mercoledì 22 giugno 2011

C'era una macchina da scrivere elettrica. Il bambino non sapeva cos'era, non ne aveva mai vista una; aveva una tastiera come quella del computer, ma non aveva il resto delle cose del computer. Aveva un rullo con un foglio di carta già inserito. Era pulita, pulitissima e invitante. Doveva, doveva, doveva assolutamente utilizzarla: glielo diceva tutta quella luce del giorno, quel bel sole primaverile che invadeva la stanza, piena di oggetti strani e di quadretti con fotografie dalla strana coloritura. La scrutò per un po', non c'era il minimo segno di polvere, cosa che per un attimo gli fece addirittura dimenticare che la stava scrutando per trovarne il tasto di accensione. La corrente c'era, il filo era a posto, la carta era dentro, cosa mancava? Finalmente trovò il tasto e l'accese: dei piccoli rumori meccanici e uno scatto del carrello confermarono che era pronta. Toccò un tasto, il carrello sobbalzò. Toccò un altro tasto, ci fu un altro scatto, sobbalzò anche lui. Aveva scritto due lettere! Ad ogni tasto che premeva, una lettera andava ad imprimersi nel foglio! Mille volta più comoda che il computer! Si sedette, e guardò la tastiera davanti a lui cercando di pensare a qualche frase da scrivere, qualche parola da immortalare. Per un po' non gli venne niente in mente, per cui si concentrò a guardare una delle foto per cercare un'ispirazione. C'erano delle persone con stranissimi occhiali da sole e dei jeans che terminavano verso i piedi in maniera talmente larga da sembrare zampe di elefante. Allora scrisse in modo sconnesso una frase su quel che aveva visto, sulla stranezza degli occhiali e sulla serata in spiaggia dove gli stessi personaggi, sempre in jeans e camicia giallina, sembravano aver concluso il barbecue. Scrisse una ventina di parole. Poi sentì chiamare il suo nome. I suoi genitori lo avevano lasciato sgattaiolare, lo avevano lasciato troppo libero. Aveva fatto in tempo a lasciare la sua firma, aveva marcato il territorio scrivendo quella frase, aveva mostrato a tutto il mondo di essere capace di utilizzare tecnologia (sebbene di più di trent'anni prima, ma non lo immaginava). Aveva perfino riposto la sedia al suo posto, come a non voler lasciare immediatamente traccia del suo passaggio e, mentre si avvicinava alla porta aperta sul corridoio, comparvero la madre e l'anziana padrona di casa. Quest'ultima aveva un'espressione di terrore in volto e, cercando di non farsi notare dalla madre del bambino, guardò in tutte le direzioni. Il letto con la trapuntina bianca era al suo posto, non ci si era seduto. La piccola collezione di lattine e bottiglie era ferma lì, sullo scaffale, senza disarmonie nelle distanze tra un pezzo e l'altro: non le aveva toccate. La scrivania era lì, con la lampada al suo posto, piegata nel solito modo: meno male. I blocchetti degli appunti erano fermi lì, con un goniometro graffiato sopra, disposto di sbieco, quasi a coprire le ultime parole scritte sul primo foglio: non è stato toccato. Il portapenne aveva la solita disposizione a pavone, con le matite colorate sull'estrema destra: meno male, non ha toccato nemmeno lì. La macchina da scrivere è al suo posto. Non sembrano essere stati mossi i quadretti sulle pareti. La pila di libri sulla mensola pure non è stata toccata (ma era troppo in alto, forse è stata una preoccupazione eccessiva guardarvi). Allarme rientrato. Finalmente gli ospiti capiranno che è ora di togliere il disturbo, specialmente in virtù del fatto che il bambino ha appena cominciato ad esplorare la casa e non vorrei che pasticciasse qualcosa. La donna anziana tirò un sospiro di sollievo quando finalmente riuscì a chiudere la porta della cameretta, di quella cameretta-tempio, di quella cameretta del figlio morto trentaquattro anni fa in quel banalissimo incidente stradale. Il tempio era stato violato ma sembrava che nulla fosse stato toccato: scampato un terribile pericolo. La donna, crucciata per tutto il tempo rimanente della fastidiosissima visita di questi due con bambino, finalmente tirò una boccata di ossigeno quando andarono via. Neanche aveva chiuso la porta di casa, che corse immediatamente nel tempio dei suoi ricordi. Aveva tenuto linda e ordinata quella cameretta fin dal giorno dopo l'incidente. Per trentaquattro anni nulla era stato cambiato. Aveva spostato qualcosa solo per togliere la polvere e per lavare il pavimento, ma aveva sempre rimesso tutto al loro posto che avevano avuto in quel