martedì 8 marzo 2011

L'uccelletto era accovacciato al margine della strada. Lo osservavo dalla finestra. “Non arriverà a domani”, mi diceva la cinica collega. Per un ora restò fermo al suo posto, come se aspettasse pacificamente di spegnersi. Poi balzò sulle zampe e saltellò per qualche centimetro. Dopo un po' riprese a saltellare: l'ora di riposo stava facendo effetto. Balzò ancora, attraversando lo stradone che conduceva al parco: mancavano pochi metri ancora. Non poteva volare, ma poteva riposarsi sotto le foglie, forse poteva trovare cibo. Con lo sguardo e col pensiero lo avevo seguito, sognando che trovasse riparo, che trovasse qualcosa da mangiare, che trovasse addirittura qualcuno che si prendesse cura di lui, stanco e spaventato da tutto, dolorante fino all'ultima piuma. Una grossa vettura nera lo investì, schiacciandolo con un pneumatico: era l'uscita del parcheggio. Quando me ne accorsi, mi rifugiai nel bagno a piangere. Forse non avevo davvero bisogno di piangere, ma qualche lacrima per quel poveraccio era l'unica cosa che potevo dare. Lacrime che avrebbero fatto bene forse più a me che a lui.

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