mercoledì 30 giugno 2010

Quando mi sento in difficoltà penso sempre di aver sbagliato lavoro. Ma poi penso che qualsiasi lavoro sembra sbagliato se hai un datore di lavoro che ti considera un contenitore di una merce che lui pagherebbe al minor prezzo possibile e tratterebbe col minor riguardo possibile.
Se qualcuno si annoia a leggere questo blog sappia che il capo non si annoia mai a cercare il pelo nell'uovo tra i suoi dipendenti. Chi considera merce il tuo lavoro, non si annoia mai di tentare di cavare sempre più merce ad un “prezzo” sempre più basso. Può essere noioso leggere questo blog. Ma posso assicurare che qui il lavoro è fatto così.
Da giovane, a scuola, avevo paura degli insegnanti. Interrogazione. Compito in classe. Ma tu non sapevi? Non hai studiato? Cosa hai fatto durante tutta la domenica? Qui al lavoro è quasi la stessa cosa. Controllo del capo. Ricontrollo. Ma tu non sapevi? Cosa hai fatto durante tutta la giornata? Ti avevo detto che doveva essere pronto per venerdì, e quando dico venerdì intendo venerdì mattina, non il giovedì successivo...
Più sono sotto pressione dal capo e meno riesco a lavorare. Più mi controlla e meno riesco a produrre. Meno ha fiducia di me e meno riesco a lavorare.
Il capo chiede sempre a che punto siamo. Chiede notizie che lo rassicurino. In questi casi il suo lavoro consiste nel rassicurare sé stesso. Ma non basta mai. Chiede di essere rassicurato ma non gli basta mai. Se rispettiamo le date, non è mai convinto. Se ritardiamo anche di un solo minuto rispetto ai suoi piani è un grosso guaio. Se anche terminassimo tutto il lavoro con un mese di anticipo, ci chiederebbe di ricontrollare tutto da cima a fondo, perché non sa mai avere fiducia in quello che facciamo Forse è proprio questo il vero problema. Dipendere da uno il cui lavoro consiste nell'aspettare che altri rispettino le date di consegna che lui ha deciso. E perciò consiste nello sgridarci, nel tartassarci, nel controllarci... Chi non ha imparato ad ubbidire non è capace di comandare. Chi non ha fatto una dura gavetta ricevendo ordini non è capace di darne. Chi non ha sperimentato il fastidio di sprecare le proprie energie per ubbidire ad un capo incompetente, non può essere capace di dare ordini e pianificare date di consegna e addirittura pretendere che siano rispettate.

martedì 29 giugno 2010

Ci mancava solo il capo e le sue sue inutili esternazioni. Devo resistere tre ore. E devo produrre qualcosa in queste tre ore. Qualsiasi cosa. Aspettare tre ore senza produrre nulla significa uccidere tre ore della mia vita.
Giornata nera, andata malissimo. Non ho voglia neppure di lamentarmi o di fare il filosofo su quanto il lavoro sia nel mio caso una forma di schiavitù. Anche oggi ho acquisito nuovi motivi per pensare che il lavoro è una merce. Sono fortunato a non essere stato ancora sostituito da indiani o cinesi.

lunedì 28 giugno 2010

Un'amica esclama: in dieci anni le adolescenti sono cambiate da così a così. Dieci anni per una rivoluzione dei costumi. Dieci anni per azzerare un senso morale che dieci anni fa già non c'era più. In dieci anni la adolescente-tipo è diventata più scema, più vanitosa, più volgare, più stupida. L'esclamazione della mia amica (una donna solitamente poco attenta a queste cose) è un indizio (un altro, ennesimo, concreto indizio) che la società italiana è regredita alla barbarie ed avanza verso una peggior barbarie a grandi passi. L'Italia si sta “africanizzando”... e non è solo l'Italia meridionale ad “africanizzarsi”: che dire di questi giovani che vivono solo di cellulari, discoteche, pacchianerie di ogni genere? Come gli “africani” (l'aggettivo è utilizzato nel senso più dispregiativo e razzista possibile) che tirano a campare contentandosi di perline colorate e tatuaggi, di raduni tribali (discoteca), di una cultura ridotta a chiacchiere insignificanti a base di sesso o di sport, di legami che non durano mai più di pochi anni (con o senza matrimonio in mezzo) e soprattutto di istupidimento televisivo (“tronista”? cosa significava 5-10 anni fa questo termine? esisteva?)
Sono giorni che nella metropolitana non vedo nessuna delle mie donne. Avranno tutte cambiato orario? Cambiato abitudine? La loro sola presenza è una piacevole compagnia, anche se per quei pochi minuti di viaggio non ci vediamo nemmeno. Sapere che ci sono mi dà un senso di tranquillità. Sapere che anche una sola di loro è nella stessa vettura, mi rasserena. Mi sento come un bambino rassicurato dalla sola idea che da qualche parte in casa c'è la mamma pronta ad accorrere in caso di problemi. Il bambino non si sente solo anche se in quel momento non vede né sente la sua mamma.
Certe volte sono curioso di sapere cosa stanno facendo quei colleghi abituati a controllare se sto lavorando o no. A controllare loro non provvede nessuno? Chi controlla i controllori?

venerdì 25 giugno 2010

Ti accorgi che una persona ti ha veramente colpito nel momento in cui desideri trovare modo di parlarle. Non importa quale sensazione ti ha dato. Fastidio, attrazione, ispirazione, intelligenza, emozione... non importa. Il dato di fatto è che ti ha colpito. Da ragazzo capii che per colpire i soliti borghesotti bastava dirsi fascista. Non sapevo neppure cosa fosse il fascismo: mi importava solo risvegliare le loro peggiori fantasie ed essere al centro della loro attenzione. Le loro stupide convenzioni prevedevano che al solo sentir nominare il fascismo dovessero reagire e dichiararsi contro. Più mi dichiaravo fascista e più ero al centro dell'attenzione di quegli adulti. Centellinavo quelle dichiarazioni di fede nel fascismo per non distruggere la mia gallina dalle uova d'oro. Desideravano parlare con me per convertirmi alla normalità (che secondo loro sarebbe l'antifascismo), e mettevano in gioco tutta la loro pazienza, cosa che non avrebbero mai fatto per nessun altro argomento di discussione.
La collega cattolica riesce a nominare cose religiose senza imbarazzo. Anzi, sorridendo. Ha detto una cosa poco fa, mi sono sentito annichilito: è stato un rapidissimo scambio di battute, e non ho avuto alcuna forza per intervenire.
Alla collega cattolica vorrei domandare in modo deciso: perché dovrebbe mai interessarmi la salvezza di cui parli? Sono sicuro che almeno il novanta per cento dei cattolici non saprebbe darmi una risposta sintetica quanto la domanda. Anzi: novantanove per cento. Per mortificare un cattolico, solitamente è sufficiente fargli una domanda del genere. Non c'è bisogno di argomentare come gli anticlericali, con quegli slogan che infastidiscono ma non mortificano. Per mortificarli infatti può già bastare l'incapacità di rispondere in modo sintetico ad una domanda sintetica. Mi domando quando avrò occasione di verificare se la collega cattolica fa parte di quell'un per cento o del rimanente novantanove.
Dicono che la giovinezza sarebbe il primo miliardo di secondi della tua vita. Ma io dico che la giovinezza non si misura. La bellezza non si misura, la serietà non si misura, la fiducia non si misura, l'amore non si misura... Le cose importanti della vita non possono essere misurate.
Ho l'impressione che la collega cattolica sia considerata appetibile da diversi colleghi, forse perché è meno volgare delle altre colleghe: proprio adesso è appena passato uno a dire una stupidaggine per mettersi in mostra, stupidaggine a doppio senso con sottofondo cattolicheggiante. Hanno ragione. Una donna del genere non è di quelle che sono andate a letto con decine di uomini diversi (fra cui magari i tuoi amici e i tuoi colleghi): bisogna essere proprio stupidi per sposare (o anche soltanto convivere) con una donna così, perché quando la si guarda si avrà sempre il dubbio che lei stia pensando che il tal amante era stato più performante...
Il venerdì è quel giorno in cui uno ringrazia che sia venerdì e pensa alla lunga pausa (dal venerdì sera al lunedì mattina) in cui riposare la mente dallo stress del lavoro. Se non ci fosse questa pausa sarei tentato di odiare il mio lavoro. Già ora sono tentato, a causa di un datore di lavoro che è uno schiavista. Lavorare qui mi ha insegnato che il lavoro non è una merce come le altre. Me lo ha insegnato proprio perché qui è considerata una merce come le altre e ne vedo le conseguenze.
Il capo arriva sempre in tarda mattinata. La prima cosa che fa è andare in giro salutando, allo scopo di controllare le assenze e di ascoltare le prime delazioni. Deprimente.
Non ho più rivisto la Sbarazzina e i suoi bellissimi occhi. Chissà se la rivedrò mai più.

