mercoledì 20 luglio 2011

“Abbiamo guastato l'apparecchio”, mi dice depresso il collega. “No, forse è solo come quella volta ad aprile”, gli rispondo io. “Non è la stessa cosa di aprile”. Restiamo in silenzio alcuni secondi. Lui ha verificato, io no. Lui parlava dopo aver verificato, io parlavo basandomi solo sulle mie speranze. Lui aveva osservato, ragionato, espresso un risultato; io non avevo osservato, non tentavo di ragionare, parlavo non per dare un risultato ma per esprimere una speranza, come se lo avessi voluto convincere a sperare, come se fosse più importante il convincerlo che il rimediare al danno. Abbiamo tutti questo stesso maledetto vizio: di fronte alle difficoltà ci rifugiamo nei sogni e li chiamiamo speranze. Chiamiamo “speranza” quello che è il nostro sogno di magica risoluzione dei problemi. Chiamiamo “speranza” il nostro tentativo di convincere altri a credere al nostro sogno, perché di fronte ad una brutta notizia il primo tentativo che facciamo è quello di schiacciare sulla realtà i nostri sogni, pretendere che il problema non esista solo perché ci piace sognare che non esiste. Quei secondi di silenzio sono stati la mia onestà, il mio prendere atto della brutta situazione. Ma non era una virtù mia. Qualche settimana fa si era presentata una situazione simile, ma le parti erano invertite. Lui tentava di convincermi a credere al suo sogno, mentre io freddamente gli ricordavo la dura realtà. Sono stato silenzioso in questi attimi proprio ricordando quell'episodio. Chiamare “speranze” i propri sogni è un modo cinico di illudere se stessi e gli altri.

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