martedì 13 settembre 2011

Ero giunto in stazione pochi minuti dopo le 13: la stazione era deserta. Un segnale di avviso indicava un treno in arrivo o in transito. Andai al marciapiede dei binari 2 e 3, dove avevo visto l'unico foglio orari utile. Non avevo più forza per muovermi. Passò un costosissimo treno di lusso, mentre mi accorgevo che il mio primo treno utile era a più di due ore e mezza: di domenica non ferma quasi nessun treno a Erborina Sabina. Per fortuna la tettoia mi riparava da quel sole che spaccava le pietre. Ero stato gentile con il loro ospite, stavo per offrirmi di portar su il passeggino ma ancor prima che proferissi parola me lo aveva detto il lugubre capo. Io, che detestavo i bambini, avevo coccolato il marmocchio, per tenermi buono il capo e forse anche per fare impressione sulle vicine di casa del terzo piano. Quasi nessuno degli invitati mi aveva rivolto la parola, però sono certo che qualcuno di loro aveva parlottato di me col capo. Aspettai quegli interminabili convenevoli, in mezzo a quella quindicina di invitati che faceva di tutto per non dare a vedere che mi aveva notato. Il capo, dopo un po' di tempo, era riapparso (che si fosse dileguato per darmi ad intendere che non c'era un orario preciso per la partenza? sperava che me ne andassi?) e finalmente diede il segnale che era ora di andar via. Quando fummo nel cortile, non capii se ci fosse posto anche per me, ma si affannarono tutti nelle auto come per rispettare un ordine prestabilito. Un posto c'era: nell'auto con il capo, quella davanti alla colonna. Ma volevano liberarsi di me, era evidente. A cominciare dal capo. Mi avviai a piedi, girando lentamente intorno all'auto del capo col posto libero, ma quando passai voltò altrove lo sguardo, sempre con quel falso sorriso sulle labbra: non voleva a che fare con me, per coerenza con i suoi errori aveva deciso di fingere che non esisto. Uscii dal cortile e mi avviai per strada. Una strada di quelle dove è pericoloso camminare anche al ciglio, perché lì in periferia corrono tutti come matti. Non ero riuscito a vincermi: volevo essere chiamato, non volevo mendicare, perché se lo avessi fatto avrebbe risposto di no. Per parecchi minuti proseguii aspettando di vedere da un momento all'altro la loro colonna di auto, ma non comparvero. Neppure dopo il fatidico incrocio. Proseguii a piedi per ore, nell'indifferenza generale degli automobilisti frettolosi, finché trovai la stradina che portava verso la stazione. Era ora di pranzo, avevo camminato di buon passo ma non avevo fame. La stradina si interrompeva bruscamente: lavori in corso. Proseguii comunque, accorgendomi che la stradina terminava lì in mezzo ai campi, alle zolle riarse, a distanza da alcuni alberi. Avevo fretta di arrivare alla stazione, non mi fermai neanche quando sentii le lontane imprecazioni di un agricoltore per avergli pestato una vecchia fascina di rami e paglia. Finalmente arrivai in vista del piazzale della stazione, una stazione in mezzo al nulla, un fabbricato, tre binari, una tettoia. Avevo camminato per più di cinque ore, ero esausto. Il mio treno era alle 15:43. Prima delle 17:30 sarei giunto a casa. Il capo mi aveva ignorato, come previsto. Avrà fatto chissà che giri per non incrociarmi, per non essere costretto dal galateo a suggerirmi un passaggio in macchina. Ostinato nella sua persecuzione, mentre i suoi reggicoda lo imitano e lo assecondano, senza sapere che un giorno la stessa sorte potrebbe toccare a loro.

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