e l'aborto procurato era considerato un crimine. Oggi vediamo che coloro che non sono stati abortiti promuovono l'aborto, mentre le bestie vengono protette dalla legge dello Stato più delle persone stesse.
“Se ti piaccio clicca Mi Piace”. Ero tentato di risponderle: ma sei un obbrobrio! Bisogna diventare ipocriti pure su Facebook: non puoi dire “non mi piace”, non puoi nemmeno tacere, devi per forza dare una risposta ipocrita. Forse è questo che mi farà abbandonare prima o poi anche Facebook. Lei si aspetta una risposta da tutti, specialmente da me. Questo è tutto ciò che sai fare su Facebook? Costringere gli altri a dirti che sei carina e piacevole? Far loro fare la figura degli stupidi se non ti assecondano?

giovedì 9 settembre 2010

Tutto questo avviene perché il cliente non sa cosa vuole, e lo pretende subito e perfetto e pronto ed economico, anzi, gratis. Avviene perché il capo non saprebbe cosa vuole il cliente, neppure se il cliente lo sapesse e glielo dicesse dieci volte con la massima chiarezza. Il capo non sa lavorare. Non sa neppure cos'è il lavoro. “Sa” solo che noi siamo dei perdigiorno che non vogliono lavorare come dice lui. “Cambiate lì, che ci vuole? Cinque minuti” Per lui tutto è “cinque minuti” (intendendo con ciò cinque minuti secondi, non cinque minuti primi). Dopo la centesima volta che gli spiego che quei cinque minuti secondi sono in realtà cinquantacinque minuti primi e che quella modifichina intaccherà negativamente undici ambiti diversi e richiederà parecchi giorni di aggiustamenti e prove, mi sono arreso. Se è di buon umore risponde ottimisticamente di fare una prova veloce e approssimativa (di cui però non si assume responsabilità: tutto deve funzionare, tutto “non può” che funzionare). Se è di cattivo umore (cioè quasi sempre) ci etichetta come incapaci, disfattisti, incompetenti, immeritevoli dello stipendio (che è basso rispetto ad altri mestieri molto meno stressanti di questo). Questo è il dramma di noi che lavoriamo producendo. Chi produce è maltrattato. Chi è incapace di produrre, si ritrova a comandare (non si sa perché, ma pare che sia sempre così). Naturalmente non sa comandare: per comandare bisogna saper lavorare, bisogna conoscere i limiti propri e degli altri, bisogna avere più qualità di chi deve lavorare. Qualità che non hanno. E quando non hanno nessuna qualità, allora non comandano: “decidono”. Le strategie aziendali sono decise da gente completamente estranea a questo mestiere. Quanto mi piacerebbe essere imprenditore di me stesso. Ma non posso. Oggi, in Italia, la burocrazia ti strangola. Non puoi avviare una tua attività se non hai un capitale da investire. Il solo tenere libri contabili e partita iva è un onere fastidioso e una spesa sul collo. Lavorare da dipendente ti lascia almeno quello spazio di libertà da quando esci di sera a quando rientri nel successivo giorno di lavoro.
“Sei l'unica che ha saputo farmi innamorare”, recita la scritta fatta con lo spray accanto ad un cuore stilizzato e ad una data. Il soggetto della frase è colui che ha sporcato il muro con lo spray. Il centro dell'attenzione (cioè ciò che viene elogiato) non è la capacità della signorina ma la pluriennale insofferenza del soggetto. Uno stupido che elogia il suo proprio difetto: quella che chiama “unica” è solo una delle varie comparse del film della propria vita, è solo uno strumento, un oggetto che è capitato davanti all'egoismo di lui e che lui ha utilizzato gratis. Un egoista che scrive quella frase per elogiare non lei, ma se stesso: col sottinteso che potevano essere tante a farlo innamorare, e invece nella “difficile” impresa di farlo sentire uomo c'è riuscita solo lei.