novembre 1977. Un tempio per suo figlio, uno spazio di ricordi anche più bello del bel posto che aveva al cimitero. Non era la prima volta che il tempio era stato violato dalla presenza di estranei, erano più di dieci anni che al di fuori di lei non vi era più entrato nessuno. Ma per fortuna anche stavolta tutto sembrava a posto. All'improvviso, però, le si gelò il sangue: la macchina da scrivere era accesa. Percorse quei due metri con lo stesso scatto di un maratoneta, si avventò sulla scrivania, afferrandola per i lati, avvicinò il naso al carrello della macchina da scrivere e notò con orrore che vi erano scritte delle parole: «che srrana foto, ma perchè per adare al mare a fare i barbeqeu ti metti occhiali da sole strani?» Gli occhi le si riempirono di lacrime: per la prima volta in trentaquattro anni un sacrilegio, un assurdo e ingiustificato sacrilegio, da parte di un assurdo bambino portato a scorrazzare dai genitori in questa mia casa, come se questa casa fosse un parco giochi anziché la mia casa, come se questo sacro tempio fosse una sala giochi, ma perché? Tentò per un attimo di confortarsi, pensando che le amiche le avrebbero detto che quelle parole erano un messaggio di un angelo, o forse del figlio stesso, ma era chiaro che non era così: i morti non mandano mica messaggi attraverso bambini capricciosi e invadenti, queste cose succedono solo nei film cretini per ragazze cretine e casalinghe cretine. Per la prima volta in trentaquattro anni qualcuno aveva premuto e imbrattato quei tasti, la macchina da scrivere che lei aveva donato a suo figlio pochi mesi prima dell'incidente, quella macchina che in trentaquattro anni era stata accesa solo di quando in quando per scrivere poche parole e tenerla in vita, solo per inchiostrarne il nastro ed assicurarsi che funzioni ancora, come se il figlio potesse tornare da un momento all'altro per riprendere a scrivere qualcosa che aveva lasciato interrotto da trentaquattro anni... Passarono ore prima che si riprendesse dallo shock. Furono solo le urla dei ragazzi che giocavano a palla nel cortile a farla tornare alla realtà. Era ancora seduta a terra, guardava ancora quella sedia, certamente profanata anche quella dal nefasto invasore contro cui ora evocava ogni sorta di apocalittiche ed impossibili punizioni. Per la millesima volta quel giorno giurò ancora a se stessa che nessuno avrebbe mai più messo piede in quella casa. Finalmente riuscì ad alzarsi. Esitò molto prima di uscire da quella stanza e, rientrata in cucina, si accorse di non aver fame. Prese scopa, secchio, stracci, detersivo, si caricò come se dovesse pulire un grattacielo e rientrò con passo delicato nella stanza. Lasciò in giro tutte le masserizie e cominciò ad estrarre il foglio di carta (cambiava foglio ogni mese o due a causa dell'umidità). Lo portò verso il balcone, lo strappò con violenza (non voleva che quell'atto di giustizia fosse consumato all'interno della stanza) e, sebbene tentata di gettarlo fuori e vederlo volare dal terzo piano nella direzione del vento, preferì schiacciarlo nel cestello che aveva portato per la spazzatura. Spense la macchina da scrivere e la scollegò dalla presa. Con stracci delicati e con lo spray prese a pulirne minuziosamente i tasti, cercando di vedere le eventuali tracce delle luride ditate del bimbastro maledetto. Finalmente trovò una minuscola traccia di sporco dell'intruso, e la pulì con tutta la forza e la decisione possibile, quasi senza fare attenzione alla delicatezza dell'apparecchio. Pulì molto accuratamente il carrello, vi inserì un altro foglio bianco, ripulì la scrivania anche se era stata sempre pulita: doveva togliere non lo sporco, ma l'idea della presenza dell'invasore. Ripassò le sedie, riaggiustò la trapuntina anche se non mostrava neppure il segno di atterraggio di una mosca, e prese finalmente a lavare il pavimento. Verso le sei, quando dava l'ultima passata con lo straccio, si rese finalmente conto di aver fame. Portò via tutti gli attrezzi e guardò ancora una volta, tra gli ultimi raggi di sole del giorno, la cameretta-tempio nuovamente splendente. Sembrava quasi che il figlio fosse ancora lì, seduto sul letto a leggere, alla scrivania davanti alla macchina, immerso nell'armadio a rovistare tra vecchie magliette, o con la mano protesa verso l'interruttore nella tipica serale indecisione se sia il caso di accendere già il lampadario o aspettare ancora.

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