mercoledì 18 maggio 2011

C'è la foto di un famoso ecclesiastico sul giornale, con una lunga intervista. Non me ne importa niente della chiesa, perciò leggo ugualmente l'articolo. Leggo con la remota speranza di trovare qualcosa di cui accusarlo, qualcosa su cui dire ai colleghi: “ecco, vedete?” Invece non trovo niente. Tante chiacchiere fumose, tanti concetti espressi con una quantità enorme di inutili parole, sinonimi, ripetizioni, tante inutili chiacchiere. Diluviare parole è tipico di chi non vuole parlare oppure non ha niente da dire. L'ecclesiastico lì non ha assolutamente nulla da dire: perciò inonda di parole l'interlocutore. Che pena dev'essere stata per l'intervistatore il trascrivere quelle chiacchiere. Che pena dev'essere per i lettori che si ostinano a leggere l'intervista: “è un ecclesiastico famoso, dunque dirà qualcosa di importante”: e invece no, non dice niente di importante, anzi, non dice proprio niente, e per dire questo “niente” usa una valanga di parole. Ma allora a cosa serve? Perché gli è stato concesso un alto grado ecclesiastico se è incapace di far altro che aereare la sua ugola? Ecco: è un'altra prova del suicidio della chiesa cattolica. O non sono stati capaci di capire che è un inetto (per cui la gerarchia diventa un'accozzaglia di dilettanti allo sbaraglio) oppure è stato scelto proprio perché è uno che parla tanto senza dir nulla (e allora la gerarchia ha semplicemente tradito il suo scopo). Se fosse un luminare della matematica, pretenderemmo che ci parli di matematica, no? Vorremmo che ci facesse capire qualcosa della matematica, no? Se un luminare della matematica parlasse di concetti fumosi che con la matematica non c'entrano praticamente per niente, lo seppelliremmo sotto una montagna di sbadigli e lo dimenticheremmo del tutto. Invece il famoso ecclesiastico guadagna un'ampia intervista dopo l'altra, dove non dice niente di niente.

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