giovedì 24 giugno 2010

I guai succedono tutti sempre verso la fine della settimana, sempre verso la fine della giornata, sempre verso la fine dell'ultima ora di lavoro. Domani è venerdì e quindi sarà anche peggio. Ma forse è solo la legge di Murphy.
Certe volte sogno di fidanzarmi con una donna come quella. Sovrappeso e sulla sedia a rotelle. Amare una donna così non è particolarmente eroico. Significa, al contrario, che vuoi essere tutto suo, che vuoi alleviarle le sofferenze, vuoi mostrarle che il mondo non è fatto solo per le fotomodelle capaci di garantire il solito commercio sessuale. Significa che passeresti tempi lunghissimi nel carezzarla, nel pettinarla, nell'accompagnarla in giro anche per le più piccole ed insignificanti cose. Significa poterle dire, mentre a lei quasi scappa una lacrima, che “gli altri vogliono etichettarmi come un eroe solo perché faccio una cosa di cui non si sentono capaci, e cioè amarti così come sei”. Eppure: quale donna non desidererebbe essere amata così? Più sono vicine all'ideale di “velina” e più sono schiave dello schema “moderno”. La paralitica sovrappeso non ha altro da offrire che la propria sincerità (cioè la “merce” più difficilmente valutabile in questo mondo). Le altre, specialmente quelle che si dichiarano “brutte”, sanno di aver comunque qualcosa da “offrire”, gambe da mostrare, curve da esporre, intelligenza da sciorinare: dichiarano insomma di avere un prezzo. Che tristezza. Certe volte vien davvero quella strana malinconia del non essere ancora fidanzati con una donna che sul piatto della bilancia può mettere solo la merce più difficile da valutare: la propria semplicità, la propria sincerità. Si può vivere felici con una donna solo se c'è questo.
La Sbarazzina stamattina non c'era. Mi mancava. C'era invece la vacca da monta. Essere considerati solo per il proprio aspetto fisico è deprimente anche per chi ti guarda senza aver intenzione di abusare di te.

mercoledì 23 giugno 2010

Quando sta per finire la giornata di lavoro, viene a tutti la frenesia di fare qualcosa per accorciare il tempo. Qualcuno va alla toilette. Qualcun altro telefona. Qualcun altro ancora fa delle cose che in giornata evita in ogni modo (pulire e riordinare le proprie cose, per esempio).
Quando una persona annuncia che si sta annoiando, la prenderei volentieri a calci nel sedere.
Il bacchettone è colui che quando passa una donna troppo sexy, a parole la vorrebbe sgridare, e nei pensieri se la vorrebbe portare a letto. Il maiale è quello che non solo desidera portarsela a letto, ma lo ammette a chiare lettere. Perciò la differenza tra un maiale e un bacchettone sta solo nelle diverse parole che costoro pronunciano. Inoltre, il maiale pensa che tutti siano dei maiali, ed il bacchettone ugualmente pensa che tutti siano dei maiali. Perciò entrambi sbagliano a giudicare chiunque non sia né maiale né bacchettone.
Mentre parlavo al telefono ho sentito la collega cattolica che sottovoce parlava di un orario di qualche “celebrazione” con un altro collega, del quale non potevo assolutamente sospettare che si interessasse di cose del genere (sarà cattolico anche lui, o è solo interessato a far colpo su di lei?) Dunque i cattolici ci sono, ma si guardano bene dallo sbandierarlo ai quattro venti. Ma non ho ancora trovato modo di provocarli. Anzi, di provocarla: lei mi sembra più sveglia e convinta.
Quando la tua donna è una di quelle bellezze televisive, tutti te la invidiano e tanti architettano come utilizzarla. Non puoi sperare la fedeltà di una donna che sa di essere oggetto ambitissimo. Non puoi parcheggiare una Ferrari sotto casa sperando che non te la rubino e che non te la graffino e che nessun cane andrà a depositare ricordini sulle ruote. Magari non stai tranquillo neppure a rinchiuderla in un garage.
Forse è stato per il contrasto tra quelle due donne. La vacca da monta, seduta accanto a me, non potrebbe mai essere la mia sposa. L'avrei utilizzata per un po' e poi me ne sarei annoiato. L'avrei riposta in un cassetto, per tirarla fuori solo quando mi serve. Una donna del genere, che pensa di valere solo nella misura in cui si fa utilizzare, si autocondanna a diventare un oggetto. La mia sbarazzina, con quegli occhi semplici ed intelligenti, sembrava invece quel tipo di donna che anche dopo mezzo secolo desideri ancora avere accanto a te.
Durante il tratto in metropolitana era seduta accanto a me una donna bionda. Rossetto, make-up, gonna non proprio casta, abbigliamento un po' troppo glamour. Il primo pensiero che ti viene in mente è che una donna del genere guadagna facendo la vacca da monta. Quella bellezza volgare che ti ispira pensieracci e strane impressioni. Le squilla il cellulare, parla in un italiano recitato: è una segretaria di qualcuno, assunta non per le proprie capacità ma per la propria merce messa in mostra. Le donne che hanno una bellezza fisica “come quella che si vede in TV” si sentono meno incentivate a far fruttare la propria intelligenza. Sono donne ma si comportano come se fossero oggetti. Vengono assunte come tali. Quanto più si adeguano, quanto più si comportano come oggetti, tanto più vengono trattate come tali.
Stamattina, in metropolitana, colpo di fulmine. Una donna bellissima. L'ho vista per pochi secondi, mi piace tutto di lei. Il modo di vestirsi. Quei capelli semplici, quegli occhi delicati e intelligenti. Mi sforzavo di non voltarmi ad ammirarla ancora.
Vignetta nichilista: una mamma dà al bambino nella culla bevande eccessivamente zuccherate. Il padre chiede il motivo. La mamma risponde: “tanto in caso di diabete lo potremo imbottire di insulina”. Temo che così funzioni il mondo del lavoro.

