giovedì 30 giugno 2011

Era sempre stato un bravo bambino, ubbidiente, tranquillo, che sfogava i suoi istinti disegnando, costruendo e distruggendo casette, automobili, robot, aerei... Educato a parlare in italiano anziché in dialetto, educato a non seguire i cattivi esempi e le cattive compagnie, educato a rispettare la verità ma non le bugie, fu sbalordito quando scoprì il mondo delle chat. Un nuovo mondo di totale anarchia, dove si potevano dire parolacce e si poteva parlare di cose pruriginose, dove non era obbligatoria la grammatica italiana e dove ci si poteva fingere diversi da quello che si era (ci volle del tempo prima di rendersi conto che era impossibile stabilire a priori se si stesse parlando con un maschio o una femmina piuttosto che con qualcuno che cercasse di spacciarsi per tale). La prima grande scoperta fu quella che ci si poteva rivolgere alle donne usando le più basse allusioni e sconcezze, e loro anziché risentirne si compiacevano, addirittura si compiacevano! Non ci volle molto a che le nuove supreme lezioni apprese in chat debordassero nella vita reale, con i conseguenti scapaccioni e soprattutto le conseguenti delusioni: eppure ci doveva, doveva, doveva esistere un modo per realizzare quella libertà che in chat sembrava così concreta e a portata di mano. Dopo una quantità di piaceri assai scarsamente paragonabile all'immane quantità di delusioni, sta ancora cercando e non trova, sta ancora domandandosi quale minuscola cosa gli manca per trasformare tutto in godimento e perfezione, sta ancora cercando di capire perché ancora non si realizzano quelle che a suo tempo aveva interpretato come infallibili promesse.

mercoledì 29 giugno 2011

Il novantotto per cento delle attività umane è dedicato al “dimostrare qualcosa” a “qualcuno”. Questo “qualcuno” può essere anche (banalmente) una figura immaginaria, che a me piace chiamare “il resto del mondo”. Per esempio c'è quella lì che per mostrare al resto del mondo di essere ufficialmente fidanzata anche se brutta, ha fatto in modo da ottenere in pubblico comportamenti solitamente nascosti al pubblico. Il fidanzatino se la cava con una figuraccia, lei finalmente si sente più donna perché ha cominciato a dimostrare “al resto del mondo” ciò che erroneamente intendeva per femminilità e fidanzamento (ossia ciò che ha appreso dai più lerci programmi televisivi e dalle rivistine “per ragazze”, quelle rivistine meschine scritte da donne più maschiliste degli uomini, quelle rivistine che se non sei una puttanona già prima della pubertà allora non sei autorizzata a sentirti donna).
“Giuro che in vita mia non mi fiderò mai più dei commercialisti con l'orecchino a forma di stella a otto punte!” disse attraversando il corridoio mentre schiacciava i tacchi sul pavimento nel modo più rumoroso possibile. Era la terza volta che aveva avuto problemi con un commercialista, accomunato ai due precedenti solo da quell'unico strambo particolare. Alcuni giorni dopo si recava ad uno studio di commercialisti largamente raccomandato dalla sua migliore amica. “Se vedo di nuovo quell'orecchino giuro che vado via”, si ripeteva in ascensore trascurando di guardarsi allo specchio. L'amica, che aveva avuto la sua stessa brutta esperienza, l'aveva rincuorata: questi sono professionisti, sono seri, non pasticceranno, puoi star tranquilla. Entrò tremante. La segretaria l'accompagnò nello studio, proprio mentre dall'altra porta si allontanava uno dei due. Finalmente un commercialista senza orecchino di sorta. Ed ecco il suo socio, molto anziano, si sta allontanando per qualche minuto... “No, non può essere”. Ne aveva visto solo l'orecchio sinistro. “No, è così anziano, è impossibile, non può essere”. Cominciò a parlare del suo caso, fu rassicurata. Dopo più di un'ora di colloqui e di carte, il professionista le disse: “penserà a tutto il mio collega, non si preoccupi, ha anche più esperienza di me”. Un minuto dopo rientrò quello anziano, quello che si sarebbe dovuto occupare del caso che la teneva da tanto tempo sulle spine. Era elegante, si muoveva in modo discreto, doveva prendere qualcosa dallo scaffale. Ma quando si voltò, ancor prima di poterne vedere l'orecchio, uno scintillio rivelò la presenza di quel maledetto orecchino a forma di rosa dei venti.

martedì 28 giugno 2011

Un caldo bestiale. Ma non me ne lamento, perché qui abbiamo i condizionatori. Cosa sarebbe il mondo senza aria condizionata!
Solo dopo molti anni ho capito di aver a che fare con degli psicopatici. Le normalissime regole del buon vivere, del galateo, del senso comune, non valgono nulla. I capi non hanno empatia, non hanno scrupoli, non hanno rimorsi, non hanno sensi di colpa: sono psicopatici, fissati sui propri obiettivi, che spesso sono irrimediabilmente inquinati dalle loro paure più stupide e dal loro narcisismo.

