venerdì 4 giugno 2010

Come al solito. Arriva il capo, trafelato, telefonante. Mentre parla a telefono, parla anche con noialtri: ci guarda, con aria accusatoria, e chiede: “e allora?” Vorrei rispondere “allora-cosa?” ma resto in silenzio. Il cliente si lamenta, qui non è pronto niente, vi avevo già detto che dovevate fare, eccetera. La solita solfa. Gli sorrido (ma è un'espressione di nervosismo) e gli dico che quelle cose che mi sta comandando adesso, di venerdì pomeriggio, le ho dovute fare nei ritagli di tempo tra una telefonata e l'altra. Continua a dirmi che se il cliente non vede tutto pronto si lamenterà ancora, e tutte le altre cose che già sappiamo. Ci tratta (e tratta soprattutto me) come se fossimo dei bambini capricciosi e smemorati. Per accusarlo di mobbing bisognerebbe riuscire a descrivere esattamente il suo comportamento, in modo tale che sia riconoscibile come tale anche ai suoi tirapiedi. Ma non ho le parole. Chi subisce il mobbing ha come prima grande difficoltà il trovare le parole adatte per descrivere cosa ha subìto. Lagnarsi per quello che si subisce, va bene in un blog, ma non in una denuncia. In un blog ti capiranno anche se non sai usare un linguaggio legalmente ineccepibile.

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