martedì 22 giugno 2010

L'unico momento in cui si agitano le bandiere e si canta l'inno nazionale è durante le partite di calcio. Il calcio è uno spettacolo. Come nel teatro abbiamo impresari, sceneggiatori, attori, così nel calcio abbiamo presidenti, allenatori, calciatori. Come nel teatro abbiamo compagnie, tour, performance, così nel calcio abbiamo squadre, campionati, partite. Chi va a teatro paga un biglietto: paga per le emozioni che proverà. Chi va allo stadio paga un biglietto: paga per le emozioni che proverà. Il calcio, come tutti gli sport, è fondato sulla vanità, sul sottomettere l'avversario, umiliandolo con il goal. Non c'è giornale che non si occupi di sport e di calcio. Il calcio “fa” il popolo italiano: bandiere, inni, unità di intenti nella gioia (quando si vince) e nella sofferenza (quando si subisce un goal o si perde). La repubblica italiana è fondata sul gioco del calcio. Il popolo italiano è manifestamente tale quando i giocatori della cosiddetta “nazionale” inseguono e scalciano un pallone. Una vera e propria religione, con tutti i suoi miti e riti, con tutti i suoi dibattiti e le sue regole dogmatiche, con tutto il suo significato (tale da poter litigare a morte tra tifoserie opposte, oppure sentirsi tutti in profonda comunione quando la “nazionale” gioca ai “mondiali”). L'inseguire e scalciare un pallone, secondo un insieme di regole che hanno un che di bizantino, frutta ai professionisti cifre allucinanti. Chi lavora e produce viene pagato quel tanto che basta per sopravvivere; chi scalcia un pallone guadagna cifre assurde e, se segna durante i “mondiali”, con buona probabilità diventa un eroe nazionale.
Il lavoro del capo consiste nel comandare e nel prendere decisioni. Non è un lavoro difficile. Non richiede particolari doti o qualità. Non è un lavoro che ti impegna il cervello e il corpo fino a farti dimenticare la realtà. Dovrebbe pertanto meritare uno stipendio adeguato, cioè la metà di quanto dà a me. Non rischia niente di suo. Non è lì perché sia più bravo di me. Lui comanda, noi dobbiamo eseguire anche quando sappiamo che è inutile o è una pazzia o è poco meno che impossibile. Comandare è facile. Chi non ha fatto una lunghissima gavetta nell'eseguire, non è adatto a comandare. Non puoi essere nostromo o ammiraglio se non sai nuotare, non puoi diventare capitano di fregata se non sai neppure nuotare.
La mentalità da sindacalista si fonda sull'idea che il rapporto tra datore di lavoro e dipendenti non possa essere costruito su una fiducia reciproca ma debba essere costruito solo su accordi contrattuali. Il sindacalista soffre di legalismo. Il sindacalista chiama “paternalismo” l'atteggiamento (molto raro, per la verità) del datore di lavoro che non considera il lavoro una merce qualsiasi (sostituibile, spostabile, trascurabile, comprabile a minor prezzo in Cina). Un sindacalista mi consiglierebbe di “far valere i miei diritti” contro il mio datore di lavoro che mi considera un contenitore di merce. Ma così non risolverebbe il problema che sto evidenziando.
Qualche mese fa un mio collega di lavoro ha avuto un “incentivo” per essere stato capace di risolvere un grave problema in una settimana anziché un mese come era stato pianificato dagli alti vertici aziendali. L'incentivo consisteva in una lettera di encomio consegnata da uno dei manager ed un distintivo aziendale, più un discorso di elogio e di incitamento a continuare a lavorare con l'efficienza mostrata in quel caso. Il giovane collega si è sentito onorato per tale trattamento, che però io ritengo altamente disonesto. Se un dipendente fa risparmiare all'azienda cento euro, gli si diano in premio sullo stipendio almeno cinquanta. Penne, agende, fermacravatte, sono come le perline agli zulù. Il tuo dipendente non è un rimbambito, non puoi regalargli quella spazzatura, che va bene al più come corredo agli auguri natalizi. Figurarsi quel distintivo che all'azienda sarà costato cinquanta centesimi. Poi, considerato lo stipendio del manager che gli ha fatto la predica, quanto è costata quella predica all'azienda? Parecchie decine di euro. Perché non glieli si dava in denaro sonante? Il manager non avrebbe perso un'ora del suo tempo ad elogiare uno che nemmeno conosce, né avrebbe dovuto umiliarlo consegnandogli un distintivo col logo aziendale come se fosse una introvabile reliquia di un santo medievale. Invece no. Il tuo lavoro è merce. L'azienda ti considera un contenitore di merce. Ti premia con un distintivo e una predica, perché tu non dubiti mai che il tuo lavoro è una merce, perché tu non sia mai tentato di pensare che quella merce possa premiare anche te oltre che loro.
Nella lingua di legno dei datori di lavoro, il termine “risorsa” indica una persona. Non poteva esserci modo più crudo per indicare che il lavoro di una persona è considerato come una merce, e la persona è considerata un contenitore di quella merce. Per cui un evento banale come un ritardo del treno oppure un mal di testa, riducono la merce contenuta nel contenitore. Ed il datore di lavoro si infuria contro il contenitore, che è responsabile della merce in esso contenuta e dovrebbe fare di tutto per aumentare tale contenuto (senza però aspettarsi un premio proporzionale, che danneggerebbe gli introiti del datore di lavoro).
Una volta il termine artigiano indicava un lavoro con una sua dignità. Oggi mi sembra indicare la categoria più umile dei mestieri: quella che produce qualcosa di concreto. Il termine artigiano mi sembra indicare quel contenitore a due zampe, contenitore di quella merce chiamata “lavoro” (il lavoro che produce, non il comandare o l'amministrare o il gestire.
Un'altra maledizione del lavoro è la definizione delle scadenze. Bisogna completare questo lavoro entro due mesi. Entro venti giorni. Entro la settimana prossima. Entro domattina. Gli eventuali imprevisti sono a carico dell'ultima ruota del carro, cioè di chi compie materialmente il lavoro. Il datore comanda, il lavoratore deve riuscire ad eseguire. Il datore dà la scadenza, il lavoratore deve inventarsi qualcosa per riuscire a rispettarla, altrimenti ci saranno attriti. Non tutti hanno la forza e la possibilità di scontrarsi con un datore di lavoro incapace di capire altro che il suo guadagno e le scadenze che pretende che siano rispettate.
Come odio quelle occasioni in cui il capo ti dice: preparati a lavorare su questa cosa, ma qualche giorno dopo cambia idea. Mi è capitato tante volte di dire agli amici: dovrò lavorare su questo, oppure: andrò lì a lavorare. E poi smentire tutto, magari proprio il giorno dopo averlo detto. A noi che produciamo, il nostro lavoro viene considerato merce, e le nostre persone vengono considerate come contenitori di quella merce. Se per caso ci ammaliamo, o anche se chiediamo un giorno di ferie per importanti impegni (quale può essere per esempio un funerale di un parente che abita lontano), il datore di lavoro si sente truffato, perché ai suoi occhi il contenitore a due zampe anziché contenere cento contiene venti. Non solo siamo contenitori a due zampe: siamo anche responsabili di garantirne la merce contenuta, cioè il lavoro. Chi pensa che il lavoro sia una merce diventa uno schiavista.
Parlando di donne, la differenza tra “attraente” e “sexy” sta nel fatto che “sexy” risveglia automaticamente tutti i bollenti spiriti (dico “automaticamente” perché se lei espone anche soltanto un po' di coscia o un po' di scollatura, lui si ritrova sempre a pensare “hmm!” anche se è una noiosa vacca invecchiata). La donna attraente, invece, ti attrae, ti colpisce, sta lì senza far nulla e ti fa venire perfino il batticuore. Non è “sexy” ma è bella. Non espone curve, non mette in mostra, non sottolinea, non fa intravedere, non suggerisce, non fa niente, niente di niente. Però ti colpisce. Misteriosamente, ti colpisce. C'è un livello di bellezza che è quasi estraneo a ciò che vedi. Esiste una bellezza che non ha bisogno di essere “sexy” (nel significato esatto di tale termine: “sessuale”; solo che “sessuale” è brutto e perciò utilizziamo l'ambiguo inglese “sexy”). Quel livello di bellezza che ti colpisce senza essere “sexy”, io lo chiamo “femminilità” (anche se questo è un termine tanto abusato): ti resta una specie di nostalgia quando lei non è più davanti ai tuoi occhi. La collega cattolica (come tutte le donne che apprezzo in modo particolare) ha questa capacità di vestirsi con femminilità (ma non è solo questione di vestiti).
Considerare il lavoro una merce è come un cuoco che prepara delle pietanze appena appena mangiabili, pensando: non dovrò mica mangiarle io. Se al posto del cuoco mettiamo un “datore di lavoro” e al posto degli ingredienti mettiamo le persone, capiamo cosa è il lavoro ridotto a merce.
Il costo di uno schiavo è il suo sostentamento minimo. Gli si dà il minimo indispensabile di cibo, vestiario, alloggio (poiché altrimenti smetterebbe di lavorare decentemente), e si estrae il suo lavoro.
Mi viene in mente che forse è proprio questa la definizione di società schiavista: considerare il lavoro una merce. Merce che ci si procura da chi chiede di meno (esempio: la delocalizzazione in Cina). Merce sostituibile con mere simile (esempi: lo spostare i lavoratori come pedine su una scacchiera, il lavorare curando solo le apparenze).
Ti viene da maledire il lavoro quando ti accorgi che i tuoi datori lo considerano come merce. Siamo pedine su una scacchiera. Oggi qui, domani lì. Quel che lasci a metà lo prenderà in carico qualcuno che non conosci. Oppure qualcuno che sai che detesta il tuo stile e i tuoi metodi. Così anche a me tocca lavorare su una montagna di spazzatura, sullo stile che più detesto (quello di consegnare in fretta curando solo le apparenze). Se il lavoro è merce, prima o poi viene la tentazione di curare solo le apparenze.
La fatica di ogni inizio di giornata è cercare un punto da cui cominciare a lavorare senza che questo comporti il pericolo di sprecare tempo e pazienza.

lunedì 21 giugno 2010

Questa sera mi sono attardato un po'. Il capo è passato a fare il solito controllo. Era contento ma non posso dire che fosse veramente contento di vedermi ancora al posto di lavoro. Chi opprime non prova mai vera soddisfazione. La soddisfazione che dà la fiducia ricambiata, non la dà nessun tipo di oppressione e nessun potere.
Non ho scelto io questo lavoro. Ma non ho nemmeno fatto troppo per evitarlo. Lavorando in questa azienda ho scoperto in questi anni quanto ci sia bisogno di un lavoro umano per vivere. I nostri nonni, e i loro nonni, facevano lavori durissimi ma con dignità. Lo sfruttamento dei lavoratori è sempre esistito, ma i nostri nonni riuscivano a non arrivare alla mia età in queste condizioni. Ai loro tempi, la massima soddisfazione di un figlio era di intraprendere, per una vita intera, lo stesso lavoro del padre. Anche il lavoro più umile. Ho nostalgia di quel senso del lavoro, di quella dignità che permetteva di apprezzare un lavoro umile per una vita intera.
Oltre alla stanchezza fisica, anche bruciori di stomaco. Questo tipo di lavoro è fatto proprio per distruggerti la salute.
Si può pensare che il capo sia scottato da qualche brutta esperienza. Che abbia dato fiducia a persone che non la meritavano e che perciò oggi si sente obbligato ad agire così, a non fidarsi di nessuno. Ma non riesco a figurarmi quante e quali terribili delusioni possa mai aver avuto per ridursi così. Infatti oggi si diventa datori di lavoro non perché si è bravi in un certo campo e neppure perché si sa essere capaci di organizzare ed amministrare. Si diventa datori di lavoro solo perché si hanno più risorse economiche di quelli che diventeranno poi i propri dipendenti.
Ancora una volta il capo finge di passare a salutare. Ci controlla. Ha paura che scappiamo. Non sa avere fiducia di noi e perciò agisce in un modo che inevitabilmente ci porterà ad essere i proverbiali topi che aspettano l'assenza del gatto per darsi al ballo sfrenato.
Anche oggi va sta finendo una giornata di gran lavoro attorno a dei minuscoli problemi. La data di consegna si avvicina. Sono ancora in alto mare e non posso neppure lamentarmi. Ci sono dei lavori misurabili, cioè quelli manuali. Porta queste otto casse nel deposito. Poi ci sono dei lavori non misurabili: risolvi questo problema, trova una soluzione, hai venti giorni di tempo. Servirebbero tre mesi e hai solo venti giorni. Servirebbero cinque mesi ed hai solo trentacinque giorni (nell'ipotesi che non ti ammali, che scioperi e altre cose non ti creino difficoltà, che il capo non ti addossi altri lavori e responsabilità nel frattempo). Per chi comanda sembra sempre tutto facile: si decide una scadenza e si affibbia il lavoro ad un sottoposto, al quale spetta trovare un modo per portarlo a termine e la fatica di riuscirci.