lunedì 27 giugno 2011

Quando si odono persone alzare la voce per litigare, la tentazione di tutti, anche di chi è occupatissimo in altre cose, è di correre a vedere. La lite è sempre uno spettacolo, tanto più quando l'ira fa assumere contorni barbari, e specialmente quando si protrae per interi minuti: più la tensione sale, più c'è la possibilità di vedere qualche “fattaccio di sangue” (come quelli dei film in TV e un po' anche dei telegiornali) o magari scendere in campo spacciandosi per eroi pacificatori.
Gli uomini son più disposti a digerire un'umiliazione in campo sentimentale. Le donne no. L'uomo respinto e umiliato, dopo qualche giorno ritorna alla carica. La donna sa invece conservarsi per decenni con muso lungo ed espressione severa: mi hai deluso per un minuto, pagherai con cinquant'anni di indifferenza. Fanno eccezione, come al solito, le donne che odiano sè stesse.

venerdì 24 giugno 2011

Il capo impone degli obiettivi da raggiungere. Ci vogliono cinque minuti per spiegarli chiaramente, lui impiega tre ore di riunione per delinearli in una maniera che dire confusa è dir poco. All'avvicinarsi della scadenza, vista l'oggettiva impossibilità di raggiungere i risultati, un sottoposto va a presentargli le correzioni indispensabili per salvare capra e cavoli. Il capo, come se recitasse la parte di uno psicotico, nega ad una ad una ogni possibilità, preparandosi contemporaneamente ad utilizzare quel sottoposto come capro espiatorio. Morale: non conta niente raggiungere i risultati, anzi, è deleterio proporre qualcosa per ottenerli, è pericoloso prendere iniziativa. Come i carcerati del periodo staliniano, l'importante è mantenere costantemente un atteggiamento formale, freddo, asettico, senza emozioni. Il capo rispetta più le macchine che le persone: perciò con il capo bisogna essere delle macchine. Ho grande stima per quell'uomo calvo che era riuscito ad essere una macchina, al punto da permettersi di dire “sono le diciotto, riprendiamo domani”, alzarsi ed andar via. Se io mi permettessi una cosa del genere me la farebbero pagare assai cara: invece quell'uomo calvo è riuscito, con il freddo esercizio e la fredda precisione lungo freddissimi anni, a “stabilire il precedente” per cui alle diciotto in punto stacca, qualsiasi cosa succeda al mondo. Lo invidio per il risultato ottenuto, ma non lo invidio per essere diventato una gelida macchina umana.

giovedì 23 giugno 2011

La vecchia nonnetta si lascia sfuggire: “ma non ho più posto a casa”. Davvero? Vive da sola in tre vani più cucina e bagno e non c'è più posto. Solo oggi ho capito i motivi per cui si può crederle. A stento riesce a fare la spesa, portando su prodotti di alimentari e igiene e portando giù i pur pochi rifiuti. Si guastò il televisore, se ne fece portare uno nuovo, grande come il precedente. E l'altro? È ancora lì, in casa, utilizzato per almeno un anno come panca, prima di essere sommerso da altre masserizie. Si guastò il frigo, se ne fece portare uno nuovo. E l'altro? È ancora lì, in casa. Così come il freezer. Così come i divani e i letti che erano utilizzati dai figli. Dopo aver riempito tutte le mensole con giornali e masserizie, è passata ai letti, quindi ai divani, quindi alle sedie. Quella casa, in apparenza così grande, si è ridotta a metà della cucina, metà del bagno e metà della camera da letto. Non può più fare il bagno, perché il fondo della vasca perde acqua, ma ha ancora escogitato un sistema per farsi una breve doccia senza allagare il piano di sotto. Lo sciacquone funziona poco, ma non può spendere soldi per l'idraulico: tiene sempre un secchio mezzo pieno per i casi di emergenza. Metà dell'impianto elettrico di casa è andato durante quel famoso temporale, ma ha risolto legando insieme due prolunghe. Lo scaletto è inutilizzabile ma lo ha usato come mensole supplementari. Tra i libri di scuola dei bambini (di quaranta e più anni fa) ci dovevano essere anche dei soldi, molti soldi, forse anche trecentomila lire: saranno ancora nascosti lì, nessuno li tocca, magari un giorno si potrebbero recuperare per comprare qualcosa di buono. Contro gli insetti e contro i cattivi odori sparge a piene mani deodoranti, antitarme e insetticidi, rendendo così inutilizzabili tante masserizie non troppo ben conservate. Metà del grande armadio potrebbe crollare, ma ha risolto incastrandovi oggetti che non può più estrarre. Rimpiange i tempi di quando era bambina, in campagna, col caminetto, in cui poteva divertirsi a gettare tra le fiamme le cose che non servivano più (anche se i suoi avevano da ridire su questo, spesso lo facevano anche loro). In quella casa non si cammina più: c'è appena un percorso agibile tra l'ingresso e il balcone, incrociando il bagno e la cucina. Non è un problema: l'importante è potersi sedere in cucina, stendersi sul letto, lavarsi e andare al bagno: il minimo indispensabile. La nonnetta non ha più posto a casa. Nel condominio probabilmente nessuno ci fa caso: è così silenziosa, non la vedi mai nemmeno sul balcone, a stento ti accorgi che ha la TV, sai che c'è solo perché vedi una luce in cucina dopo il tramonto. Ma è inimmaginabile che nel pieno centro di Milano, in un mai sonnecchiante condominio tirato a lucido proprio di recente, possa esistere una simile caverna imbottita di vecchi e dimenticatissimi ricordi di una vecchia nonna.