mercoledì 8 settembre 2010

Detesto questo lavoro. Ma forse chiunque detesterebbe il suo lavoro nel momento in cui i capi gli comandano di gettare alle ortiche i progressi delle ultime settimane, di ricominciare da quel punto lì in tutt'altra direzione, e di avere un mese di tempo per completare alla perfezione ogni cosa. Vietato ammalarsi. Vietato ritardare anche di un solo giorno. Vietato obiettare che si può fare solo quel che si riesce a fare. Vietato tutto. Se mi dessero un mese in più potrei rifare tutto da capo. Ricominciare da zero e abbandonare questo caos. No: il cliente esige tutto pronto tra un mese. Poco importa che sarà una terribile montagna di mezze correzioni, mezzi tentativi, mezze soluzioni... pilastri di cemento armato tenuti insieme da un filo di cotone, sperando che non tiri vento fino alla consegna... blocchi di granito uniti da pochi centimetri di nastro adesivo, sperando che la colla regga fino alla consegna... motori di navi tenuti insieme con strisce di carta velina, sperando che nessuno tenti di accenderli prima della consegna... Già, perché la consegna è il momento in cui decadono tutte le mie responsabilità. Vedete? Ho consegnato in tempo, proprio come desideravate. Vedete? Ho fatto tutto quel che mi era chiesto entro la scadenza richiesta, proprio come mi comandavate. Vedete? Ora è il cliente a lamentarsi, proprio il giorno dopo che si dimostrava che avevo compiuto l'impossibile compito che mi avevate affidato. L'importante è essere riuscito a completare la Mission Impossible senza distruggermi i nervi nell'ascoltare le impossibili richieste dei capi e le utopiche assurdità del cliente.
Vedo tutti questi giovani immigrati conquistati dai “valori” occidentali che prima consideravano proibitissimi. A cominciare dalla pornografia e dall'(ab)uso di alcolici.

martedì 7 settembre 2010

Questa vecchia amica mi contatta sul MSN e apre un lungo, fastidioso, complesso discorso che si può sintetizzare così: “domenica prossima mobilita il tuo amico col Mercedes, passatemi a prendere (15 chilometri da qui) e accompagnatemi dal mio ex (70 chilometri da qui) perché sono sicura che lui le domeniche sta dal fratello e quindi potrò incontrarlo e parlargli”. Con molta delicatezza tento di farle notare che la richiesta, così minuziosamente pianificata e così chilometricamente espressa, è semplicemente comica. Comica, sì, proprio comica. Penso che tutte le donne, chi più, chi meno, sappiano essere così attente all'obbiettivo che si sono poste, da dimenticare anche il buon senso. Man mano che insisteva (senza recedere di un millimetro) mi sostituivo al suo buon senso ricordando che un “ex” che ti ha piantata non si ravvederà di certo nel vederti. Ricordando che un “amico col Mercedes” (tanto meno un amico non tuo ma mio) non è un autista a tua disposizione (specialmente nei giorni festivi). Quale impressione avrebbe poi fatto la tua sontuosa discesa dal lussuoso Mercedes in compagnia di due uomini sconosciuti? Naturalmente il pedaggio autostradale e il carburante dovevano essere a spese dell'amico, o al più mie: dopotutto lei era solo la persona da “accompagnare” (gratis), non vorrete mica pretendere qualcosa per l'onore concessovi di accompagnarla? Niente da fare: lei non recede di un millimatro. All'improvviso, visto che ho perso più di quaranta minuti in chat con lei senza concludere nulla, mi sento dire: “tu non vuoi proprio ascoltarmi. Addio”. E un attimo dopo mi cancella dai suoi contatti. Nei secondi in cui rimanevo attonito di fronte al computer riflettevo su quest'assurda malattia tipicamente femminile che ha questi due sintomi: decidere che sono amabili solo gli uomini che le maltrattano e (secondo sintomo) seguire i propri progetti infischiandosene della realtà e del buon senso. Sono due facce della stessa medaglia. La seconda faccia può essere semplice maleducazione (cioè una malattia tutto sommato curabile). Ma il riconoscere come “amabili” solo gli uomini che le maltrattano è davvero una patologia grave. Donne insoddisfatte di se stesse che desiderano soffrire ancora di più e decidono che è da amare solo l'uomo che le maltratta come se fossero stracci usa e getta.
Argomento di conversazione: “ho raggiunto i quattrocento amici su Facebook”. Lo guardo stupito. Lui, credendo opportuno prolungare il suo momento di gloria, ripete la notizia lentamente: “quattrocento amici!” Cerco di pensare a qualche risposta velenosa (tipo: “puoi andare dunque a ritirare il meritato premio”) ma non mi viene niente in mente. “Quattrocento amici”, dice a se stesso mentre si volta altrove cercando qualche altro collega a cui comunicare il supremo traguardo di onore e fama a cui è giunto.