venerdì 18 giugno 2010

La collega cattolica sembra non reagire a nessuna provocazione. Ero certo che sarebbe bastato pronunciare qualche parola del dizionario cattolico per farla parlare e invece non è ancora avvenuto nulla. Forse è meglio che torni ad aspettare in paziente silenzio. Prima o poi dovrà pur dire qualcosa.
Il capo è di buon umore, ma questo non significa che la vita stamattina sia più tranquilla.
La collega cattolica mi ha stregato. Oggi indossa un paio di stupidi jeans ed io ancora non ho pensato nemmeno una cattiveria. I jeans squalificano e banalizzano la figura femminile. Specialmente quando sono aderenti: è come un tamburo bongo suonato mentre suona un flauto.
Ora ho capito il motivo per cui la collega cattolica non entra in discussioni religiose se non viene esplicitamente provocata: le ha già fatte ed è stata attaccata e dileggiata. Ha tentato di parlare del suo “il Signore” ma i colleghi atei le hanno dato contro, in ogni modo. A lungo tempo l'hanno derisa e dileggiata. Poi le discussioni sono andate scemando. Infine sono arrivato io. Vorrei rivederla in azione ma non posso farmi notare come un provocatore che di proposito avvia furiose discussioni.

giovedì 17 giugno 2010

Certe volte non si capisce se quegli scambi di parole e mezzi termini siano un metodo comunicativo standard oppure semplice ipocrisia.
L'ho provocata un po'. Parlando con la collega cattolica praticante ho usato il termine “peccati che nessuno considera più”. Ma lei non è entrata in argomento. Non ha nominato “il Signore”. Dovevo essere più esplicito. Non voglio un discorso sulla morale, voglio invece che lei parli della sua fede. Voglio che dimostri almeno un motivo per cui crede. A quel punto le dimostrerò che la sua fede è tautologica: crede perché crede, crede e basta. E allora tutte le volte passate e future che avrà nominato “il Signore” saranno totalmente sterilizzate, saranno equiparate al sospiro degli annoiati.
Quanto detesto le persone che entrano senza bussare, restano senza motivo, fanno perdere tempo, scrutano come se fossero spie pronte alla delazione e infine vanno via senza salutare. Il guaio è che tra di loro ci sono davvero dei delatori, pronti a inventarsi qualsiasi cosa pur di mettersi in mostra col capo. Quando il capo è ipocrita, quelle spie subito si adeguano. Le peggiori attitudini sono sempre contagiose.
L'ipermercato non è migliore del salumiere perché il salumiere vive del suo lavoro e non ha l'ossessione di massimizzare i profitti. Il salumiere perciò “produce”. Il lavoro, fino a non molti anni fa, era produrre qualcosa di concreto in risposta ad esigenze concrete di persone concrete. Per questo, anche se il capofamiglia aveva un lavoro umile, il massimo onore di un figlio era seguire le orme del padre.
Ho sempre la paura che tutto il lavoro che faccio si riduca alla pura apparenza. Ho tanta stima di chi produce qualcosa di materiale. Un panettiere produce qualcosa di concreto e di utile. Anche un muratore. Un calciatore o un cantante non producono niente. Bach e Mozart hanno prodotto musica, ma quella musica non diventa mai brutta. L'industria cinematografica e musicale di oggi produce solo brutture. Oppure produce bellezza passeggera che dopo pochi giorni o settimane hai già dimenticato. Il panettiere e il macellaio producono qualcosa di concreto. Il salumiere non produce ma distribuisce. Il salumiere è utile.
Definizione di ciclo di lavoro. 1) il cliente chiama. 2) riunione preliminare. 3) riunione. 4) altre riunioni. 5) ulteriori riunioni. 6) mancano pochi giorni alla consegna: altre riunioni. 7) ulteriori riunioni. 8) mancano pochissimi giorni alla consegna: ancora riunioni. All'improvviso qualcuno rifila il lavoro ad un poveraccio qualsiasi. Poco importa lavorare fino a tardi, di sabato e di domenica. 9) nessuna riunione, ma insistenza ossessiva sul povero lavoratore (l'unico che non ha avuto parola nelle riunioni) affinché termini al più presto. 10) consegna in fretta e furia. Cliente insoddisfatto. Riunione (succeduta da altra riunione) per decidere come mai il povero lavoratore ha lavorato così male: non poteva fare così o cosà? Non poteva prendersi più tempo? Colpa sua. Come al solito.
C'è un'ora di pausa pranzo. I primi trenta minuti vanno via per liberarsi dello stress accumulato in mattinata e per cercare qualcosa da mangiare. Gli altri trenta vanno via mangiando e tornando in ufficio. Gli oltre sessanta minuti successivi sarebbero di lavoro ed invece sono di stress che si accumula peggio di prima. Forse dovrei trovarmi un lavoro che preveda un sonnellino pomeridiano.
Mi sento stanco. Non è una stanchezza fisica. Forse il lamentarmi così spesso sul blog serve solo ad aggravare la stanchezza.
Forse è anche a causa del mio stato d'animo che trovo difficile lavorare qui. Se fossi più sereno avvertirei meno difficoltà di fronte alle piccole angherie di tutti i giorni.
Esistono alcune azioni disoneste che non si possono perseguire legalmente. Per esempio quando firmi un contratto dichiari di aver accettato tutte le sue clausole. Se una persona non è abbastanza intelligente o abbastanza pedante, finisce per accettare clausole fastidiose e pericolose.
La collega cattolica ancora non esce allo scoperto. Possibile che per avviare un discorso sulla religione ci sia bisogno che lo provochi io? Quasi non sto più nella pelle. Dopotutto gli unici discorsi interessanti sono il sesso e la religione. Ma di sesso se ne parla fino alla nausea.
Stamattina in metropolitana ho incontrato per caso una vecchia amica. Senza pensarci troppo le ho chiesto di rivederci. Mi ha detto di sì. Un attimo dopo scendeva dalla metropolitana, mentre io mi domandavo perché mai mi fosse venuto in mente di uscire con una donna brutta e insopportabile: è stato più forte di me, ma perché?
Bisognerebbe inventare una patente per diventare “datori di lavoro”. Per essere abilitato a “datore di lavoro” bisognerebbe superare un esame dove ci si dimostra capaci di avere fiducia nei dipendenti, di saper comandare senza stressare, di saper retribuire e premiare chi produce. Bisognerebbe dimostrarsi incapaci di fare mobbing. Incapaci di assumere una segretaria solo perché è carina. Incapaci di regalare premi e bonus a chi comanda senza saper lavorare. Ma andrebbe a finire che molti si compreranno il certificato. Sarebbe solo burocrazia in più. Il buonsenso non si riesce ad imporre per legge.
Capisco che un'azienda debba “cautelarsi”. Ma per cautelarsi non è necessario vessare il dipendente. Anzi, è controproducente. Un dipendente tenuto inutilmente sotto stress rende meno, lavora male. Un dipendente che vede il datore di lavoro approfittare di ogni escamotage per tenerlo sotto pressione si sentirà prima o poi in necessità di fare altrettanto. Un datore di lavoro che non presume la buona volontà e l'onestà del dipendente finisce presto per indurlo ad essere disonesto (o ad agire con la forza chiamando un avvocato). Si parla di rapporto di fiducia e poi si vede che quella fiducia non c'è mai stata.
Lamentarsi su un blog aiuta a liberarsi di un peso che non puoi affidare a nessun altro.
In questa strana Italia il consiglio più inutile è: “perché non vai da un avvocato?” Se dovessi andare da un avvocato ogni volta che il capo ne fa una delle sue, dovrei abitare nell'ufficio dell'avvocato durante le ore di lavoro e a casa dell'avvocato fuori orario di lavoro.
In questa strana Italia, per lavorare tranquillo devi avere due caratteristiche: essere onesto, ed essere grande amico di un grande avvocato al quale poter telefonare, in caso di necessità, per avere una lettera che minaccia azioni legali.