mercoledì 22 giugno 2011

C'era una macchina da scrivere elettrica. Il bambino non sapeva cos'era, non ne aveva mai vista una; aveva una tastiera come quella del computer, ma non aveva il resto delle cose del computer. Aveva un rullo con un foglio di carta già inserito. Era pulita, pulitissima e invitante. Doveva, doveva, doveva assolutamente utilizzarla: glielo diceva tutta quella luce del giorno, quel bel sole primaverile che invadeva la stanza, piena di oggetti strani e di quadretti con fotografie dalla strana coloritura. La scrutò per un po', non c'era il minimo segno di polvere, cosa che per un attimo gli fece addirittura dimenticare che la stava scrutando per trovarne il tasto di accensione. La corrente c'era, il filo era a posto, la carta era dentro, cosa mancava? Finalmente trovò il tasto e l'accese: dei piccoli rumori meccanici e uno scatto del carrello confermarono che era pronta. Toccò un tasto, il carrello sobbalzò. Toccò un altro tasto, ci fu un altro scatto, sobbalzò anche lui. Aveva scritto due lettere! Ad ogni tasto che premeva, una lettera andava ad imprimersi nel foglio! Mille volta più comoda che il computer! Si sedette, e guardò la tastiera davanti a lui cercando di pensare a qualche frase da scrivere, qualche parola da immortalare. Per un po' non gli venne niente in mente, per cui si concentrò a guardare una delle foto per cercare un'ispirazione. C'erano delle persone con stranissimi occhiali da sole e dei jeans che terminavano verso i piedi in maniera talmente larga da sembrare zampe di elefante. Allora scrisse in modo sconnesso una frase su quel che aveva visto, sulla stranezza degli occhiali e sulla serata in spiaggia dove gli stessi personaggi, sempre in jeans e camicia giallina, sembravano aver concluso il barbecue. Scrisse una ventina di parole. Poi sentì chiamare il suo nome. I suoi genitori lo avevano lasciato sgattaiolare, lo avevano lasciato troppo libero. Aveva fatto in tempo a lasciare la sua firma, aveva marcato il territorio scrivendo quella frase, aveva mostrato a tutto il mondo di essere capace di utilizzare tecnologia (sebbene di più di trent'anni prima, ma non lo immaginava). Aveva perfino riposto la sedia al suo posto, come a non voler lasciare immediatamente traccia del suo passaggio e, mentre si avvicinava alla porta aperta sul corridoio, comparvero la madre e l'anziana padrona di casa. Quest'ultima aveva un'espressione di terrore in volto e, cercando di non farsi notare dalla madre del bambino, guardò in tutte le direzioni. Il letto con la trapuntina bianca era al suo posto, non ci si era seduto. La piccola collezione di lattine e bottiglie era ferma lì, sullo scaffale, senza disarmonie nelle distanze tra un pezzo e l'altro: non le aveva toccate. La scrivania era lì, con la lampada al suo posto, piegata nel solito modo: meno male. I blocchetti degli appunti erano fermi lì, con un goniometro graffiato sopra, disposto di sbieco, quasi a coprire le ultime parole scritte sul primo foglio: non è stato toccato. Il portapenne aveva la solita disposizione a pavone, con le matite colorate sull'estrema destra: meno male, non ha toccato nemmeno lì. La macchina da scrivere è al suo posto. Non sembrano essere stati mossi i quadretti sulle pareti. La pila di libri sulla mensola pure non è stata toccata (ma era troppo in alto, forse è stata una preoccupazione eccessiva guardarvi). Allarme rientrato. Finalmente gli ospiti capiranno che è ora di togliere il disturbo, specialmente in virtù del fatto che il bambino ha appena cominciato ad esplorare la casa e non vorrei che pasticciasse qualcosa. La donna anziana tirò un sospiro di sollievo quando finalmente riuscì a chiudere la porta della cameretta, di quella cameretta-tempio, di quella cameretta del figlio morto trentaquattro anni fa in quel banalissimo incidente stradale. Il tempio era stato violato ma sembrava che nulla fosse stato toccato: scampato un terribile pericolo. La donna, crucciata per tutto il tempo rimanente della fastidiosissima visita di questi due con bambino, finalmente tirò una boccata di ossigeno quando andarono via. Neanche aveva chiuso la porta di casa, che corse immediatamente nel tempio dei suoi ricordi. Aveva tenuto linda e ordinata quella cameretta fin dal giorno dopo l'incidente. Per trentaquattro anni nulla era stato cambiato. Aveva spostato qualcosa solo per togliere la polvere e per lavare il pavimento, ma aveva sempre rimesso tutto al loro posto che avevano avuto in quel novembre 1977. Un tempio per suo figlio, uno spazio di ricordi anche più bello del bel posto che aveva al cimitero. Non era la prima volta che il tempio era