mercoledì 27 aprile 2011

Era a piedi nudi anche lui, però avevo ugualmente l'impressione che stesse facendo di proposito la strada più lunga e avanzasse senza troppa fretta. Forse lo faceva per non farmi capire il posto esatto, ignorando che conoscevo bene il villaggio sulla collina. Restai silenzioso anch'io per tutto il tratto di strada: ero già stato umiliato a sufficienza da quel suo strano sorriso un attimo prima che ci mettessimo in cammino. Avevo fame, una fame nera, e avevo una misera speranza di essere accolto anch'io. Durante il tragitto mi figuravo ogni emozionante scena di successo, perché ero vestito di stracci come lui, avevo i capelli arruffati e sporchi come i suoi, soprattutto avevo fame come lui: sarebbe stato così difficile dire di sì anche a me? Lui sembrava godere di un abbonamento, ogni giorno trovava qualcosa, forse trovava presso questa stessa casa, forse no. Cercavo di non pensare alle possibili pietanze (misere e gustose allo stesso tempo) per non provare delusione o disillusione. All'improvviso entrò in un cortiletto. Una vecchia casa in pietra grigia, ad un solo piano, senza animali: doveva abitarvi una famiglia agiata che non aveva bisogno di lavoro manuale. Fu tentato di dire “è qui” ma strozzò la seconda parola in gola e per me fu peggio di una caduta nel fiume nel giorno di Natale, perché significava che non avrebbe appoggiato in alcun modo la mia richiesta (quanto mi ero illuso fino a quel momento!) Bussò. Per un tempo lunghissimo nessuno si fece vivo. Per un paio di interminabili minuti qualche raro passante vide due cenciosi affamati bussare a quella porta. Dovevamo tener scritto a caratteri cubitali tutto l'urlo della nostra fame sulla fronte e negli occhi: qualcuno ci vide, me ne vergognai un po' ma soprattutto ne ebbi paura, perché bastava che qualcuno del villaggio mi inquadrasse come accattone per perdere tutte le future possibilità di aiuto. Stavo per proporgli di bussare di nuovo, ma aperta bocca non feci uscire suono. Lui non mi guardava, io non potevo e non dovevo rischiare di perdere la mia grande occasione solo per un po' di ansia. Per questo tacqui ancora, guardando solo il grosso pomello scuro con cui aveva bussato: sicuramente ci avranno sentito. Finalmente uno scricchiolare al di là della porta, e qualche secondo dopo entrambe le ante erano aperte a sufficienza per far entrare una persona della nostra corporatura. Lui entrò per primo ed io lo seguii mordendo disperatamente i miei nervi per evitare di dare l'impressione di aver fretta. Mi sentii come un clandestino. Eppure quando la sera prima mi ero proposto, lui aveva detto “se vuoi venire...” quindi voleva dire che se volevo, potevo venire anch'io: non me lo ero fatto ripetere due volte e mi ero addirittura presentato all'appuntamento dieci minuti prima del previsto. Lui era giunto appena tre-quattro minuti dopo e fece cenno di seguirlo (avrà probabilmente visto la mia espressione di soddisfazione, avrà probabilmente capito che avevo capito che lui aveva tentato di buggerarmi). Così, finalmente, entrai anch'io, trovandomi in quell'ingresso spoglio, lungo quattro o cinque metri e largo meno di due, senza finestre, senza mobili, con una porta in fondo a sinistra e un donnone alto e grasso con gli occhiali che ci guardava. Aprii bocca ma lui già stava parlando: “sono l'amico di suo figlio”, disse. A questo punto intervenni io ma di tutti i discorsi che mi ero preparato, mi uscirono solo tre misere parole (“sono suo amico”) che sembrarono un grottesco eco di quel che aveva detto lui e che chiunque avrebbe inteso come “ho fame anch'io”. Il donnone, celando un po' di seccatura, mi si avvicinò facendo un gesto per allontanarmi e dicendo qualcosa che non ricordo più, ma che mi sembrava che suonasse come “no, no, questo non è un ristorante”. Mi ritrovai nel cortiletto senza sapere come, e qualche attimo dopo le due porte nere si chiusero facendo un rumore sordo. C'erano delle persone lì intorno. Preso dal terrore di essere etichettato come accattone, mi diressi subito verso la stradina in discesa e andai avanti di buon passo cercando di non piangere, perché il pianto ravviva la fame e perché avrebbero capito tutti cosa era successo.

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