mercoledì 16 giugno 2010

Ennesimo controllo del megacapo a Fantozzi e Filini. Filini è quello che non mi ha onorato neppure di un “grazie”. Filini si vanta col megacapo della grande soluzione tecnica che “lui” ha escogitato. Il megacapo fa delle domande cercando di trovare un punto debole, ma la soluzione è abbastanza efficace, le obiezioni del megacapo non la scalfiscono. Neppure un “grazie”, nemmeno adesso. Neppure l'onore di una citazione, nemmeno l'umiltà di dire che non è tutto merito suo. Il megacapo va via: anche lui senza ringraziare. Va via con un'espressione indifferente, come se non fosse successo nulla. Va nella sala contigua, probabilmente a cercare qualcosa che non va come nei suoi sogni, va a cercare qualcuno da sgridare. Lo schiavista non sa apprezzare il lavoro dei suoi schiavi. Ed i suoi schiavi non sanno apprezzare il prezioso e raro aiuto che a volte trovano. L'atteggiamento da schiavisti uccide anche la generosità. La cattiveria di chi comanda abbrutisce ed incattivisce i subordinati.
La collega cattolica ancora non entra in argomento. Forse sono io che sono troppo emozionato dall'idea di poterle rispondere a modo mio. Quando si parla del cattolicesimo tutti hanno sempre da dire la loro. Il cattolicesimo è come il sesso: argomento di infinite discussioni. Con lo sport o con qualsiasi altro argomento si finisce per annoiarsi.
Poche cose al mondo sono musicali così come è musicale ascoltare una voce femminile che chiama il tuo nome.
Un collega di lavoro in difficoltà. Non sa come uscirne. Non sa a chi chiedere. Gli do un consiglio distratto, riesce a venirne fuori. Invece di ringraziare, almeno una finzione di grazie, telefona subito al cliente per annunciare di aver risolto tutto. Neanche un grazie. Termina la telefonata e riprende a lavorare. Neppure un grazie. Sono tutti pronti a ringraziarti per qualsiasi cosa, ma non ti ringrazieranno mai per un aiuto concreto e insostituibile. Si è preso il merito e non mi ha concesso neppure un “grazie”. Due sillabe troppo costose.
Stamattina la collega cattolica ancora non ha nominato “il Signore”. Mi sento un po' strano: quasi desidero che lei ricominci a nominarlo, dandomi modo di intervenire nel discorso e dire la mia.
Un lavoro stressante ti annichilisce e ti rende vecchio e decrepito già a quarant'anni. Solo i mestieri più stupidi non fanno invecchiare: cantanti, politici, attori, opinionisti... cioè soprattutto tutti quelli che non “producono” qualcosa di concreto e non hanno avuto bisogno di una particolare preparazione per accedere al mestiere.
Questo lavoro è proprio da poeti: senza ispirazione diventa difficilissimo andare avanti.
Detesto le donne in jeans. I jeans sono uno degli elementi più contrari alla femminilità. Non si può neppure fare una distinzione tra jeans eleganti e jeans svaccati perché non basta cambiare il nome e il costo per far diventare buona una cosa contraria alla femminilità.

martedì 15 giugno 2010

Come creare un'azienda “alla moda”: avere tanti soldi; rimediare uno spazio e allestirlo come una conigliera; avere la mentalità da schiavista; riempire la conigliera di disperati, pronti a subire ogni vessazione pur di portare una finzione di stipendio a casa; controllarli ossessivamente; parlare sempre come se loro fossero dei fortunati a poter lavorare in quelle condizioni penose; considerare il loro lavoro come una merce (che in ogni momento si può comprare altrove a minor prezzo); sbraitare spesso e rumorosamente; fare sempre la parte dell'unico che soffre, che lavora e che ci perde soldi (specialmente se contro l'evidenza). Un'azienda così è talmente alla moda che non si distingue più dalle altre.
Controllando la posta elettronica cento volte al giorno e aspettando l'ora di andare a casa a riposare...
L'istinto del lavoratore: tornare a casa, riabbracciare la sua donna, cenare con lei. Io non ho una lei da riabbracciare. L'uomo non è fatto per vivere da solo: solo pochi eroi (e parecchi stupidi) ci riescono. Lavorare non basta: ci vuole un sostegno umano. Non si può vivere solo per il lavoro. Il lavoro è uno strumento. Amare una donna e formare con lei una famiglia, non è uno strumento.
La crisi di sonno mi è passata, ma si approssima l'ora di andare a casa. Normalmente è difficile far coincidere i cicli naturali del corpo con i cicli degli orari di lavoro. L'uomo non è una macchina.
Sono emozionato come un tifoso allo stadio: la sfida è cominciata, le squadre stanno entrando in campo. Le squadre siamo io e la collega cattolica che ha osato dire “il Signore” in una conversazione. Ero un po' tentato di scommettere tra me e me che lei sia una di quelle “tutta casa e parrocchia”, abituata ad utilizzare le parole “il Signore” in ogni conversazione. L'intuito mi dice che lei non è stupida come può sembrare. La partita sarà avvincente proprio perché sarà dura. Devo aspettare che lei si sbilanci di nuovo su qualche argomento religioso: non posso provocarla di proposito.
Per la quarta volta il capo entra all'improvviso e mi trova distratto. Oggi non è giornata. Mi sento come un ragazzino a cui sta per giungere il rimprovero della maestra.
Quando una frase comincia con le parole “bisogna valutare”, puoi star certo che si tratta di guai e di fatiche.
Quando mi sento stanco esco per un minuto a prendere una boccata d'aria. Ma stavolta cinque minuti di aria mi hanno dato solo due minuti di forza. Ora sono più stanco di prima. Ci vorrebbe una branda per riposare. Lasciatemi dormire per un'ora e riuscirò a lavorare per il resto del pomeriggio. Restare stoicamente al lavoro da adesso fino all'ora di chiusura significa lavorare poco e male. Ma il capo non lo permetterebbe mai. Per il capo la nostra salute conta poco. Siamo degli schiavi che devono lavorare sempre, in qualsiasi condizione fisica, in qualsiasi orario. Qualsiasi cosa facciamo è sempre poco.
La scena che più spesso mi torna in mente è la galera romana, con gli schiavi ai remi e l'aguzzino con la frusta. L'aguzzino urla più che può. Di quando in quando si gira verso uno degli ufficiali in coperta cercando uno sguardo di approvazione. Per quelli in coperta è importante solo che la nave vada avanti. A loro non interessa ciò che avviene sottocoperta.
Il capo arriva come una furia improvvisa. Finge di chiedere qualcosa a caso, informazioni di cui non ha realmente bisogno: vuole solo accertarsi che siamo qui. Poi va via, mentre tutti restano per qualche minuto in ansia. Finalmente l'ansia si riduce. La collega cattolica lancia un'altra parola religiosa. Provocazione gratuita. Non rispondo, voglio proprio vedere se tenterà di convertirmi.
Il capo arriva quando gli pare: è il capo, no? Il suo lavoro consiste in due cose: controllare che i dipendenti sgobbino (cercando di non dare l'impressione dell'aguzzino che è) e contrattare paghe e pagamenti (come se ogni centesimo risparmiato fosse un centesimo che finisce nelle sue tasche).
Ecco, ci mancava solo la collega cattolica che ha nominato il suo Signore. La giornata si fa interessante.

lunedì 14 giugno 2010

Se è così terrorizzato dall'esistenza dei pedofili - milioni, miliardi di pedofili pronti ad attentare a sua figlia - perché le ha permesso di andare a scuola? Perché le ha scattato foto? Perché lascia che sua figlia si vesta con qualcosa di meno coprente di un burqa metallico? Forse ho ragione io quando dico che la TV serve solo a fabbricare e dirigere psicosi collettive?
A furia di sentir parlare di pedofilia al telegiornale stanno diventando tutti matti. Come questo tizio che ha una figlia di otto anni: crede di vedere un pedofilo in ogni prete e in ogni uomo adulto non sposato. Crede che i pedofili si aggirino a milioni attorno a sua figlia. Crede che i pedofili siano milioni. Crede che i pedofili siano riconiscibili dal suo rozzo intuito.
Chi non sa lavorare, comanda. Chi non sa neppure comandare, decide le improrogabili date di consegna. La società degli schiavi è questa. Gli schiavi negri nelle piantagioni americane sono nulla a confronto della nostra società.
Dopo tante settimane di lavoro trovi quel minuscolo inghippo che ti manda in panico. Lavoro inutile. Andava rifatto completamente. Come si fa a dire al capo che le sue grandiose idee non tengono conto di eventualità come questa?