stato violato dalla presenza di estranei, erano più di dieci anni che al di fuori di lei non vi era più entrato nessuno. Ma per fortuna anche stavolta tutto sembrava a posto. All'improvviso, però, le si gelò il sangue: la macchina da scrivere era accesa. Percorse quei due metri con lo stesso scatto di un maratoneta, si avventò sulla scrivania, afferrandola per i lati, avvicinò il naso al carrello della macchina da scrivere e notò con orrore che vi erano scritte delle parole: «che srrana foto, ma perchè per adare al mare a fare i barbeqeu ti metti occhiali da sole strani?» Gli occhi le si riempirono di lacrime: per la prima volta in trentaquattro anni un sacrilegio, un assurdo e ingiustificato sacrilegio, da parte di un assurdo bambino portato a scorrazzare dai genitori in questa mia casa, come se questa casa fosse un parco giochi anziché la mia casa, come se questo sacro tempio fosse una sala giochi, ma perché? Tentò per un attimo di confortarsi, pensando che le amiche le avrebbero detto che quelle parole erano un messaggio di un angelo, o forse del figlio stesso, ma era chiaro che non era così: i morti non mandano mica messaggi attraverso bambini capricciosi e invadenti, queste cose succedono solo nei film cretini per ragazze cretine e casalinghe cretine. Per la prima volta in trentaquattro anni qualcuno aveva premuto e imbrattato quei tasti, la macchina da scrivere che lei aveva donato a suo figlio pochi mesi prima dell'incidente, quella macchina che in trentaquattro anni era stata accesa solo di quando in quando per scrivere poche parole e tenerla in vita, solo per inchiostrarne il nastro ed assicurarsi che funzioni ancora, come se il figlio potesse tornare da un momento all'altro per riprendere a scrivere qualcosa che aveva lasciato interrotto da trentaquattro anni... Passarono ore prima che si riprendesse dallo shock. Furono solo le urla dei ragazzi che giocavano a palla nel cortile a farla tornare alla realtà. Era ancora seduta a terra, guardava ancora quella sedia, certamente profanata anche quella dal nefasto invasore contro cui ora evocava ogni sorta di apocalittiche ed impossibili punizioni. Per la millesima volta quel giorno giurò ancora a se stessa che nessuno avrebbe mai più messo piede in quella casa. Finalmente riuscì ad alzarsi. Esitò molto prima di uscire da quella stanza e, rientrata in cucina, si accorse di non aver fame. Prese scopa, secchio, stracci, detersivo, si caricò come se dovesse pulire un grattacielo e rientrò con passo delicato nella stanza. Lasciò in giro tutte le masserizie e cominciò ad estrarre il foglio di carta (cambiava foglio ogni mese o due a causa dell'umidità). Lo portò verso il balcone, lo strappò con violenza (non voleva che quell'atto di giustizia fosse consumato all'interno della stanza) e, sebbene tentata di gettarlo fuori e vederlo volare dal terzo piano nella direzione del vento, preferì schiacciarlo nel cestello che aveva portato per la spazzatura. Spense la macchina da scrivere e la scollegò dalla presa. Con stracci delicati e con lo spray prese a pulirne minuziosamente i tasti, cercando di vedere le eventuali tracce delle luride ditate del bimbastro maledetto. Finalmente trovò una minuscola traccia di sporco dell'intruso, e la pulì con tutta la forza e la decisione possibile, quasi senza fare attenzione alla delicatezza dell'apparecchio. Pulì molto accuratamente il carrello, vi inserì un altro foglio bianco, ripulì la scrivania anche se era stata sempre pulita: doveva togliere non lo sporco, ma l'idea della presenza dell'invasore. Ripassò le sedie, riaggiustò la trapuntina anche se non mostrava neppure il segno di atterraggio di una mosca, e prese finalmente a lavare il pavimento. Verso le sei, quando dava l'ultima passata con lo straccio, si rese finalmente conto di aver fame. Portò via tutti gli attrezzi e guardò ancora una volta, tra gli ultimi raggi di sole del giorno, la cameretta-tempio nuovamente splendente. Sembrava quasi che il figlio fosse ancora lì, seduto sul letto a leggere, alla scrivania davanti alla macchina, immerso nell'armadio a rovistare tra vecchie magliette, o con la mano protesa verso l'interruttore nella tipica serale indecisione se sia il caso di accendere già il lampadario o aspettare ancora.
Dormivi beatamente, di domenica pomeriggio, quando sei stato svegliato da una telefonata imprevista di una persona imprevista. “Hai un problema”, esordisce non appena rispondi. Il problema era già la sua voce. Ancor peggio è l'annunciato “problema”. Lo squillo, il soprassalto, la voce, le parole “hai un problema”. Non è ancora cominciato niente, e già sei nel terrore.