lunedì 6 settembre 2010

Sono sempre più terrificato dalla presenza di tutti questi extracomunitari. Vedo un popolo che scompare. Il mio popolo si sta estinguendo silenziosamente. Contraccettivi, aborto, denatalità pazzesca (quante donne ho sentito dire “un figlio basta, due sono già troppi”): l'Italia non genera, l'Italia si avvia verso la sterilità. Siamo alla media di un aborto ogni tre nati, senza contare le pillole abortive e gli altri strumenti intesi a impedire la vita. Dal 1978 ad oggi, almeno quattro milioni di giovani italiani mancano all'appello, uccisi nel grembo materno a spese dello stato, cioè a spese tue e mie. Quei giovani morti vengono rimpiazzati dagli extracomunitari: serve manodopera a basso costo, servono badanti, servono prostitute. Il mio popolo non solo è sterile ma si avvia al suicidio. Un popolo pieno di speranze è sempre prolifico. Un popolo che odia se stesso è sempre sterile. Ogni extracomunitario che vedo nella metropolitana mi è straniero: tra di loro parlano la loro lingua, tendono a vestire a modo loro, a mangiare a modo loro. Anche se dotati di cittadinanza italiana, anche se capaci di parlare e scrivere in italiano, non sono italiani, non vogliono essere italiani. Si rinchiudono nei loro ghetti virtuali, come quel gruppo di ragazzi che vedo spesso in stazione: telefonini, orecchini, magliette della nazionale di calcio italiana, ma è sempre un gruppo chiuso, nella loro lingua slava, impermeabili alla cultura italiana, dall'orizzonte limitato. Assorbono alcuni dei nostri difetti (alcool, fumo, abiti scollacciati, droghe) ma nessuno dei nostri pregi. Li vedi con la maglietta della nazionale italiana, ma dell'Italia non gliene importa niente, men che meno della nazionale di calcio. Vogliono solo rimanere chiusi nei loro ghetti virtuali. Ognuno di loro è un italiano in meno, ognuno di loro rimpiazza un bimbo ucciso dall'aborto, ognuno di loro tende o alla malavita o al lavorare al posto di un italiano ammazzato tra il concepimento e la nascita. Il mio popolo si sta suicidando lentamente e silenziosamente.
Non basta il problema col datore di lavoro. Devi anche tener conto dei colleghi spioni. I delatori volontari e quelli prezzolati. Quelli che sono fieri di controllare il tuo lavoro e quelli che lo fanno nella misera speranza di guadagnare qualche favore dalle alte sfere per aver scovato un improbabile sabotatore.

venerdì 3 settembre 2010

L'espressione più rappresentativa di questa società è il termine autocontraddittorio “fare l'amore”. Come se il più nobile sentimento dell'uomo, cioè l'amore, fosse un'operazione che si “fa”.
C'è un meccanismo odioso, nell'ipocrisia di oggi, per cui la delicatezza è vista come un accusarsi. Il proverbio dice: chi si scusa si accusa. Bene. Ma certe volte i gesti che intendi fare con delicatezza vengono immediatamente applicati al “chi si scusa si accusa”. Per cui la tua ansia, o il tuo timore dell'ansia altrui, o la semplice delicatezza umana per cui non vuoi mettere in difficoltà o in imbarazzo l'interlocutore, viene immediatamente percepito come uno scusarsi. Ho impiegato parecchi anni (parecchie delusioni) prima di capire questo meccanismo odioso e perverso. Ieri mi è capitato di far tardi: non mi sono scusato per niente. Anche se con un groppo in gola, ho quasi evitato di salutare e dato direttamente direttive e notizie. In pochi attimi nessuno pensava più al mio ritardo. Non lo hanno dimenticato: lo hanno semplicemente rimosso dagli argomenti di immediata conversazione. Mi è andata bene ma l'arte di padroneggiare questo odioso meccanismo è solo per un ristretto numero di bestie feroci.