venerdì 11 giugno 2010

Tenere questo blog è uno dei miei metodi antistress.
Sarò io ad avere la fissazione che gli altri controllano se sto lavorando? Non posso sorridere: capiscono che sono distratto. Non posso stare troppi secondi senza premere qualche tasto della tastiera: capiscono che sto facendo altro. Non posso tenere la stessa postura per troppo tempo: capiscono che sono distratto. Non ho mai voluto denunciare il loro atteggiamento: i miei problemi sono già abbastanza. L'importante è poter lavorare, ricevere un adeguato compenso, e potersi distrarre di tanto in tanto. La distrazione è fondamentale. Un lavoro che stressa il cervello ha bisogno di piccole ma frequenti pause. Controllarsi a vicenda è solo un modo per stressarsi a vicenda. Lo stress non è il motivo per cui lavoriamo. Non è necessario.
Da qualche parte ho letto il termine Travet. Dovrebbe essere una versione bonaria ed educata (e anzitutto non volgare) del Fantozzi di Paolo Villaggio. Magari sono un Travet anch'io.
Il punto di accumulazione dei guai è il venerdì. Il venerdì concentra e sublima tutte le richieste impossibili da realizzare. Noi esseri umani siamo abituati al “buco nero” che comincia il venerdì sera e termina il lunedì mattina. In realtà, dati i tempi tecnici di entrata in ibernazione e risveglio, tale periodo andrebbe esteso dal giovedì sera al martedì mattina, estremi esclusi. Ora sono le 17, ed è venerdì. In questa specialissima ora si concentrano tutti i problemi da risolvere “entro stasera”, cioè prima di tornare a casa. Rinviarli al lunedì significa rinviarli almeno a martedì, perché il lunedì comincia sempre con nuovi guai ancora più urgenti di quelli attuali. Diventa sempre una corsa contro il tempo e contro lo stress.
Mettere mano ad un lavoro fatto (male) da altri. Dover lavorare in fretta aggirando i problemi piuttosto che risolvendoli, aggiungendo caos. Tutto questo in eredità al prossimo che ci metterà mano. Anche lui tenterà di spiegare al capo che è più costoso rappezzare una cosa fatta malissimo che rifarla da capo. Ma il capo, anche allora, non ascolterà. Essere capi significa spesso essere allergici al buonsenso e incapaci di fidarsi dei propri subordinati (cioè di quelli che materialmente compiono il lavoro).
Quando qualcuno entra in ufficio senza bussare, spero sempre che si tratti del capo (in modo che mi veda che sto lavorando). Sono sempre convinto che lui pensi di essere l'unico che lavora e che noi siamo dei pigroni capaci solo di reclamare lo stipendio. Ma non è vero. Nella mia giornata di lavoro ho cento distrazioni (questa è una delle cento) ma porto a termine quel che mi viene chiesto. Ho solo la pessima abitudine di non far troppo per far notare che lavoro davvero.
Ciò che più odio è la slealtà di chi per definizione dovrebbe esserti leale.

giovedì 10 giugno 2010

Quanto odio i documenti scritti da quei saccenti giovincelli con laurea a pieni voti e incapacità di guardare le cose reali della vita reale. Una laurea a pieni voti significa solo che sei bravo con i libri (e con le public relations con i docenti).
Non è importante l'esistenza del problema, ma la percezione (da parte del capo o del cliente) della possibile esistenza di un problema.
Incredibile, ancora stanno tentando di fare qualche magia sul contratto. Magia a loro favore. Abracadabra. Distrattamente mi si porge il contratto da firmare, quasi invitandomi a non leggere cosa ci hanno infilato adesso. Mi dispiace, ma non firmo senza leggere. Toh, un piccolo errore. Toh, una stranezza. Toh. Toh. Toh.

mercoledì 9 giugno 2010

Il capo era venuto solo a controllare la mia presenza. Non mi parla. Freddo e distaccato. Parla con gli altri colleghi presenti. Di argomenti banali. Uno ad uno. Come se fosse venuto qui per dimostrare che ignora la mia presenza (ma se fossi andato via alle sei, non l'avrebbe... ignorata).
Che strana e fastidiosa sensazione il doversi far vedere dal capo mentre si sta ancora in ufficio a quest'ora.
Sono le sei e un minuto e già cominciano a scappar via tutti.
L'Italia è quel paese dove non si fiata per un dieci o venti per cento in più sul costo di un televisore da quarantasette pollici, ma è il posto dove ci si straccia le vesti per una telefonata al cellulare costata quindici centesimi più del previsto. Questa forma di avarizia miope (distratti sulle grandi cifre, avarissimi sugli spiccioli) si applica soprattutto nel mondo del lavoro.
Ingegneri a meno di mille euro al mese. Maestrine a milleseicento che producono analfabeti. Programmatori a settecento euro al mese. Manager che sanno solo trafficare tangenti, a parecchie migliaia al mese. Mentre i camerieri vivono quasi solo di mance, ci sono quegli impiegati comunali con doppio o triplo lavoro. Meno “producono” e più vengono pagati.
In Italia (ma temo che un po' avvenga anche all'estero) il lavoro sembra retribuire in modo inversamente proporzionale alla ricchezza prodotta. Più produci, meno ti pagano. Più è inutile un lavoro, più viene pagato.

martedì 8 giugno 2010

Fine di questa disavventura. Mi sento sollevato. Tutto il veleno che hanno sputato contro di me, non ha più alcun effetto: sono fuori, sono in un altro mondo. Quasi quasi mi vien da desiderare che avessero sputato fuori ancor più veleno, inutile veleno che non fa più effetto, perché sono fuori, sono fuori da questa bolgia, cioè sono stato sollevato da ogni responsabilità di questo schifo.
Ed oggi il capo vorrà fare la “resa dei conti”, come nel Far West... finalmente ha occasione di accusarmi di voler fare il furbo.
Ha creduto che io volessi fare il furbo perfino quello che mi stimava e aiutava di più. Anche se dal cliente qualcosa ha cominciato a funzionare, resta una giornata da dimenticare. Ma proprio poco fa ho avuto notizie che confermano le mie paure peggiori.
Ieri, dal cliente, una figuraccia durata tutta la giornata. Il momento peggiore: quando mi hanno sgridato pensando che io volessi fare il furbo (e invece stavo solo tentando di far guadagnare tempo). Non ho avuto la possibilità di discolparmi perché tutti erano già scatenati come avvoltoi su un cadavere in putrefazione.

venerdì 4 giugno 2010

Per scrivere nel blog occorre avere mano lesta, mouse lesto, e pochi attimi liberi. Ci vorrebbe qualcosa che permetta di scrivere col pensiero, così il blog si riempirebbe di decine di pagine al minuto. Il titolo dovrebbe essere: notizie dal girone degli schiavi. Ma forse dovrei cambiare un titolo al giorno, perché ogni giorno è un problema nuovo, ogni giorno comincia con qualche brutta sorpresa.
Lunedì andrò dal cliente a prendermi le sgridate che toccavano invece al capo. Il capo va dai clienti solo quando si tratta di chiedere cosa bisogna fare e quanti soldi bisogna avere. Quando invece c'è da prendere sgridate, il capo si eclissa all'istante.
Finita la settimana, tanti problemi superati, tanti nuovi problemi. Il capo, per darsi una ripulita alla coscienza, viene da me a fingere un po' di comprensione. Devio il discorso su argomenti di lavoro. Lo devio più volte. Forse il capo certe volte sa anche chiedere scusa (non riesco a capire se qualcuno gli abbia ingiunto di farlo oppure se è di sua iniziativa... certe volte, ai livelli più alti, sembrano abbastanza informati sulle magagne che avvengono in questo girone di schiavi).
La collega che rischia di innamorarsi di me (solo perché non la maltratto come gli altri) è andata via prima. Ho detto un “ciao” così automatico che me ne sono reso conto solo qualche attimo dopo. Sono diventato un robot. Meno male che ho questo canalino di sfogo che è il blog.
Bevo tantissima acqua per combattere i bruciori di stomaco... Non ricordo di aver mai sofferto tanto di bruciori di stomaco come in questo periodo. Certamente una delle cause è lo stress di questo lavoro. Ci manca solo che per risolvere il problema dei bruciori di stomaco comincio a prendere medicinali: dunque, per lavorare, servono medicinali?
Un uomo con meno scrupoli di me approfitterebbe facilmente di quella donna in crisi. Gli uomini, spesso anche senza accorgersene, vanno a caccia di donne in crisi, perché quando una donna è in crisi diventa facilmente manipolabile. Talvolta succede che la donna in crisi si costruisca tutto un mondo di fantasia dove “tutto andrà bene”, ed invece è già nelle grinfie di chi la vuole sfruttare. Anche il solo tenerla al guinzaglio (soddisfazione di bassi istinti dell'animo) è un modo di sfruttarla. Certe donne non si accorgono di essere sfruttate neppure quando ciò è diventato evidente a tutti i conoscenti.
Mi sforzo di pensare a Lisa T., ma non ci riesco. Stamattina non l'ho vista. Che sia malata? Al momento il personaggio che sembra occupare la mia vita è la collega in crisi. Mi accorgo che sono disposto ad essere affettuoso con le persone che mendicano affetto partendo dal presupposto sincero di non meritarne, mentre avverto la tentazione dell'essere cinico con chi invece pretende affetto, rispetto e attenzione. Mi colpisce tanto il vedere questo mendicare.
Ci mancava anche la collega di lavoro in crisi matrimoniale. Il suo comportamento, a ben guardare, è il tipico di chi va mendicando affetto. E così anche uno come me, che non è abituato a maltrattare le donne, le diventa improvvisamente familiare.
Come al solito. Arriva il capo, trafelato, telefonante. Mentre parla a telefono, parla anche con noialtri: ci guarda, con aria accusatoria, e chiede: “e allora?” Vorrei rispondere “allora-cosa?” ma resto in silenzio. Il cliente si lamenta, qui non è pronto niente, vi avevo già detto che dovevate fare, eccetera. La solita solfa. Gli sorrido (ma è un'espressione di nervosismo) e gli dico che quelle cose che mi sta comandando adesso, di venerdì pomeriggio, le ho dovute fare nei ritagli di tempo tra una telefonata e l'altra. Continua a dirmi che se il cliente non vede tutto pronto si lamenterà ancora, e tutte le altre cose che già sappiamo. Ci tratta (e tratta soprattutto me) come se fossimo dei bambini capricciosi e smemorati. Per accusarlo di mobbing bisognerebbe riuscire a descrivere esattamente il suo comportamento, in modo tale che sia riconoscibile come tale anche ai suoi tirapiedi. Ma non ho le parole. Chi subisce il mobbing ha come prima grande difficoltà il trovare le parole adatte per descrivere cosa ha subìto. Lagnarsi per quello che si subisce, va bene in un blog, ma non in una denuncia. In un blog ti capiranno anche se non sai usare un linguaggio legalmente ineccepibile.
Lavorare in queste condizioni (fretta, disorganizzazione, mancanza di informazioni, incapacità di stabilire chi e quando deve dare ordini...) fa diventare davvero schiavi. Me ne accorgo da come sto degradando nel vestirmi, nel mangiare, nel rispondere al telefono. Non pretendo un lavoro comodo. Chiedo solo di poter lavorare facendo quel che so fare bene, senza essere intrappolato in problemi che richiedono scienze poco esatte (come l'abilità nell'essere meschini, l'abilità nello scaricare sugli altri il risultato dei propri limiti e così via).
Il collega che vuole mettersi in mostra con i capi solleva problemi su problemi. Ci manca solo che chieda di mettere in ordine la polvere sugli scaffali in modo da accelerare il lavoro alla donna delle pulizie. Questo genere di cose, naturalmente, succede solo di venerdì e solo con i colleghi più meschini...
Quanto odio la frase: “non puoi tirarti indietro”. Viene pronunciata per dirti che non hai scelta. Viene pronunciata per importi qualcosa.
Comincia un'altra giornata difficile. Sono le nove e sono già tutti isterici.