martedì 21 giugno 2011

Tutto ciò che sapeva sul sesso lo aveva appreso dalla tv e da internet, perciò si può dire che aveva una cultura in tema abbastanza vasta, altro che le verifiche in classe. Ma ancora non sapeva la cosa più notevole, quella che nessuno le aveva mai detto. L'apprese quella sera in chat da un suo coetaneo, che forse era addirittura un compagno di scuola sotto falso nome, ma dopotutto anche lei usava un nome un po' falso, magari forse lui non sospettava, o forse sì, chissà. Era un venerdì sera, cioè uno di quei momenti in cui si sentiva sola, uno di quei momenti in cui si telefona alle amiche per chiacchierare del niente, solo per avere una voce amica, ma alla fine del giro di telefonate si sente ancora più solitudine di prima, e allora via in chat, sperando di trovare qualcosa di nuovo e di bello, e invece ci sono sempre gli stessi stronzetti e si dicono sempre le stesse cazzate. Stavolta, però, lo stronzetto di turno le aveva spiegato quella cosa colossale che lei non aveva mai saputo. Lo stronzetto si era eccitato nel parlarne, eccitatissimo, infischiandosene delle conseguenze, l'importante è il godimento momentaneo, poi via da qualche altra parte, senza pensieri, senza rimorsi, senza coscienza, senza ricordi, vivi alla giornata, sei giovane e hai il diritto di pretendere tutto quello che vuoi, sei il solo che ha ragione mentre il resto del mondo sbaglia... Lei era assetata di altre notizie, di particolari, di foto, di qualsiasi cosa, ma non ci fu verso di cavare altro: lui aveva già staccato, o forse gli era caduta la linea, chissà, e poi anche qui da lei la linea faceva le bizze, proprio il venerdì sera, proprio quando si sente sola, proprio ora la linea doveva fare storie? Si adagiò sul letto cercando di figurarsi mentalmente ciò che aveva appreso, pensando di aver scoperto chissà quale preziosissimo segreto, figurandosi di quando ne avrebbe parlato, oppure scritto, oppure addirittura fatto! Molti, molti, molti anni dopo, in una notte d'estate tra il venerdì e il sabato, lei si rigirava sul letto. Guardò l'orologio sul comodino, segnava le 3:40. Si sentì come se un treno le fosse passato addosso. “40”. Aveva quarant'anni. Aveva “goduto” una vita intera ma non aveva mai avuto un vero amore. Aveva fatto “godere” uomini per una vita intera e ora, a quarant'anni, si accorgeva di aver avuto tanti uomini ma di non aver mai avuto “un” uomo. Aveva fatto “godere” ma si sentiva sempre sola, specialmente il venerdì sera, specialmente dopo quelle interminabili chat dove dire sempre le stesse frasi, sempre le stesse parole, sempre gli stessi verbi, sempre gli stessi nomi, sempre il solito sesso, sempre, sempre, sempre... “Basta!” si diceva, “da domani si cambia vita, da domani prima il cuore e poi il sesso”. Quante volte si era rimproverata di non aver fatto nulla per cambiare, quante volte si era ripromessa, tra le lacrime di disperazione, di darsi forza e di voltar pagina... No, nulla, non era mai cambiato nulla. L'istinto prevaleva, il godimento (più altrui che proprio) ridiventava sempre la sua prima priorità. “40”. Tutte le sue amiche fidanzate, sposate, con figli, sì, magari anche divorziate, magari anche abbandonate dal marito, ma avevano vissuto, avevano avuto una famiglia, lavoro, figli, anche le divorziate potevano dire che una buona parte della loro vita era stata realizzata e completa. Lei no. Lei a quarant'anni ancora non aveva niente. Da quella volta in cui da ragazzina aveva scoperto quella cosa in chat, nulla era mai cambiato in meglio. Si sentiva ancora una ragazzina, odiava sè stessa e faceva di tutto per continuare a odiare sè stessa, e a seconda degli umori disprezzava o adorava il “godimento”. Tanto “godimento” e ora, alle soglie della menopausa, cioè del momento in cui la gioventù termina, non aveva all'attivo nient'altro che tante chat, tanto sesso (soprattutto parlato, fantasticato, discusso, raccontato), e tanta noia, maledetta noia, tantissima noia, tristezza e malinconia, nostalgia di un tempo che fu, nostalgia di quando il demone del sesso non aveva invaso la propria vita.
Grazie ad Alice nel paese delle meraviglie sappiamo quali sono i tre caratteri principali dei manager aziendali: il manager senza cervello (come lo Spaventapasseri), il manager senza coraggio (come il Leone Timido), il manager senza cuore (come L'uomo di latta). Uno di questi tre caratteri emerge prepotente in ogni manager, anche se i restanti due sono comunque massicciamente presenti. Più esattamente, sono questi tre aspetti: la paranoia, la scarsa autostima e l'insaziabile narcisismo.

lunedì 20 giugno 2011

Il meccanismo perverso è questo: prima manda via chiunque non la assecondi, poi si lamenta di essere sola e abbandonata, e quindi trova qualcuno disposto ad assecondarla un pochino di più. La minaccia di essere mandati via è sempre presente. A poco a poco lei sta operando una selezione impressionante destinata matematicamente a trovare finalmente un uomo totalmente succubo di lei. Sempreché, nel frattempo, non sia diventata talmente vecchia e isterica e insopportabile da ottenere il risultato esattamente opposto: cioè l'essere abbandonata da tutti ma proprio tutti.