giovedì 2 settembre 2010

Sì, è curioso il fatto che la maggioranza dei discorsi tra amici e colleghi sia tutto sommato riducibile a due categorie: “possiedo” oppure “vorrei possedere”.
Fanno pubblicità di automobili che possono correre a duecentoventi chilometri orari. Benissimo. Ma tutti sanno che non si possono utilizzare sempre a duecentoventi. E nemmeno a duecento. Neppure a centottanta. Può correre fino a duecentoventi, ma normalmente è bene non superare i centocinquanta. Per i consumi, per lo stress meccanico e... per i limiti di velocità. Noi lavoratori dipendenti veniamo invece stressati al massimo delle nostre possibilità. Ed anche oltre. Il datore di lavoro, nel suo mondo surreale, si lamenta che dopo otto ore di corsa a duecentoventi chilometri orari siamo in panne. Si lamenta che dopo settimane intere passate a duecentoventi, rifiutiamo categoricamente di fare una mezza giornata di straordinario il sabato. Si meraviglia che il lunedì successivo non ci sentiamo riposati e non sembriamo pronti per rifare quei duecentoventi che lui ha letto dalla pagina pubblicitaria. Ci guarda sorpreso perché siamo uomini e non macchine.
L'hai vista sulla scala mobile e non potevi salutarla. Eri con i colleghi e avresti dovuto dare troppe spiegazioni. Non potevi neppure voltarti a guardarla per un attimo in più, perché avresti attirato l'attenzione di lei e dei tuoi colleghi. La sua immagine ti ronza nella testa da ieri e non riesci a liberarti di tanta dolcezza.

mercoledì 1 settembre 2010

Quando vedo quelle cose mi viene spontaneo dire: su, prendiamo atto dei problemi e risolviamoli in un sol colpo. Concediamo libertà di matrimonio dai 16 anni in su (14 per le ragazze), come avveniva una volta, e contemporaneamente vietiamo il divorzio, come una volta. Così chiunque sia convinto che la propria infatuazione sia “amore eterno” potrà subito coronare il suo sogno, senza favolette per idioti, senza dover “aspettare” di diventare “grandi”. Ma col divorzio reso illegale, tutti saranno costretti a distinguere tra infatuazioni passeggere adolescenziali (che capitano anche a ottant'anni di età) e amore vero. Saranno costretti a distinguere tra attrazione sessuale e sentimenti veri. Saranno costretti a guardare la bellezza interiore, perché quella bellezza che hanno a 14 anni, a 24, a 34, è destinata a sfiorire davanti ai loro stessi occhi (sebbene non così velocemente come invece avviene per coloro che si sposano dopo i trenta). Saranno tutti costretti a pensare alla gravità assoluta del tradimento, odioso anche se compiuto solo con uno sguardo o un pensiero, perché l'amore vero non ha una data di scadenza come le bottiglie di latte e l'amore “eterno” non è “eterno solo finché mi fa comodo”. Sarebbe una nuova società, questa, dove una quindicenne potrà lecitamente abbandonare la scuola per aver tempo per il marito ed i figli, dove un sedicenne potrà legittimamente abbandonare le noiose pagine di Petrarca e della trigonometria perché gli tolgono tempo dal lavoro umile ma dignitoso che gli occorre per mantenere la sua gioia (moglie e figli) a cui ha dedicato la vita, mentre viene invidiato dai suoi compagni più “adulti” (solo all'anagrafe) che insistono nel bramare un titolo di studio senza studiare, uno stipendio senza lavorare, un divertimento che lascia più annoiati e stanchi di prima, una vita da farfalloni in attesa della “donna giusta” che non compare mai, per poi essere costretti ad accontentarsi di una donna usata mille volte e che ha giurato amore “eterno” a mille uomini diversi prima di loro.