giovedì 3 giugno 2010

Da tanti anni penso sempre che vorrei innamorarmi di una donna. Ma le donne che trovavo non mi bastavano mai. Il desiderio vero, infatti, è di essere ricambiati. Innamorarsi è facile, ma essere ricambiati è raro.
Nella mail al cliente ho dimenticato di dirgli che doveva separare le due cose. Sono assolutamente sincero se dico che è stata la fretta del capo (del quale in quel momento sentivo il fiatone sulle spalle) a farmi dimenticare quella piccola cosa. Ora ci vorrà del tempo per risolvere quest'altro problema causato dalla stessa esistenza del capo. Se il capo non ci fosse, avremmo tutti lavorato tranquilli, impiegando meno tempo, facendo molti meno danni, soddisfacendo il cliente e senza essere stressati. In questo lavoro l'ostacolo principale è il capo, che non sa lavorare, non sa dare ordini, non sa rispettare il lavoro altrui, non sa neppure riconoscerlo ed apprezzarlo. Se sapesse almeno riconoscere ed apprezzare i risultati che raggiungiamo, lo sopporteremmo più facilmente.
Il capo è un maestro dell'arte di far perdere tempo agli altri. Mi ingiunge di andare dal cliente. La segretaria mi chiama per sapere come e quando ci vado. Rispondo alla segretaria che deve chiederlo al capo. La segretaria lo vuole sapere da me (infatti nemmeno lei vuole perdere tempo col capo). Il capo non si trova in giro. Quando lo troverò, mi dirà che è colpa mia che non gli ho chiesto subito come e quando andare dal cliente: ne sono assolutamente sicuro.
Ancora il capo. Stavolta, di una collega, chiede: “come? sta in pausa pranzo?” Il capo ha dimenticato che per lavorare occorre anche mangiare. Vorrei insistere per far notare quel tono acido: “come? sta in pausa pranzo?” Non è mica andata a sciare a Timbuctù...
Stamattina ero nel treno della mia cara Lisa T. (è sempre un nome di fantasia ma suona benissimo) ma non l'ho vista. Forse ne ho intravisto i capelli in mezzo alla ressa di lavoratori e studenti, ma mi è stato impossibile avvicinarmi di più per verificare.
La speranza (che qualcun altro vada dal cliente a umiliarsi al posto mio) è sempre l'ultima a morire. Il cliente non sa cosa vuole, e qualsiasi cosa gli si presenti sembra sempre incompleta. Il capo sa solo vantarsi col cliente, e non si ricrede neppure quando è irrefutabilmente dimostrato che il principio di tutti i ritardi sono le sue idee. Così, oltre a fare la parte del lavoratore malpagato, maltrattato e malvisto, mi tocca anche la parte del capro espiatorio.
Il capo corre trafelato (ma non cammina mai? corre sempre?) a chiedermi se lunedì mattina posso stare dal cliente. Non è una gentile richiesta, ma è un ordine perentorio: “lunedì vai in vacanza dal cliente, eh?” Umorismo inglese. Risposta serafica: “solo se è necessario: non vorrei che si prendano decisioni senza conoscere veramente quale è il problema”. “Qui abbiamo un enorme problema: dal cliente non funziona niente!” “Funziona tutto tranne quel blocco banale che...” “Sarà banale, ma è bloccato! Lunedì bisogna stare dal cliente”. Notate la delicatezza. Notate inoltre il fraseggio impersonale: “bisogna stare dal cliente”, sottinteso (urlato): “tu vai dal cliente”.
Il capo ha tutto un suo dizionario di sinonimi e contrari che utilizza spessissimo. “Tu aggiungi”, dice, come se si trattasse di un'operazione istantanea. Aggiungere, integrare, connettere... tutte operazioni che a volte richiedono giornate intere, e spesso conviene più rifare da capo l'oggetto da integrare che integrare quello mal fatto. Ma il capo non ne vuole sapere: bisogna aggiungere, occorre integrare... Ciò che dobbiamo fare noi gli sembra sempre banalmente eseguibile in una frazione di secondo. Ci provi lui, ad aggiungere e connettere.
Tra poco il capo mi dirà di lasciare tutto ciò che sto facendo per dedicarmi al problema che lui ha creato con il cliente. Dovrò sforzarmi per non rispondergli quel che si merita...
Il capo entra trafelato dicendomi che tra venti minuti bisogna dare una risposta al cliente. Mi dice che mi ha mandato una mail, che ovviamente non è ancora arrivata (avrà cliccato su “invia” mezzo secondo prima). Mi ripete a voce il contenuto della mail e poi mi dice “ci vediamo tra cinque minuti”. Non erano venti? E cosa cambia?
Oggi le donne utilizzano tante stranezze per sentirsi belle. Il motivetto a cuori sulle unghie è uno dei più banali. Quel che mi colpiva era il suo fastidio per il fatto che io ho notato quelle cose. Non sarò il suo tipo, altrimenti ne sarebbe stata contenta. Mi chiedo come mai il suo “uomo ideale” abbia bisogno di vedere le unghie delle dita tappezzate in quel modo. Che uomo cerca, se utilizza strategie da asilo infantile? Vuole spacciarsi per candida e ingenua? Dunque non è né candida, né semplice, né ingenua? Vuole una storia sentimentale “come quelle dei film” in cui è tutto uno scorrere di sospiri, di cuori, di moine e di coccole? Una persona maggiorenne e vaccinata ed in età da matrimonio non dovrebbe avere di queste fissazioni.
Stamattina, nel treno della metropolitana, ero seduto di fronte ad una bionda che aveva sulle unghie un motivetto a cuori. Ho pensato che ai miei tempi solo le bambine di sei anni non avrebbero avuto vergogna ad imbrattarsi così le unghie. Quella seduta davanti a me aveva l'aspetto e l'attrezzatura da studentessa universitaria. Ho notato distrattamente il motivetto sulle sue unghie mentre mi voltavo, e poi sono tornato di scatto a fissarle. Una scena come nei cartoni animati. Lei ne era infastidita. Forse se ne vergognava pure. Per tutto il resto del viaggio ha tenuto ogni volta le mani in modo che non si vedessero le unghie. Se io fossi stato il professore da cui oggi avrebbe dovuto sostenere un esame, avrei esordito simpaticamente con: “signorina, cosa ha sulle unghie?” Mi chiedo come mai un vezzo da bambine sia diventato in pochi anni una necessità per sentirsi belle ed apprezzate.