venerdì 17 giugno 2011

Quella con la chioma a caschetto dorato ad un certo punto dice, con la massima naturalezza: “ho deciso: litigherò con il mio fidanzato”. Una frase agghiacciante. Ha “deciso di litigare”, cioè di cercare qualsiasi scusa pur di distruggere quel fidanzamento. Chissà, forse si è espressa male, forse voleva solo dire che si è stancata di quel rapporto, si è accorta di non essere più innamorata (meglio: di non esserlo mai veramente stata) e perciò con naturalezza decide di troncarlo. Ma no, insiste ad utilizzare il termine “litigare”. Vuole troncare quel fidanzamento in una maniera che suoni punitiva per l'ignaro fidanzato. Il quale, stando a ciò che lei racconta alla sua amica (e che io involontariamente ho udito con la massima chiarezza), ha comunque una lunga lista di colpe. Anzitutto quella dell'aver utilizzato caschetto dorato come giocattolo per divertirsi e come supplemento del proprio portafoglio. Una volta l'uomo doveva dimostrarsi economicamente solido e indipendente, ed era già un miracolo riuscire a tenerla per mano o addirittura a darle un casto bacio; oggi l'uomo si permette di rivoltarla come un calzino, di sfruttarla perfino dal punto di vista economico (fino alle più misere meschinità: “ho fame, compriamo qualcosa” da farmi mangiare, con i soldi tuoi, bella chioma dorata). Per questo solidarizzo con lei. Hai ragione: lui non merita che il rapporto venga semplicemente troncato. Lui merita una punizione, merita una sofferenza pari alla sua animalesca relazione con te (“fammi scopare, fammi mangiare”). Hai ragione nel tuo aver “deciso di litigare” con lui; scrollati di dosso quello stupido parassita, parassita di prima classe, parassita per eccellenza: meglio tardi che mai. Un uomo che ti ama davvero è capace di qualunque sacrificio per te, talvolta fino al perdonarti un tradimento. Un uomo che ti ama davvero non ti vedrà mai come un giocattolo, nemmeno nei suoi sogni. Ma questa società sta miseramente decadendo proprio perché voi donne accettate di stare insieme a dei barbari rasati e dopobarbati, che vi dicono “ti amo, ti amo, ti amo” ma in realtà intendono “fammi mangiare, fammi scopare, fammi guardare le partite”.

giovedì 16 giugno 2011

Ho trovato un altro blog dove una donna che non fa il mio stesso lavoro si lecca le ferite dovute al mobbing e dà consigli su come limitare i danni. Leggendo le sue pagine restavo a bocca aperta: ha incontrato esattamente i miei stessi problemi, esattamente nelle stesse circostanze, esattamente con le stesse dinamiche e gli stessi tempi. Il mobbing è il cancro delle aziende. Il mobbing è l'esasperazione della vecchia piaga della schiavitù. Chi fa mobbing soffre spesso di una insicurezza patologica che diventa una persecuzione nei confronti dei sottoposti (obbligati a “coprire” le insicurezze isteriche dei loro capi). Un vecchio proverbio inglese dice che la guerra determina “not who is right, but who is left”, cioè non chi ha ragione, ma chi resta in piedi.

mercoledì 15 giugno 2011

La capacità comunicativa di una persona è solitamente uguale alla sua capacità di giocare a scacchi. Ecco perché molti sovrastimano le proprie (scarse) probabilità di convincere chicchessia.
Nelle chat si descrivono tutti come dolci, allegri, socievoli, e al limite aggiungono “ma se mi fai arrabbiare...” Tutto qui? Nessuno sa descriversi, è imbarazzantissimo descriversi, perché non si sanno usare altro che le solite frasi fatte. Le solite fastidiosissime foto di gatti, le solite fastidiosissime foto di baci, le solite fastidiosissime foto che vorrebbero essere intriganti e invece sono sempre tutte uguali, tutte irreali, tutte costruite e assolutamente non naturali. Ed i soliti video, le solite canzonette, le solite noiosissime citazioni che farebbero sembrare enciclopedica anche una frase da Baci Perugina. In chat, naturalmente, è tutto un rituale prestabilito: come ti chiami, da dove digiti, età e situazione sentimentale, e poi il solito stupidario (se proprio indispensabile) prima di arrivare a parlare di cose di sesso.

martedì 14 giugno 2011

A un certo punto si vedono le sue gambe, lisce come se fossero tornite nel marmo, senza nessun difetto, nessun pelo, dal bacino alle dita dei piedi. Era per una crema. Spot successivo: un seno in primo piano, stretto da un abito con ampia scollatura, lucidissimo. Era per una bibita. Ancora il successivo: donne in biancheria intima che si dimenano lentamente. Era per un profumo. In realtà io vedo solo donne. Non ricordo i nomi di quei prodotti. Vedo donne e basta, vedo curve, vedo i “vedo-non-vedo” che però fanno capire benissimo. La tv ci vende immagini di donne, ci inonda di immagini di donne, ci riempie di immagini di donne. Vorrei dire “non se ne può più”, ma mi accorgo che non mi dispiace vederle, e che anzi sento che c'è qualcosa di strano quando su dieci spot pubblicitari non si vedono almeno dodici paia di caratteri sessuali femminili.
Qui in azienda non veniamo giudicati in base al merito ma in base all'apparenza. Prima che la qualità, guardano la quantità. Per esempio è difficile valutare la qualità del lavoro di coloro che “pianificano” le “strategie”. Così finiscono per trascurare (o dare per automaticamente raggiunta) la qualità del lavoro reale, quello che compiamo noi giorno per giorno, valutandoci in nome della quantità (e soprattutto stressandoci quando avessero la vaga sensazione che possiamo “dare di più”).

lunedì 13 giugno 2011

Una delle cose più odiose della vita è essere buttati fuori da una chat perché per un qualsiasi motivo si è invisi a qualcuno dei moderatori o dei loro leccapiedi. Regolamenti e buon senso non servono a niente: ciò che conta è l'arbitrio più totale di costoro, i “potenti” delle chat, non limitato neppure da scrupoli perché sanno che uno poi, se proprio ci tiene, butterà via un'ora di tempo per entrare con un nome falso (ma solo i perfetti psicopatici hanno sempre quell'ora disponibile). Le chat sono uno specchio perfetto della vita reale, solo che lì le cose avvengono assai più velocemente. Per i potenti delle chat basta un piccolo click sul mouse per cancellare la tua esistenza. “Sei stato sospeso da questa chat fino al 31/12/2099”. Tutto il profilo che avevi creato, tutte le relazioni che faticosamente stavi intessendo, tutte le foto che avevi caricato, tutto svanisce in un attimo, con un clic. Il delirio di onnipotenza, il diritto di vita e di morte su qualsiasi utente, rende i potenti delle chat completamente psicotici, totalmente imprevedibili, come dei drogati allo stadio violento. Non conta la verità, non conta che stavi difendendo una donna dalle cattiverie di un frustrato, non conta che avevi ragione, non conta che non avevi mai ricevuto punizioni, non conta nulla. Il bullo è amico di uno dei moderatori e chiede con una certa furia di cacciarmi via. Detto e fatto. Mi resta, da quel maledetto clic, soltanto qualche contatto su MSN. Un po' come in campagna cento anni fa con un incendio ti porta via tutta la casa, tutti i tuoi averi, tutti i tuoi soldi, e ti restano solo le maniglie della porta della stalla. Solo che ha la durata di un clic.
Lei mi respinge, mi respinge e mi respinge. Sembriamo il gatto e il topo. Il topo sono io. Come un mendicante disperato, chiedo che almeno non mi ignori. Mi ignora, mi ignora e mi ignora. Mi arrendo.

venerdì 10 giugno 2011

Nonostante siamo sotto un diluvio di informazioni audio e video, restiamo comunque in un'epoca in cui basta guardare una foto di una donna per innamorarsi.
Un capo è una persona che esprime qualcosa di ovvio utilizzando una terminologia incomprensibile.

giovedì 9 giugno 2011

Nonostante le complesse gerarchie di lavoro e di responsabilità, quanto al personale le aziende italiane sono divise in due livelli: coloro che materialmente producono e coloro che producono poco e niente. I primi siamo noi: sgobbiamo e “produciamo”. I secondi sono generalmente la dirigenza, i raccomandati, i parenti e amici del padrone, gli esperti manager, i commerciali... Non ci vuole molto a capire chi produce e chi no. Nel corso degli anni ho sempre “prodotto”, mentre i capi che di volta in volta mi venivano assegnati hanno sempre “diretto”, cioè non hanno prodotto niente. In teoria un capo, per produrre, deve alleviare le incombenze e le difficoltà dei suoi sottoposti. In pratica un capo si limita a dirigere, cioè a comandare, esigere, pretendere, studiare il modo di punire noialtri lavativi. Vale anche per incarichi che apparentemente richiedono intenso lavoro di cervello. Un manager impiega un certo numero di ore per pianificare e organizzare. Quanto sono costate quelle ore? Quanto hanno fatto guadagnare (o almeno risparmiare) all'azienda? Visto che il suo stipendio è esattamente il quadruplo del mio, devo presumere che la sua figura professionale valga per l'azienda quattro volte la mia, devo presumere che ogni ora di lavoro che fa lui faccia risparmiare quattro ore lavorative a me. Questo in teoria. In pratica quel soggetto intasca uno stipendio sproporzionato a ciò che produce per l'azienda. Sta intere giornate a cincischiare sul MSN. Si diletta ad aggiornare le più stupide voci della wikipedia, pur sapendo che qualche scemo come lui, ma di idee opposte, provvederà a rettificare, aggiustare, sminuire o esaltare (la wikipedia è l'unione tra il dilettantismo arrogante e il dilettantismo ingenuo, una gara continua a chi riesce a imporre la propria opinione travestendola da fatto documentato e condiviso). Lavorerà meno di un'ora al giorno. Vorrei sapere chi e perché lo ha assunto, e come mai solo noi (la manovalanza più bistrattata) riconosciamo la sua chiara incapacità.

mercoledì 8 giugno 2011

Il modo migliore per insultare una persona senza fare troppa fatica è colpire direttamente il suo orgoglio. Gli uomini sono molto orgogliosi di se stessi e quindi è facile colpirli. Le donne sono orgogliose invece di una miriade di piccole insignificanti cose, per cui, quando dopo tutte le ricerche si trova finalmente un punto debole, si può fare molto male con molta poca fatica. La collega dell'altra sala si è inviperita quando qualcuno ha parlato dell'omosessualità senza fare tutto il previo cappello di elogi e di dichiarazioni di tolleranza. Chissà perché si è inviperita. Neanche avessi parlato male delle sue scarpe.