martedì 1 giugno 2010

Domani chiusura aziendale. Finalmente posso andar via pregustando una giornata senza assilli.
Che fifa... Il capo era venuto qui col solito passo silenzioso e ho abbassato in fretta e furia la finestra del blog. Penso che non se ne sia accorto.
Per il capo la giornata di lavoro altrui comincia il giorno dell'assunzione e termina qualche anno dopo il licenziamento. La sua invece comincia in tarda mattinata, quando tutti gli altri lavorano già da almeno un'ora, e termina in tarda serata, quando i pochi presenti avrebbero già diritto ad almeno un paio d'ore di straordinario. Il capo non sa, o finge di non sapere, che l'orario “nove-diciotto” termina alle 18:00. Magari anche alle 18:10, 18:15, perfino 18:20. Il capo non sa, o finge di non sapere, che se si presenta alle 17:45 per comandarti una cosa che ti impegnerà almeno un'ora, cercherai in ogni modo di rinviarla al giorno successivo, quando sarai più riposato, più calmo, più pronto ad affrontarla. Il capo si meraviglia, o finge di meravigliarsi, che tu, con un piede già fuori dall'ufficio, ti rifiuti di affrontare un problema che richiede i serbatoi di tempo e pazienza pieni.
A quest'ora sono pieno di guai e mi telefona una conoscente in profonda crisi sentimentale. Le situazioni complicate si aggrovigliano sempre tutte contemporaneamente.
E ora chi glielo dice al capo che il suo pupillo, per farmi risparmiare mezz'ora, mi ha già fatto perdere mezza giornata? L'iniziativa entusiasta degli ignoranti produce sempre risultati disastrosi. I disastri raddoppiano quando quell'ignoranza è appoggiata e lodata dai capi.
Se ti vedono per un solo momento distratto, sono tutti pronti a gridare in coro che loro si distraggono solo quando non c'è da lavorare. Questo è il meccanismo con cui nasce l'ipocrisia in ufficio: tutti sono pronti a scandalizzarsi di qualcuno e perciò tutti si sentono costretti a fingere di lavorare anche quando hanno bisogno di distrarsi per un attimo. L'ipocrisia deve essere probabilmente una delle figlie dell'aggressività e della prepotenza.
Quando mi sento stanco, mi dico sempre “resisti, resisti!” Però mi rendo conto che è diventato solo un modo per esprimere tra me e me un disagio che non passerà certo con una parolina magica. Infatti la formula magica “resisti, resisti” non funziona neppure se viene pronunciata dalle persone che più ami.
Non si tratta solo di scegliere le parole giuste al momento giusto. Si tratta anche di “creare” il momento giusto. Sa che qualcuno lo sta per criticare: perciò lo interrompe continuamente, cambia discorso, esalta le piccole cose e minimizza le grandi cose. Dato che è il capo, può sempre abbandonare la discussione in ogni momento (cosa che non possono fare i suoi sottoposti). Sa giocare un argomento solo quando ha la certezza di poter “vincere” nella discussione. Combattere con uno così abile nella dialettica è inutile: solo i fatti possono frenarlo. Ma anche per quelli ha un trucco: inveisce ancor prima di sapere i fatti, così ha sempre la scusa del non aver saputo per tempo, cioè che sarebbe tutta colpa della nostra lentezza.
La dialettica del capo è tale che riesce a lodare sé stesso per il lavoro che avrebbe fatto (in realtà non lo ha fatto lui), facendo sembrare che siano stati gli altri a lodarlo. Occorre esercitarsi per anni interi prima di raggiungere una simile abilità. Abilità dialettica che ammiro sempre, tranne quando viene utilizzata contro di me. Tutto il suo successo è costruito su tale abilità dialettica: è “esperto” perché sa vendere bene le proprie chiacchiere e il lavoro degli altri.
Il capo è quel genere di persone talmente abituate ad umiliare gli altri, che ha sempre pronto un argomento utile per umiliarti. Può darsi che dica, sorridendo, che ti limiti a una doccia alla settimana. Si giustificherà dicendo che scherzava, ma nel frattempo ti ha umiliato davanti a tutti, con quel trucco meschino. Se non sei capace di rispondere a tono, con uguale sorrisino e senza lasciarti guidare dai nervi, riuscirai solo ad aumentare il tuo livello di umiliazione.
A momenti verrà il capo a chiedere a che punto siamo. Siamo allo stesso punto di prima: la pausa pranzo non fa avanzare granché il lavoro.
Triste il momento in cui ti auguri che il resto della giornata passi rapidamente.
Il capo certe volte arriva rumorosamente e certe altre arriva più silenzioso di un gatto. Ancor prima di vedere, già grida che stiamo perdendo tempo. Prima o poi entrerà in un ufficio vuoto urlando: “qui non sta lavorando nessuno, eh?”.
Forse dovrei qualificarlo come un caso di mobbing. Ma all'origine di tale mobbing c'è un suo limite, una sua insicurezza. Un milione e mezzo di lavoratori italiani vittime del mobbing, secondo una stima ISPESL. In quel milione e mezzo ci sono anch'io. Ma credo di aver identificato la causa (la strana psicologia del capo) e credo pertanto di aver sviluppato qualche contromisura. Le mie “serafiche” risposte alle sue ansiosissime obiezioni mi faranno passare per un antipatico saccente. Forse anche per scansafatiche (ma qui tutti sanno che se il capo ti accusa di essere scansafatiche, probabilmente non lo sei). Qualche giorno fa ho visto in diretta un altro dei “sottoposti” agire allo stesso modo. Stava raccogliendo le sue cose per andare via senza accumulare troppo “straordinario non pagato”. Il capo pretende controlli, pretende mail, pretende verifiche. Quel “sottoposto” ha resistito alla tentazione di dire “sto andando via, proprio adesso vuoi tutte queste cose?” Ha preferito rimarcare l'inutilità di tutte quelle richieste, rispondendo con un ragionamento sintetico, sembrava quasi un elenco di scuse di chi ha fretta ma centravano bene le questioni. Quando lo vidi parlare così, mi dissi che anch'io dovevo continuare. Il capo assunse un'espressione infastidita, ma tacque per un secondo. In quel preziosissimo secondo di pausa il “sottoposto” infilò la porta dell'ufficio e andò via.
Il capo è sempre convinto che noi qui si perda tempo. Per qualcuno degli altri può essere anche vero, ma non può fare di tutta l'erba un fascio. Non si fida di me, nonostante tutti i risultati che grazie a me sono stati raggiunti. Non si fida di nessuno. Ma all'origine di questa sfiducia c'è solo la sua impellente necessità di sgridare chiunque non sia superiore a lui. Sembra rivalersi contro noi poveracci, come se volesse vendicarsi di qualcuno a cui non può dire di no. Accumula brutte figure col cliente per la propria incapacità e poi vuole rivalersi contro di noi poveracci che facciamo materialmente tutto il lavoro.
Il capo è tornato per urlare che stiamo perdendo tempo. Mentre ancora mi diceva che io non ho mandato la mail con gli aggiornamenti, seraficamente gli rispondevo che se non mi arriva la segnalazione (anche questa via mail) non posso mandare nessun aggiornamento. Lui continua a strepitare che stiamo perdendo tempo. Gli leggo gli orari della mail ricevuta e di quella che ho appena inviato: “Dodici e dodici; dodici e quindici; abbiamo perso tre minuti”. Lui non è contento e insiste che sto perdendo tempo. Rispondo candidamente ammettendo di aver perso ben tre minuti per leggere la segnalazione, scrivere le indicazioni e inviarla al cliente. Tre minuti.
Il capo si sveglia al mattino e decide che “qualcosa” non funziona. Subito comincia ad aggirarsi tra gli uffici a caccia di quel “qualcosa”, senza sapere cosa sarà. Giunge qui da me e urla che dal cliente non funziona niente. Con volto serafico e tanta pazienza gli spiego che dal cliente funziona quasi tutto, e che i problemi rimasti da risolvere sono banali. Lui ha una vaga idea di quali sono questi problemi, e grida nuovamente che quei problemi “banali” stanno bloccando tutto, perciò ha ragione lui. Un po' meno seraficamente gli spiego i passaggi intermedi, come quando si spiegano le moltiplicazioni a due cifre ad un bambino. Questo funziona, quest'altro va bene, questo pure funziona, quest'altro idem: occorre verificare solo un piccolo malfunzionamento. Non credo che abbia capito. Nella sua testa c'è solo l'immagine del cliente che urla (immagine di fantasia, poiché in realtà il cliente non sta affatto urlando).
Certe volte mi chiedo perché mai mi dia sempre fastidio l'autorità. Ma poi scopro sempre che il problema non è l'autorità, ma l'autoritarismo. O meglio, lo schiavismo. Chi ha dei sottoposti, ha dei doveri in più. Chi non sa obbedire, non è capace di comandare. L'ignorante che disprezza il lavoro che non comprende e che non ha mai fatto, non può comandare di fare quel lavoro. Un vero capo sa bene quanto siano preziosi i suoi sottoposti, anche i più umili e malridotti. Raramente ho avuto un capo che abbia almeno le qualità minime indispensabili per essere capo. Molto spesso ho avuto come capi degli ignoranti e arroganti che sono stati solo di ostacolo alla realizzazione degli obiettivi che dovevo raggiungere. La tentazione della disobbedienza e dell'anarchia (e l'implicito motto del “tanto meglio tanto peggio”) trova terreno fertile quando a comandare c'è un ignorante arrogante.
Il capo mi ha chiesto se io oggi non avessi niente da fare. Una domanda del genere viene sempre formulata come accusa. Devi rispondergli che sei oberato di lavoro, anche se non è vero. Devi essere anche sufficientemente fumoso da evitare di dargli appiglio per tornare dopo mezz'ora a chiedere se hai finito.
Il lunedì mattina certe signorine pensano che il marciapiede della stazione sia la passerella della loro esclusiva sfilata di moda.
Il capo viene a interrogarmi sull'avanzamento dei lavori. Lo sa già. Lo sa che io lo so. Ma allora perché viene a domandare ossessivamente quel che entrambi sappiamo bene?