martedì 7 giugno 2011

Se lo scopo dell'azienda è guadagnare, perché trattano male coloro che la fanno effettivamente guadagnare? Noialtri schiavi produciamo oggettivamente ricchezza per l'azienda. Perché maltrattarci? Perché non si maltratta invece l'aristocrazia dei nullafacenti? Se un commerciale si assenta per una o due settimane, non se ne accorgerà nessuno, perché il suo incarico è ampiamente rimpiazzabile dalle forze rimanenti. Quando una delle segretarie si assenta per maternità, non c'è bisogno di nessun rimpiazzo: vuol dire che le segretarie sono in sovrannumero. Perché? I nostri capi passano il tempo “lavorato” (poco) tra telefonate al cellulare e riunioni inutili. Sopprimiamo le inutili riunioni, che ci fanno perdere inutilmente tempo e stressano inutilmente la nostra già esigua pazienza: a loro resta il telefonino cellulare, potranno “lavorare” stando altrove (piuttosto che presidiare la macchinetta delle bevande per sgridare noialtri fannulloni perdigiorno).

lunedì 6 giugno 2011

Discutere sul problema centrale dell'azienda (cioè l'inarrestabile carriera degli incompetenti) non serve a nient'altro che a intristirci. Non possiamo cambiare il sistema. La schiavitù non si è estinta: ha soltanto cambiato nome e forma. Ma un camaleonte che cambi colore e posizione resta sempre un camaleonte.
Noi che lavoriamo dovremmo porci una domanda: di tutti gli incompetenti che qui hanno fatto carriera, quanti sono stati licenziati per incompetenza? Invece, quanti di noi (che siamo mera manovalanza) sono stati licenziati? Nessun incompetente licenziato. Manovalanza ridotta sempre di più e con modi e metodi sempre discutibili. Perché?

venerdì 3 giugno 2011

Donna medievale: “sono donna, e la mia verginità la concederò solo a colui che diverrà mio marito”. Donna moderna: “sono donna, e quindi sono libera di gettare la mia verginità nei cessi della discoteca”. La cosiddetta civiltà ha trasformato le donne in puttane orgogliose di comportarsi da puttane ma convinte di non esserlo. Per di più hanno sempre lo stesso problema: “costui mi ama così come dice, oppure dopo qualche scopata se ne va?” La donna medievale sarà stata anche bigotta, ma non aveva questo problema. Odio il bigottismo ma devo ammettere, onestamente, che essere bigotti significa ricevere molte meno delusioni. Scrivo queste righe ripensando ad un evento recente (accaduto comunque a molte donne): una donna che si chiede come mai l'uomo che tanto la corteggiava si è dileguato. Cara mia, lui diceva di amarti ma voleva solo scoparti. Quando gli hai fatto capire che lo avreste fatto solo dopo il matrimonio, a lui sono improvvisamente venuti tutti i dubbi. Già: come mai? Perché ha avuto bisogno di tutte quelle stupide scuse per allontanarsi da te? Perché prima ti era così fedele e devoto e ora è latitante e quelle poche volte che ti contatta cerca sempre di arrivare a quello stesso “dunque”? Ti sei comportata in modo “medievale” e perciò ti sei evitata almeno qualche grande delusione. “Almeno”. L'uomo che non pensa seriamente al matrimonio è solo uno squallido farfallone. Nel medioevo i farfalloni o mettevano più giudizio oppure morivano di delusioni. Oggi i farfalloni hanno vita facile perché le donne “moderne” sono più ingenue. Gettano via la verginità nei luridi cessi di una discoteca, convinte che il farsi utilizzare come giocattoli “usa e getta” sia sinonimo di essere donne moderne, emancipate, libere e sicure. Alla fastidiosa delusione di vederlo scappare di fronte all'ipotesi di dover aspettare il matrimonio, le donne moderne hanno sostituito la vera maledizione di avere accanto un uomo che dice “ti amo” ma non ama altro che il suo piacere egoista.
Stando a quel che leggo in quel sito, il numero di lesbiche dovrebbe essere elevatissimo. A me pare un'assurdità. Comunque questa notizia mi colpisce negativamente perché io fatico tanto per trovarmi una donna e poi vedo che esistono donne che non vogliono saperne niente degli uomini e che addirittura vogliono altre donne.
C'era un tempo in cui i borghesotti italiani contavano sulle tre emme: mestiere, moglie e macchina. L'autovettura, simbolo di agiatezza e di libertà per divertirsi. Il mestiere, simbolo di autonomia, di responsabilità, di capacità di tenersi a galla nei momenti difficili. La moglie, cioè il metter su famiglia, realizzazione e responsabilità allo stesso tempo. L'imborghesimento degli italiani è cominciato col piccolo boom economico del dopoguerra, cioè è cominciato da quando si è aggiunta la terza emme: “macchina”. Prima, l'uomo onesto e serio si realizzava con due sole emme: “mestiere” e “moglie”, cioè responsabilità e responsabilità. Poi è venuta la terza emme. Poi i valori sono crollati tutti, al punto che oggi si elogiano la sterilità, lo sballo, l'irresponsabilità, la capacità di estrarre soldi senza lavorare.